giovedì 31 gennaio 2008

Iraq, un milione di morti dalla caduta di Saddam

l’Unità 1.2.08
Iraq, un milione di morti dalla caduta di Saddam

LONDRA Sono più di un milione gli iracheni morti a causa del conflitto dall’invasione guidata dagli Stati Uniti nel 2003: sono questi i risultati di una ricerca condotta da una delle principali società di sondaggi britanniche. L’Opinion Research Business (Orb) interpellando 2.414 adulti, ha scoperto che il 20% delle persone ha avuto almeno un morto nel loro nucleo familiare a causa della guerra.
Secondo i dati dell'ultimo censimento della popolazione in Iraq, effettuato nel 1997, nel Paese ci sono 4,05 milioni di nuclei familiari, una cifra su cui Orb si è basata per calcolare che approssimativamente 1,03 milioni di persone sono morte a causa della guerra. Il margine di errore dell'indagine, condotta tra agosto e settembre 2007, è stato stimato intorno all'1,7%, quindi il numero delle vittime potrebbe oscillare fra 946.258 e 1,12 milioni.
La ricerca ha interessato 15 delle 18 province irachene. Fra quelle non incluse figurano due delle regioni più turbolente - Kerbala e Anbar - e la provincia settentrionale di Erbil, dove le autorità hanno rifiutato il permesso di effettuare l'indagine.
Il portavoce del ministero degli interni iracheno, generale Abdul Karim Khalaf, ha definito «immaginari» i risultati della ricerca. «I dati riferiti da questo centro non hanno alcun legame con la verità e con la realtà», ha detto. Dal 2005 il ministero degli interni iracheno ha iniziato a fornire mensilmente i dati delle vittime dell'ondata di violenza in Iraq. In base a questi dati, le vittime irachene - tra morti e feriti - sarebbero state 25.000 nel 2005, 30.000 nel 2006 e circa 15.000 nel 2007, per un totale di circa 70.000.

mercoledì 30 gennaio 2008

L'acqua si riscalda, la vita scompare

L'acqua si riscalda, la vita scompare

Repubblica.it del 30 gennaio 2008

di Elena Dusi

Il blu è il colore del deserto, dove né alghe né pesci trovano cibo per nutrirsi, l'acqua è un brodo caldo e insipido e tutto ciò che è vita preferisce restare alla larga. Questo tipo di vuoto si trova sempre più spesso negli oceani, in aree che diventano più vaste con il progredire del riscaldamento climatico. Il satellite della Nasa "SeaWiFs" ha calcolato che dal '96 a oggi le superfici marine prive di vita sono aumentate del 15 per cento: l'equivalente di 6,6 milioni di chilometri quadri in più. Tra acque e terre emerse, i deserti coprono ora il 40 per cento della superficie del pianeta. "Abbiamo osservato questo fenomeno in tutti i grandi oceani" spiega Jeffrey Polovina del National Marine Fisheries Service statunitense, autore di uno studio sulla salute degli oceani in via di pubblicazione sulla rivista Geophysical Research Letters.

Visto dallo spazio, il mare senza vita assume un colore blu cupo, di contro al verde-clorofilla delle aree nelle quali la catena alimentare prospera in tranquillità. Al paradosso del deserto in mezzo all'acqua, si aggiunge quello del pianeta diventato troppo azzurro, privo di quel verde da cui traggono nutrimento pesci e cetacei. Il fenomeno del riscaldamento delle acque superficiali che blocca la circolazione delle correnti e lo scambio di sostanze nutritive tra gli strati dell'oceano non è scoperta di oggi. "Ma nessuno dei nostri calcoli aveva previsto un progresso così rapido" scrive Polovina. "Negli ultimi 9 anni i deserti si sono estesi con una rapidità 10 volte superiore al previsto". Nei mari italiani la situazione è ancora più grave: "L'estensione delle aree desertiche nel Tirreno e nell'Adriatico si aggira intorno al 20 per cento" spiega Silvio Greco, ricercatore dell'Icram, Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare. "L'interruzione della circolazione dell'acqua agisce su un ecosistema già compromesso da pesca eccessiva e inquinamento".

La mancanza di inverni rigidi impedisce all'acqua di superficie di raffreddarsi e quindi di sprofondare verso gli strati bassi degli oceani. Dagli abissi, normalmente, è l'acqua tiepida a risalire, portando in superficie i nutrienti di cui è ricca. La decomposizione degli organismi marini riempie infatti i fondali di sali come nitrati e fosfati: sostanze che negli abissi sono destinate a rimanere inutilizzate, mentre in superficie, unite al calore e alla luce del sole, permettono alla fotosintesi clorofilliana di innescarsi all'interno di alcune minuscole alghe unicellulari. Ed è proprio con la trasformazione di sostanze inorganiche come i sali in elementi organici che ha inizio il fenomeno della vita.

Ciò che accade sulla terra con la catena di erba, animali erbivori e carnivori predatori, si ripete (o almeno dovrebbe) negli oceani. Nelle aree che appaiono verdi agli occhi del satellite, le alghe unicellulari nutrono esseri viventi sempre più grandi e complessi, fino alle balene. Ma al centro dei grandi oceani, lontano dalle foci dei fiumi che rilasciano comunque una qualche forma di sostanza nutriente, ancorché drogata dall'inquinamento, il satellite della Nasa di anno in anno ha trovato zone verdi sempre più striminzite. L'assenza di clorofilla ha tranciato di netto la catena alimentare, allontanando una dopo l'altra tutte le specie viventi dalle zone blu. "L'estensione dei deserti negli oceani - scrive Polovina - è correlata all'aumento della temperatura superficiale. Il fenomeno si sta espandendo rapidamente, soprattutto nell'Atlantico settentrionale. Ma nessun bacino si salva, a eccezione dell'Oceano Indiano meridionale".

Ogni anno, in media, l'area dei deserti blu si amplia di 800mila chilometri quadrati. E dire che una delle strategie escogitate per combattere l'effetto serra consiste proprio nell'aumentare la popolazione delle alghe unicellulari, gettando ferro e altri sali nutrienti nell'oceano. Accelerando la fotosintesi clorofilliana, infatti, gli scienziati sperano di aumentare l'assorbimento di anidride carbonica da parte delle alghe, ripulendo l'atmosfera dal gas serra che rimane l'indiziato numero uno per il fenomeno del riscaldamento climatico.

Sempre più convinti che i cambiamenti in atto siano opera dell'uomo e delle sue attività industriali sono anche gli scienziati della Geological Society of America. Negli ultimi due secoli, tanto profonde sono state le cicatrici inferte alla Terra e alla sua atmosfera dalla nostra specie, che i geologi statunitensi hanno proposto di ribattezzare l'era attuale "Antropocene": età dell'uomo. Caratterizzata da alte concentrazioni di piombo nell'aria e nell'acqua, un'inondazione di anidride carbonica e altri gas serra nell'atmosfera, dighe che imbrigliano i fiumi e impediscono ai sedimenti fertilizzanti di riversarsi nel mare, oceani più poveri di vita e di un blu sempre più intenso.

In Italia scompaiono le api «Colpa di clima e veleni»

In Italia scompaiono le api «Colpa di clima e veleni»

Corriere della Sera on line del 30 gennaio 2008

di Elvira Serra

Leggi api e pensi miele. Ingenerosamente. Perché queste piccole operaie dorate concorrono in maniera determinante nella produzione di pere, mandorle, agrumi, pesche, kiwi, ciliegie, cocomeri, zucchine, pomodori, soia, colza. Per non parlare del contributo che danno alla filiera della carne, impollinando i prati di erba medica e trifoglio destinati agli animali da allevamento. Oggi, però, leggi api e pensi estinzione.



L'allarme lo lancia l'Agenzia per la protezione dell'ambiente e i servizi tecnici (Apat): nel 2007 l'Italia ha perso duecentomila alveari, con un danno stimato in 250 milioni di euro. Al Nord la moria delle api ha toccato il 50%. E le perdite si contano anche in Europa e negli Stati Uniti. Qui, in particolare, il Colony Collapse Disorder, il tremendo fenomeno dello spopolamento, ha raggiunto punte del 70%. «I cambiamenti climatici, l'inasprimento delle infezioni da virus e l'inquinamento da fitofarmaci sono gli imputati principali», risponde Francesco Panella, presidente dell'Unione apicoltori (Unaapi).



L'anno scorso, nel periodo delle semine nella pianura lombarda, è scomparso il 20% delle sue bottinatrici, cioè le api che portano nell'arnia il bottino: nettare, polline, acqua e melata. Coldiretti e Confederazione italiana agricoltori sono in allerta. «L'apporto economico di questi imenotteri al comparto agricolo è di circa 1.600 milioni di euro l'anno», spiega l'Apat. Ma il problema non è soltanto finanziario. «L'ape è un bioindicatore, ai primi sintomi che qualcosa non va muore», aggiunge Isidoro Furlan, del Corpo forestale dello Stato. E infatti il ministro dell'Ambiente parla di allarme «che riguarda l'agricoltura, ma anche l'equilibrio del nostro ecosistema, e conferma tutte le preoccupazioni emerse dalla Conferenza nazionale sui cambiamenti climatici di settembre».



Il presidente onorario di Legambiente Ermete Realacci (Pd) è pratico: «In Italia ci sono circa 50 mila apicoltori, un milione e 100 mila alveari, si producono oltre 10 mila tonnellate all'anno di miele e 20 mila vengono consumate. È urgente adottare ogni misura necessaria». Come vietare l'uso dei pesticidi nicotinoidi. «La Francia lo ha già fatto — dice l'entomologo Giorgio Celli, autore de La mente dell'ape —. Hanno un effetto tossico simile a quello della nicotina, straordinariamente distruttivo per le api, che perdono l'olfatto e il senso di orientamento, e in queste condizioni muoiono». L'intuizione di Albert Einstein non è incoraggiante: «Se l'ape scomparisse dalla faccia della terra, all'uomo non resterebbero che quattro anni di vita».

Da discarica a nosocomio di lusso ecco la clinica dei morti viventi

Da discarica a nosocomio di lusso ecco la clinica dei morti viventi
Repubblica.it del 30 gennaio 2008

di Attilio Bolzoni
La clinica dei morti viventi è sulla collina più alta. Le tre vecchiette hanno quasi un secolo l'una e sono imbambolate davanti alla finestra, bisbigliano frasi senza senso, forse pregano con lo sguardo perso verso il mare. Le infermiere le imboccano, stasera c'è pastina con l'olio e formaggio magro.

Loro sembrano indifferenti, lontane dai dolori e dagli orrori di questo lager mafioso a cinque stelle dove sopravvivono facendo ricco l'onorevole boss. Eccola qui la Sanità calabrese che brilla di fuori e ammazza di dentro. Eccola qui Villa Anya, la clinica dei morti viventi del dottore Domenico Crea, consigliere regionale e padrone di Melito Porto Salvo, quindicimila fra sudditi e vittime, trenta chilometri di rovina sulla vecchia statale che scende diritta fino a Reggio.

Somiglia proprio a una villa in mezzo a tutte quelle macerie della Calabria. L'ultimo sole che cala sul mar Ionio le dà uno splendore da brivido fra quei cubi di tufo che chiamano case, scheletri di cemento, saline abbandonate, la vecchia ferrovia. Eccola qui la cassaforte personale del mafioso che a volte si travestiva da politico e da politico faceva sempre il mafioso, una combinazione da sessanta posti letto e sessanta pazienti che per lui erano come sacchi della netturbe. Sacchi umani. Ogni sacco una retta. Ogni retta un po' di soldi in più da investire. Sempre là, sempre nella Sanità calabrese, l'albero della cuccagna.

E' sua Villa Anya, più sua di tutto quello che c'è intorno e che ha considerato tutto proprietà privata. "Dopo che mi sono mangiato un patrimonio, adesso rischio che mi perdo tutto per quel cornuto", imprecava l'onorevole boss quando un funzionario della Regione onesto, all'inizio della sua impresa, chiedeva certificati buoni e non carte fasulle per far nascere quella clinica nel deserto di Melito Porto Salvo. L'ha messo a posto il funzionario. Con qualche telefonata. Con i "consigli" di qualche amico dei paesi sopra Africo.

Chi saranno mai quelle tre vecchiette ultranovantenni che mangiano pastina con l'olio al tramonto? Saranno quelle vive o saranno quelle morte delle cartelle cliniche taroccate? Una sarà Maria? E l'altra con la vestaglia azzurra sarà Michelina? E la terza con lo scialle scuro sulle spalle sarà Domenica? Morte, vive, pagano tutte a Villa Anya. Paga la Regione. Paga la Sanità in contanti e sempre alla Premiata Ditta "Crea e Crea" di Melito Porto Salvo.

E' dietro l'ultima curva Villa Anya. Ci sono le palme nane, il prato inglese, ci sono gigantesche anfore di terracotta e i parenti dei pazienti raccolti fuori dalla clinica "per la disgrazia capitata" ai loro benefattori che tanto hanno fatto per loro e per le loro famiglie. E poi le luci, tante luci che illuminano i tre piani di Villa Anya, le scale, la palestra, i saloni, le trenta ampie stanze, i lunghi corridoi e la mensa, tutto luccica, tutto profuma di disinfettante e di bergamotto in questa residenza un po' ospedale e un po' ricovero che il consigliere regionale Domenico Crea si è conquistato per conquistare Asl, assessorati, ospedali, funzionari regionali, medici, infermieri, commissari straordinari, direttori generali.

Villa Anya. I suoi muri sono fatti di 'ndrangheta, i suoi pilastri e le sue fondamenta sono fatte di 'ndrangheta. La frazione è quella di Annà, il paese di Melito Porto Salvo con le sue indecenze costruttive è più giù, sul mare.

I dipendenti sono 79. Tre i medici generici, due specialisti, uno psicologo, un assitente sociale, quattro educatori, quindici infermieri, una trentina di operatori sociosanitari, i portantini, due cuochi, gli amministrativi. E tutti, tutti rancorosamente oggi se la prendono con i carabinieri, con la Finanza, con i magistrati. Dicono: "La realtà è questa bella clinica non quelle intercettazioni rubate, parole solo parole. Questa è una clinica modello". Si sentono "mortificati" perché l'hanno chiamato l'ospedale degli orrori, si sentono "spiati" dalle microspie, si sentono perseguitati dagli sbirri "che sono dappertutto". Dice l'infermiere Francesco Reggio: "L'onorevole chiarirà tutto e noi siamo lavoratori onesti". Dice il medico Maurizio Romeo: "Qui funziona tutto a meraviglia, un esempio, un esempio per tutta la Sanità". Dice Pasquale Catanoso, nipote di una paziente ricoverata a Villa Anya da quando Villa Anya ha aperto: "Quando sarò vecchio e non più autosufficiente solo in un posto vorrò vivere, io mia moglie e tutta la mia famiglia: qui a Villa Anya". E' il popolo di Melito Porto Salvo per la difesa della clinica dei morti viventi. E' la Calabria che non vede e che non sente.

Dove c'erano le palme nane c'era una volta una discarica che l'onorevole boss ha trasformato in una miniera di diamanti. E' cominciata così la storia di Villa Anya. Il resto l'ha fatto Domenico Crea per suo conto e per conto di quegli "amici" che gli portano voti e gli danno protezione. "Con quel cornuto sto risolvendo tutto, le cose non sono come devono essere", raccontava il boss onorevole quando, il 20 dicembre del 2001, sentiva già sua quella clinica ma alla Regione e all'Azienda ospedaliera di Reggio Calabria ancora qualcuno non firmava quello che doveva firmare. Aveva già nominato la moglie Angela amministratice unica di Villa Anya e "quel cornuto" - il solito burocrate che non ci vedeva chiaro - non si decideva ad aggiustare la pratica come doveva. Carte false che non "camminavano".

E poi c'era anche l'"agibilità" della clinica che non arrivava. Per la rete fognaria che il Comune di Melito Porto Salvo non aveva ancora collaudato. "Porco d.. a me intersessa solo quel certificato maledetto, non me ne fotte niente dell'allaccio", urlava ancora l'onorevole mafioso a un certo Nicola che terrorizzato non osava rispondergli. E Crea che che gli ripeteva: "Se quello fa qualche cazzata, parola d'onore, per una cosa di questa stavola lo ciunco". Lo ciunco, gli faccio male. Minacciava. Ordinava. Preparava i documenti. E gli altri obbedivano. Si erano tutti messi a lavorare giorno e notte a Melito Porto Salvo, per finire i lavori del depuratore e fare l'allaccio alla clinica del loro padrone. Quello che sapevano bene che era - così scrivono i magistrati nella loro ordinanza - "il cavallo vincente delle tre cosche dello Ionio". E' nata così Villa Anya, la clinica dei morti viventi.

Il giorno dell'inaugurazione - quello che Domenico Crea aveva previsto per l'inaugurazione del suo lager a cinque stelle - l'onorevole boss era tirato come una corda di violino. Il Dipartimento regionale alla Sanità l'aveva fatto penare. Troppo. Troppo per uno come lui. Una mancanza di rispetto.

"Che fa, mi prendono in giro? Siccome io devo fare l'apertura, figghioli non è che devo venire là, se vogliamo essere delle persone serie", avvertiva Crea. Il direttore generale alla Sanità lo ascoltava e poi informava l'assessore regionale Gianfranco Luzzo (quello del precedente governo di centrodestra) e l'assessore faceva contento il boss onorevole. Un anno dopo anche l'Asl 11 di Reggio Calabria gli fa un contratto da 500 mila euro "per le prestazioni di ricovero".

Minacciavano tutti in famiglia. Anche il figlio Antonio, il direttore sanitario di Villa Anya. "Se mi incazzo non guardo in faccia nessuno, io sono liquido, perché siamo e ragionaniamo, ma se mi incazzo non guardo in faccia a nessuno.. il mio non me lo toglie nessuno: o me lo prendo con l'intelligenza o me lo prendo con la forza" diceva a un amico. E raccontava di suo padre: "Quando lui va all'Asl (di Reggio ndr) tutti si mettono sull'attenti".

Padre e figlio. Medico uno e medico l'altro. Lo stesso marchio, la stessa prepotenza. Finanziatore Domenico - con i risparmi "tenuti dentro il materasso" - e direttore sanitario Antonio. Davano ordini a Villa Anya. E all'Asl. E al Dipartimento Sanità della Regione. E quando i loro ordini non bastavano, allora gridavano "cornuti" a tutti e poi chiamavano i loro amici della Locride. I soldi, a Villa Anya, prima o poi arrivavano sempre.

martedì 29 gennaio 2008

Ogni anno 2,4 milioni di vittime per colpa delle emissioni nocive

Ogni anno 2,4 milioni di vittime per colpa delle emissioni nocive
Il Sole 24 Ore del 29 gennaio 2008, pag. 3

di Nicol Degli Innocenti

Il dibattito globale sui cam­biamenti climatici e l'effetto ser­ra continua a ignorare un aspet­to cruciale: l'impatto di lungo termine sulla salute pubblica. Questo l'allarme lanciato da «The Lancet», la prestigiosa ri­vista medica, che ha pubblicato una serie di studi sull'argomen­to condotti da venti scienziati ed esperti di tutto il mondo (per l'Italia la Fondazione Eni-Enrico Mattei) coordinati dalla London School of Hygiene and Tro­pical Medicine.



Si parla spesso dell'impatto negativo dell'inquinamento sulla Terra ma non dell'effetto spesso devastante prodotto sulla salute dei suoi abitanti. Gli effetti variano drasticamen­te in zone diverse del mondo: nei Paesi industrializzati ad esempio è l'inquinamento del­l'aria esterna, soprattutto nelle città, a causare il maggior nu­mero di morti e di malattie. L'inquinamento urbano, si sti­ma, è direttamente responsabi­le per circa 8oomila morti al­l'anno. Nei Paesi in via di sviluppo invece l'inquinamento letale è all'interno delle case a causa dei combustibili "pove­ri" usati per riscaldare e cucina­re in ambienti con scarsa venti­lazione. Il bilancio è di 1,6 milio­ni di morti ogni anno, per cau­se imputabili ai fumi tossici che portano a tumori, malattie e infezioni dei polmoni e del­l'apparato respiratorio.



«Il fattore salute viene rego­larmente trascurato, mentre do­vrebbe essere al centro di ogni politica di energia sostenibile, - rileva Richard Horton, diretto­re di The Lancet -. In generale si può affermare che la transi­zione a un'energia più pulita, rinnovabile e sostenibile, ha ef­fetti positivi sul benessere col­lettivo. Il fattore salute rappre­senta quindi una ragione in più per ridurre drasticamente le emissioni nocive. Non manca­no però le controversie: l'ener­gia nucleare, ad esempio, ha ef­fetti positivi per l'ambiente eun impatto minimo sulla salute, eppure per molti non è tutt'oggi una scelta accettabile».



La soluzione è necessaria­mente complessa e articolata quanto il problema. Per i Paesi in via di sviluppo, dove 1,6 miliardi di persone ora non hanno accesso all'energia elettrica, si tratta di aumentare l'accesso al­l'elettricità abbassandone sensi­bilmente i costi. «Basterebbe meno dell'1% dell'attuale utiliz­zo di energia dei Paesi ricchi - spiega «The Lancet» - per gene­rare abbastanza elettricità da trasformare la vita nei Paesi del terzo mondo».



Per i Paesi industrializzati, l'imperativo è abbandonare progressivamente l'uso dei combustibili fossili e passare alle fonti di energia rinnovabi­li, senza escludere il nucleare. Si tratta, secondo il prestigio­so giornale medico, di fare scelte difficili ma non più rin-viabili. Alcune già note, come l'abbandono dell'auto a favore della bicicletta in un contesto urbano, che oltre ad avere un impatto positivo sull'ambien­te riduce l'obesità, previene malattie e in generale migliora lo stato di salute dei cittadini. Altre scelte sono meno ovvie, anche sul fronte alimentare. Ad esempio l'allevamento di bestiame rappresenta il 18% delle emissioni di gas serra a livello globale, il 4% in più del settore trasporti, a causa del gas metano prodotto dagli ani­mali e delle emissioni nocive prodotte dalla decomposizio­ne dei liquami e dal concime. «The Lancet» propone una ri­duzione del consumo di carne a 90 grammi al giorno pro capi­te, che avrebbe un impatto po­sitivo sull'ambiente, oltre a portare benefici di salute co­me una riduzione degli infarti e dei tumori colorettali. In questo caso la ricetta è la stessa per Paesi ricchi e Paesi in via di sviluppo, anche se le enor­mi disparità attuali - il consumo medio pro capite in India è di 1 chilo di carne all'anno con­tro i 120 chili degli Stati Uniti - andrebbero livellate.


La strada è lunga, ma l'invi­to di «The Lancet» è chiaro: i Governi, le Ong e le organizza­zioni internazionali che passa­no leggi, mobilitano l'opinio­ne pubblicao studiano iniziati­ve sull'ambiente devono sem­pre tenere conto del loro effet­to sulla salute delle persone. La tutela dell'ambiente equiva­le in maniera inequivocabile alla tutela della salute.

domenica 27 gennaio 2008

Per Franco

ricevo e pubblico questo ricordo di Franco:
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fra le tante forme possibili ho scelto di mandare a te il mio saluto per Franco puoi tranquillamente pubblicarlo sul blog e inoltrarlo alla famiglia.
Non ho conosciuto franco personalemnte, ma molto spesso le nostre vite si sono incrociate.
Ho cominciato a seguire radio gamma appena aperta, allora ero impegnata politicamnete e condividevo con franco il sogno di una societa'
migliore e piu' giusta, e allora, pensavamo che la politica, che la sinistra sarebbe stata portatrice di quella giustizia di cui eravamo assetati.
Mi sono, poi allontanata dall'impegno politico e non ho piu' ascoltato la radio....
Poi inizio anni 2000 in macchina finalmente ho un autoradio e mi sintonizzo sui FM 94..mi imbatto subito sulla trasmissione di filosofia... e sento un franco che parla di assoluto, di karma... il mio stesso linguaggio.
Da qui, e solo ora, posso ringraziare franco carraro, per quello che in questi anni mi ha trasmesso, per avermi anche pichiettato, inconsapelvolmente, per avermi aiutato a crescere.
Ciao Franco sei un amico che tengo nel cuore.
terry

La delusione farmacologica è solo il segno di un errore di strategia

Corriere della Sera Salute 27.1.08
L'opinione di Vittorino Andreoli
Non possiamo ridurre tutto alla biologia

La delusione farmacologica è solo il segno di un errore di strategia

Cominciai a frequentare il manicomio di Verona nel 1959 e si respirava un'aria profetica per la recente nascita della imipramina (il Tofranil). Dalla sua «venuta» sono passati 50 anni. E, occorre ammetterlo, sono stati cinquant'anni «di solitudine » e di delusione se solo si considera un impegno senza precedenti delle aziende farmaceutiche e della ricerca psicofarmacologica per un disturbo mentale che oggi colpisce il 14 per cento della popolazione europea. La imipramina era efficace, ma dava effetti collaterali di grande dimensione; occorreva cercare imipramine più sicure. Non si scoprì nulla in questa direzione anche se uscirono in commercio molti farmaci appartenenti alla stessa famiglia, i triciclici.
Si è imboccato un sentiero, quello degli SSRI, da quindici anni ormai nel mercato. Si tratta di farmaci di identica efficacia clinica della imipramina, ma con effetti collaterali diminuiti. Dal punto di vista dei meccanismi d'azione sono molecole più specifiche in quanto agiscono solo sulla serotonina: azione che aveva in maniera più spuria anche la imipramina. Per quanto riguarda gli effetti indesiderati, che portano all'abbandono più rapido possibile, occorre dire che sono solo diversi e, basterebbe a sostenerlo, il problema della dipendenza e le azioni sulla sfera genitale. Questo è lo status quo e non c'è all'orizzonte niente di veramente promettente. I farmaci antidepressivi disponibili sono attivi in circa la metà dei pazienti e in quelli che rispondono l'effetto è per lo più parziale, come se l'azione fosse in grado di migliorare ma non certo di guarire né il singolo episodio né la malattia che ha un andamento ritmico (cronico).
A cinquant'anni di delusione, occorre chiedersi cosa succeda. E si giunge a due ipotesi. La prima è che si tratti di una ricerca non fortunata, in un campo complicato (la psichiatria) e in un organo (il cervello) che appare sempre più come un mondo straordinario ma difficile, una ricerca che comunque occorre continuare in attesa di un nuovo «miracolo ». La seconda, a cui io sono più legato, sostiene invece che la ricerca non ha prodotto granché semplicemente perché non può dare di più. La vera scoperta è che la depressione è il risultato di tre fattori: un fattore biologico (dunque genetico e cerebrale) che certamente avvalla la ricerca biologica e le considerazioni familiari di alcune forme depressive; un fattore legato alle esperienza del singolo, in particolare a quelle dei primi anni di vita (da zero a tre anni): e questo aspetto non ha, o non ha ancora, una dimensione molecolare, ma rientra nella grande possibilità della plasticità del cervello, capace di modificarsi in seguito ad una esperienza e senza un programma di tipo deterministico (come è la genetica). Infine, un terzo fattore che si lega all'ambiente in cui uno si ammala: un ambiente, più che geografico, relazionale e anche questo manca di una traduzione in termini biologici. Se è così, risulta che la terapia con i farmaci rappresenta solo l'azione su uno di questi fattori; per il resto occorre agire con strumenti clinici che si legano al medico e alle tecniche psicoterapiche. Se è cosi, la delusione farmacologica è segno di un errore di strategia, della convinzione di ridurre tutto a biologia. E bisogna semplicemente cambiare rotta e seguire nella ricerca le direzioni della clinica. Ne deriva anche che la terapia deve essere una combinazione di farmaci e di interventi psicoterapici.

Le altre cure Dalla fototerapia alle erbe, dalla chirurgia alla cronobiologia, con risultati incoraggianti

Corriere della Sera Salute 27.1.08
Le altre cure Dalla fototerapia alle erbe, dalla chirurgia alla cronobiologia, con risultati incoraggianti
In cerca dello stimolo giusto al buon umore
di Adriana Bazzi

In parallelo o in alternativa. Quando i farmaci non bastano da soli a controllare la depressione o, meglio, «le depressioni » (perché la malattia si presenta con molte facce diverse), si cercano altre soluzioni.
A partire dalle classiche psicoterapie (il ventaglio è ampio, il paziente può scegliere) che possono affiancare le cure farmacologiche, fino ad arrivare al discusso elettroshock, l'«ultima spiaggia» per alcune forme di malattia resistenti alle medicine. Passando per la cura «verde»: l'iperico o erba di San Giovanni, l'unico prodotto erboristico che abbia una certa efficacia antidepressiva, anche se limitata alle forme lievi.
Più recentemente si sono affacciate alla pratica clinica nuove proposte terapeutiche. Come la light therapy, o fototerapia, particolarmente indicata, secondo i suoi sostenitori, nella cura dei pazienti con depressione stagionale: questi malati sono sensibili alla riduzione delle ore di luce nel periodo invernale e rispondono positivamente all'esposizione alla luce di intensità luminosa equivalente a quella diurna. Dopo il risveglio il paziente viene esposta a una lampada per 30-120 minuti e l'effetto terapeutico si manifesta dopo pochi giorni.
Altra tecnica: la deprivazione di sonno il cui obiettivo è quello di potenziare gli effetti dei farmaci. È efficace, secondo la letteratura internazionale (la tecnica è sperimentata anche al San Raffaele di Mi-lano), ma con il limite delle facili ricadute. Questo approccio prevede di tenere il paziente sveglio per una notte intera, con effetti positivi immediati in molti casi. Un'altra opzione è quella della manipolazione del ritmo sonno-veglia: per esempio, l'anticipo della fase del sonno con risveglio definitivo nella seconda parte della notte, che produce un certo miglioramento dei sintomi. Negli ultimi anni si è fatta strada anche la terapia «chirurgica» della depressione. Una prima metodica è quella della deep brain stimulation, proposta da Andres Lozano dell'Università di Toronto: vengono impiantati elettrodi (pacemaker cerebrale) nella corteccia frontale la cui continua stimolazione determina, in alcuni casi, la remissione della malattia. Le esperienze, però, sono limitate e la tecnica è cruenta, anche se, in caso di insuccesso, è reversibile con l'interruzione della stimolazione elettrica.
La seconda è la stimolazione del nervo vago, approvata nel 2005 dalla Food and Drug Administration americana per la cura della depressione grave in particolare dei pazienti anziani e autorizzata anche in Europa: il pacemaker anti-depressivo, in questo caso, viene impiantato all'altezza del collo attorno al nervo vago ed è in grado di stimolare la produzione di serotonina, l'ormone che regola l'umore, il sonno, l'appetito e il sesso. L'intervento è reversibile, generalmente ben tollerato; gli effetti collaterali più diffusi sono la raucedine e la tosse che compaiono nelle prime settimane dopo l'intervento. È in sperimentazione anche in Italia in alcuni centri, come l'Ospedale Molinette di Torino.
Infine, in alternativa all'elettroshock che può comportare alterazioni della la memoria per settimane dopo la terapia, si sta sperimentando un intervento meno aggressivo, la stimolazione magnetica transcranica: viene effettuata inviando, dall'esterno alla corteccia, una serie di impulsi magnetici che non provocano, come invece può succedere con l'elettroshock, attacchi epilettici e nemmeno alterazioni della memoria. L'effetto terapeutico è simile. La metodica è ancora in sperimentazione.

Antidepressivi. Aumentano i consumi: ma si discute la loro reale efficacia

Corriere della Sera Salute 27.1.08
Psichiatria. Una ricerca americana ha scoperto che molti studi «negativi» non sono divulgati
Antidepressivi. Aumentano i consumi: ma si discute la loro reale efficacia
Pillole in depressione
di Franca Porciani

Dubbi sui farmaci antidepressivi più recenti: l'efficacia è controversa Mentre il loro consumo aumenta

La spesa lorda a carico del SSN per gli antidepressivi (gennaio-setembre 2007) è stata di 348 milioni di euro. Di questi, per gli inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI) sono stati spesi 218 milioni di euro
La prescrizione di antidepressivi a carico del SSN rispetto all’anno precedente è aumentata del 17,1%

Una ricerca ha valutato tutti gli studi presentati all'Fda: scoprendo che vengono pubblicati solo quelli «positivi»
Gli italiani annegano nella depressione? Il recente sondaggio del New York Times
ci ha delineato come un popolo «triste», ma la quantità di antidepressivi che ingurgitiamo a carico del servizio sanitario, per una spesa lorda, nei primi nove mesi del 2007, di 348 milioni di euro (più quelli che paghiamo di tasca nostra), non tira su la nostra immagine.
E se questa montagna di pillole anti-infelicità fosse (quasi) inutile? Getta il sasso nello stagno uno studio appena pubblicato dalla rivista statunitense
New England Journal of Medicine. Il sasso, più che un sasso un macigno, è la «scoperta» che buona parte degli studi con esito negativo condotti su questi preparati sono «scomparsi» nel nulla.
O meglio, sono rimasti nei «cassetti» della Food and Drug Administration, l'ente federale americano che autorizza la messa in commercio dei medicinali: le ditte produttrici non hanno voluto pubblicarli sulle riviste scientifiche, o, talvolta, sono state queste ultime ad opporre un «pilotato» rifiuto a darli alle stampe.
In realtà il registro delle sperimentazioni dei farmaci sui pazienti dell'agenzia statunitense è accessibile a tutti dal 1996, ma l'enorme data- base risulta incomprensibile perfino agli addetti ai lavori per la sua complessità. Perché occultare queste ricerche? Perché danno risultati insoddisfacenti. Autore della scoperta, l'équipe guidata da Erick Turner, farmacologo e psichiatra dell'università dell'Oregon che ha spulciato questi archivi con pazienza certosina per 12 antidepressivi di nuova generazione, quelli approvati dalla Fda dal 1987 al 2004.
Sono farmaci che inibiscono il riassorbimento della serotonina (la maggiore disponibilità di questo mediatore a livello delle sinapsi fra i neuroni dovrebbe «tirar su» l'umore nero). Facciamo i nomi? Fra questi la fluoxetina (più nota come Prozac), la paroxetina, la duloxetina, il bupropione, la sertralina.
In sintesi, dei 74 studi scovati dal data-base per i 12 preparati, 38 ne dimostrano l'efficacia e tutti, tranne uno, sono stati pubblicati; 36 arrivano a conclusioni opposte e soltanto 3 hanno visto la luce. Come se non bastasse, 11 sono stati «riscritti» in termini più rosei e sono usciti come tali sui giornali scientifici, senza cenno al parere negativo della Fda. «Quel che conta è la sovrastima di efficacia che queste omissioni comportano, un bel 30 per cento — commenta Corrado Barbui, psichiatra dell'università di Verona che da anni partecipa alla revisione degli studi clinici —. Non è un dato da poco. In sostanza, noi psichiatri stiamo prescrivendo farmaci i cui effetti sono stati "gonfiati"».
«Certi condizionamenti industriali sono pesanti ed è giusto che vengano denunciati — commenta Giovanni Biggio, che tra pochi mesi diventerà presidente della Società italiana di neuropsicofarmacologia —. Ma da qui a dire che gli antidepressivi non funzionano, il passo è lungo. Esistono studi che dimostrano la loro efficacia finanziati interamente dal National Institute of Mental Health, l'ente governativo americano per la salute mentale».
Indiscutibile. Precisa, però, Barbui: «Le revisioni che hanno confrontato l'effetto di questi farmaci su forme depressive di media gravità con quello del placebo, ovvero di una pillola "vuota" rivelano, già prima di questa scoperta del New England, un'efficacia modesta. In pratica, col farmaco stanno meglio 60 pazienti su 100, col placebo 50 su 100. L'effetto è scarso, ma, attenzione, non irrilevante: siamo di fronte a malati gravi. Bisogna anche ricordare che gli antidepressivi più recenti, quelli presi in esame dallo studio americano, hanno comunque effetti collaterali, irritabilità, diminuzione del desiderio sessuale, calo dell'appetito».
Se la questione aperta dal New England è spinosa e farà discutere a lungo, resta certo che gli antidepressivi vengono dati anche a chi depresso non è, ma soffre d'altro, di ansia o di attacchi di panico. Fenomeno che ne spiega il consumo smodato e in continuo aumento: il 17 per cento in più in Italia, da gennaio a settembre 2007, rispetto all'anno precedente.

Ricerche e trasparenza. Ma in Europa resta tutto segreto

In Europa l'ente regolatorio che autorizza la messa in commercio dei farmaci e ne sorveglia eventuali effetti negativi è l'Emea ( European Medicines Agency), agenzia nata nel 1995 che ha sede a Londra. Esiste anche all'Emea un registro degli studi realizzati sui farmaci messi in commercio? Risponde Vittorio Bertelè, a capo del laboratorio di politiche regolatorie dell'Istituto Mario Negri di Milano: «Purtroppo no. I dossier che le ditte farmaceutiche consegnano all'agenzia per l'autorizzazione alla messa sul mercato dei medicinali sono riservati.
La motivazione è la protezione del brevetto che oltre al processo di produzione di quella sostanza si estende, ingiustificatamente, anche agli studi clinici, quelli sui pazienti. Questo stato di cose non è casuale: deriva dal fatto, più volte contestato ma per ora irrisolto, che l'Emea è finanziata per due terzi dall'industria e per un terzo dai governi degli Stati membri.
Gioca anche un altro fattore: mentre l'ente regolatorio statunitense, la Food and Drug Administration, è una struttura forte, centralizzata, l'Emea è per ora solo l'emanazione delle varie agenzie nazionali, che hanno molto più potere». Ma i farmaci che vengono approvati in Europa sono al 99 per cento gli stessi che sono stati autorizzati negli Stati Uniti, magari qualche mese prima. Non c'è contraddizione fra un registro aperto a tutti di là dall'oceano e la totale riservatezza dall'altra sponda dell'Atlantico? «È vero — risponde ancora l'esperto —. Ma pur paradossale, questa è oggi la situazione».

venerdì 25 gennaio 2008

Oggi l'ultimo saluto a Franco Carraro

Oggi ci ritroviamo a Castelfranco Veneto per dare l'ultimo addio all'amico Franco Carraro.
Potremmo scrivere pagine e pagine di elogi, ma a lui non sarebbero piaciuti. Franco ha sempre preferito la semplicità, di una cosa certamente sarebbe stato contento: delle centinaia e centinaia di persone che in questi giorni si ricordano di lui.
Sia tramite la radio, sia tramite questo blog si è potuto percepire quanto il nostro Franco fosse conosciuto ed ascoltato.
Ciao Franco, grazie di tutto.
Francesco Scanagatta

ps. : per motivi tecnici i commenti su questo blog sono possibili solo a chi dispone di un account su blogspot, capisco che per questo motivo moltissime persone non hanno potuto intervenire con un loro commento.
Per chi vuole, mandatemi il messaggio in privato, il mio indirizzo e-mail è: scanagatta@yahoo.it
e ditemi se il vostro ricordo di Franco volete venga pubblicato sul blog o solo inoltrato alla famiglia. ciao.

giovedì 24 gennaio 2008

In memoria di Franco Carraro



Non so come il mondo potrà giudicarmi ma a me sembra soltanto di essere un bambino che gioca sulla spiaggia, e di essermi divertito a trovare ogni tanto un sasso o una conchiglia più bella del solito, mentre l'oceano della verità giaceva insondato davanti a me. (Isaac Newton)

Venerdì 25 gennaio il funerale 'laico' di Franco Carraro

Venerdì 25 gennaio 2008 si svolgerà il funerale 'laico' di Franco Carraro.
Il ritrovo è fissato alle ore 15,00 presso il parcheggio della Coop di Castelfranco Veneto, fate riferimento a Luca degli 'irroducibili'. lì vicino c'è un locale in cui svolgerà la cerimonia di commiato del nostro Franco. Niente retorica, niente cerimonie 'ufficiali', ma un ricordo semplice e con cuore come lo avrebbe voluto Franco.
Per chi vuole rendere un ultimo saluto a Franco, può recarsi all'Obitorio presso l'Ospedale di Castelfranco Veneto, l'orario di accesso alle persone è dalle 10,30 alle 11,30 e dalle 13,30 alle 14,45.
Dopo la cerimonia la salma sarà trasferita a Marghera per la creazione, perciò ci sarà la possibilità di accompagnare, per l'ultima volta, il nostro Franco.
Alle 20,45 è confermata la riunione dei conduttori di Radio Gamma 5. L'incontro è aperto a tutti, è sara un nuovo momento per ricordare il nostro Franco.
Francesco Scanagatta

mercoledì 23 gennaio 2008

Un saluto a Franco.

Oggi una grande parte della storia della nostra radio ci ha lasciato.
Tutti noi siamo ben consapevoli che il nostro Franco è stato la vita di questa radio.
Penso che se per un giorno, su questo blog, non ci saranno notizie, ma ci siaranno solo degli interventi che ci ricordino il nostro Franco nessuno avrà da ridire.
Le parole retoriche non servono, salutiamo con semplicità il nostro Franco, gli diciamo grazie per tutto il tempo per cui abbiamo potuto camminargli insieme.
Ciao Franco!
Francesco Scanagatta

Ciao, Franco!

Stamane alle 9,20 ha lasciato questo mondo Franco Carraro, storico fondatore di questo sogno che si chiama Gamma 5.
Continuera' a vivere in noi e in tutto quello che facciamo. Franco, eri grande e hai lasciato il segno. Sono tantissimi i collaboratori e gli ascoltatori che ti salutano. Grazie per quello che hai fatto e che stai continuando a realizzare.

"You may say I'm a dreamer, but I'm not the only one" [Imagine - John Lennon]

martedì 22 gennaio 2008

Allarme umanitario a Gaza

Allarme umanitario a Gaza

Il Sole 24 Ore del 22 gennaio 2008, pag. 14

di Roberto Bongiorni

Difficile lo è sempre stato, si lamentano i palestinesi di Gaza. Ma in questi giorni vivere nella Striscia è divenuto quasi proibiti­vo. La chiusura di tutti i valichi di accesso, messa in atto venerdì dal Governo israeliano, e il blocco di parte delle forniture di carburan­te ed elettricità stanno precipitan­do Gaza verso una crisi umanita­ria dalle conseguenze imprevedi­bili. «Se la situazione attuale non cambia, mercoledì (domani) o gio­vedì, interromperemo la distribu­zione di cibo destinata a 86omila persone», ha spiegato ieri mattina Christopher Gunnes, portavoce dell'Unrwa, l'agenzia dell'Orni per i profughi palestinesi. Investi­to da un coro di critiche internazionali, nel tardo pomeriggio il Governo di Gerusalemme ha fat­to marcia indietro, annunciando la ripresa parziale delle forniture di nafta e medicinali per gli ospedali. Una misura una tantum, ha specificato una fonte del ministe­ro della Difesa.



Andare avanti così non si pote­va. In questo fazzoletto di terra, lungo 40 km e largo dieci, comin­cia a mancare di tutto. Bisogna imparare a rinunciare. Fare a meno di luce, acqua corrente e gas. Da domenica la chiusura di due turbi­ne della principale centrale ter­moelettrica ha provocato lunghi black out in quasi tutta la Striscia. Bisogna rinunciare anche agli spostamenti in macchina. Servendo­si dei pochi minibus in circolazio­ne o dei carretti trainati da muli, il mezzo di locomozione oggi più diffuso nella Striscia. Bisogna sta­re attenti a non farsi del male. Le operazioni "non urgenti" sono sta­te sospese per la carenza di elettri­cità negli ospedali. Persino mori­re è divenuto difficile. Becchini e agenzie di pompe funebri non hanno più cemento per le lapidi e per proteggere le fosse dai cani randagi. Non pochi hanno rime­diato alla carenza di materia prima prelevando frammenti di mar­mo dalle scale o ciocchi di asfalto dai marciapiedi cittadini.



La posizione dell'Unione euro­pea è stata risoluta. «Ho detto con chiarezza - ha denunciato il com­missario per le Relazioni esterne, Benita Ferrero-Waldner - di esse­re contro questa punizione collet­tiva della popolazione di Gaza. Esorto le autorità israeliane a riavviare le forniture di carburante e ad aprire i punti di frontiera per il passaggio di forniture umanitarie e commerciali. Né questo blocco né le ultime azioni militari riusci­ranno a impedire gli attacchi con razzi». Un'analisi supportata dai fatti. Fino a pochi giorni fa i raid israeliani su Gaza - nell'ultima set­timana sono morti oltre 40 palesti­nesi - non avevano fermato, nean­che ridotto, il quotidiano lancio di razzi Qassam contro le città israeliane. Anche la chiusura dei vali­chi in passato si è rivelata un de­terrente inefficace. Ieri, però, il ministero della Difesa ha lanciato un messaggio diverso: «Da giove­dì, quando sono stati sparati 40 razzi contro Israele, il numero dei missili è sceso e oggi ne è arrivato solo uno. Le pressioni militari ed economiche hanno avuto un im­patto. Se il numero dei razzi au­menterà inaspriremo le sanzioni e le chiusure dei valichi».


Criticato sul fronte interno, il premier Ehud Olmert ha cercato di respingere le pressioni interna­zionali. Dopo un colloquio telefo­nico con il presidente egiziano Hosni Mubarak, Olmert, pur rassi­curando che «Israele non permet­terà lo scatenarsi di una crisi umanitaria nella Striscia», si è lasciato andare a inconsuete esternazioni: «Per quanto mi riguarda, tutti i residenti di Gaza possono cammina­re. Non hanno benzina per le auto­mobili perché hanno un regime terrorista e assassino che non per­mette agli abitanti del Sud d'Israe­le di vivere in pace». Per i palesti­nesi i valichi restano però ancora chiusi Trecento dimostranti han­no premuto alla frontiera con l'Egitto, dove sono stati schierati 300 agenti anti-sommossa, chiedendo l'accesso alle cure ospeda­liere. I negoziati di pace, ripartiti da pochi giorni, si sono già arena­ti. L'Autorità nazionale palestine­se starebbe considerando anche un eventuale abbandono. Dopo aver definito non giustificabile il lancio di razzi Qassam e non com­prensibile la reazione israeliana, il ministro degli Esteri italiano, Massimo D'Alema, ha chiesto «a tutti coerenza con lo spirito di Annapolis (il vertice di pace del 27 novembre». «A distanza di neanche due mesi i morti palestinesi -ha ricordato - sono più di 170. Cer­to, come dice la stampa israeliana, la maggior parte sono militan­ti, ma ci sono anche molti civili».

lunedì 21 gennaio 2008

Le centrali nucleari? “Sono impianti insicuri e costosi”. Intervista a Marcello Cini

Le centrali nucleari? “Sono impianti insicuri e costosi”. Intervista a Marcello Cini
di Claudio Colombo
“Corriere della Sera”, 21 gennaio 2005
"Mi verrebbe da dire che è una berlusconata, come il ponte sullo Stretto o le altre grandi opere promesse dal governo. In realtà siamo di fronte a un fatto grave: all’idea, cioè, che si voglia risolvere un problema importante e decisivo come quello energetico con le solite sparate propagandistiche".

E se non fosse solo propaganda?
Me ne stupirei. Non c’è alcuna novità rivoluzionaria che possa farci riconsiderare il problema del nucleare in Italia, peraltro archiviato dalla volontà popolare con il referendum del 1987.

È un no deciso quello del fisico Marcello Cini, uno dei padri ispiratori dei movimenti ambientalisti italiani, professore emerito alla Sapienza di Roma: "Da nessuna parte al mondo si costruiscono nuove centrali, neppure nei Paesi dove ci sono già. Un motivo ci sarà".

Lei perché dice no?
Per problemi di sicurezza e di costi. Primo, il tema fondamentale dello smaltimento delle scorie radioattive: oggi come ieri non esiste posto sicuro che possa contenerle, senza procurare danni, per migliaia di anni. Secondo: costruire oggi una centrale nucleare, con spese enormi per allestirla in piena sicurezza, significa averla a regime tra 15 anni o più. E una centrale ha una vita breve, intorno ai 25-30 anni. Dove sta la convenienza? Terzo: non è con questa tecnologia che si affrontano i problemi dell’energia e del declino industriale nel nostro Paese. Questo presuppone una cultura del gigantismo che andava di moda negli anni ‘50. E non tiene il discorso che il nucleare non inciderebbe sull’effetto serra: anche altre fonti garantirebbero energia pulita e rispetto per l’ambiente.

Per esempio?
Bisogna investire risorse nelle energie rinnovabili come il solare o l’eolico. È ridicolo che la Germania sia avanzatissima in questo campo e l’Italia, che è il Paese del sole, stia a guardare. I progetti da noi ci sono: bisogna lavorare per favorire il solare là dove il sole abbonda, come nei deserti, e poi magari utilizzare l’idrogeno come vettore per portare l’energia là dove serve.

Lei ha parlato di sicurezza: ma l’Italia non è circondata da Paesi "nuclearizzati"?
Le conseguenze di un incidente sarebbero disastrose, e allora speriamo, e lo credo, che tutto sia messo in estrema sicurezza. Il problema sta nell’accettare, a casa nostra, questo rischio: vivere nella convinzione che l’eventualità di incidente, sia pur bassissima, possa distruggere mezzo Paese. Ricordare Chernobyl, a questo punto, non è demagogia.

Come spiega, allora, questo ritorno di fiamma?
Non lo spiego affatto. Ma capisco che ogni tanto qualche gruppo di pressione si muova. E che anche in qualche circolo scientifico si risvegli la nostalgia del nucleare.

Secondo lei, qualcosa è cambiato nel modo in cui gli italiani percepiscono il problema del nucleare?
Se mi chiede come finirebbe oggi un referendum sugli Ogm, non avrei dubbi nel rispondere che la maggioranza della popolazione direbbe no. Sul nucleare, non so: non se ne parla da decenni e bisognerebbe continuare su questa strada. Però capisco che le pressioni potrebbero cambiare qualcosa. Soprattutto se chi possiede tre tv private e dispone anche di tre tv pubbliche le utilizza per amplificare il messaggio.

Potenza Wal-Mart: Quando il mondo è tutto «low cost»

Potenza Wal-Mart: Quando il mondo è tutto «low cost»
Il manifesto 15.12.2006 /f.b)

Recensione al libro di Charles Fishman sul gigante mondiale del commercio. Per prepararci all'invasione?

In libreria il lavoro di Charles Fishman, giornalista che indaga tra i carrelli del mercato globale e i bilanci delle grandi company. L'avvento del «basso prezzo a tutti i costi» ha sconvolto il lavoro, l'ambiente, l'economia e le abitudini di spesa. In tutto il pianeta
Pordenone Perché una catena di supermercati americani dovrebbe interessare il pubblico italiano? Ormai da anni, in tutta Europa, si è affermato il modello del low cost , non solo alimentare: dagli hard discount caserecci ai modelli in scala tipo Lidl, fino ai prezzi stracciati di grandi compagnie aeree come Ryanair, che hanno rivoluzionato il mercato mettendo in crisi diversi vettori nazionali. Per comprendere i vantaggi e i rischi del «prezzo basso a tutti i costi» bisogna guardare necessariamente alla Wal-Mart, la catena di distribuzione statunitense che proprio sul low cost ha costruito un impero, riuscendo a diventare l'impresa più grossa del mondo e della storia. Attirandosi, insieme a questi successi, le critiche di ambientalisti e sindacati, attenzioni un tempo riservate ai big globali come la Nike o McDonald's. In queste settimane è in libreria la preziosa inchiesta di un giornalista statunitense, Charles Fishman, dal titolo «Effetto Wal-Mart - Il costo nascosto della convenienza» (Editrice Egea).

Interessante, perché l'autore non parte da posizioni preconcette (Wal-Mart è tutto bene, Wal-Mart è tutto male), ma cerca di capire come, in particolare negli ultimi due decenni, il «basso costo» abbia cambiato l'economia Usa, influenzando i tassi di inflazione e le abitudini dei consumatori, accelerando la delocalizzazione delle industrie e l'abbassamento dei salari, arrivando a stravolgere, in alcuni casi, equilibri ambientali e comunità locali. Abbiamo incontrato Fishman in una delle presentazioni italiane del volume, all'associazione «Cinema zero» di Pordenone: un cinema pieno e un pubblico attento, che si è trattenuto per più di due ore a parlare di precarizzazione del lavoro, prezzi, globalizzazione dei mercati. Evidentemente temi che «tirano». L'inchiesta di Fishman parte da un oggetto di tutti i giorni, una scatola di cartone. In questo caso, l'involucro di un comune deodorante, prodotto che milioni di persone acquistano ogni settimana in ogni angolo della Terra. E' un modo per illustrare uno dei tanti «effetti Wal-Mart»: la multinazionale della distribuzione, a inizio anni Novanta, si chiese infatti che senso avesse rinchiudere un deodorante dentro una confezione di cartone. Nessuno, dato che il prodotto è già efficacemente protetto nel suo contenitore in vetro o in plastica, e dato che - soprattutto l'esistenza della scatola di cartone comporta costi in più, assolutamente superflui: prende più spazio sugli scaffali del supermercato, fa pesare di più il deodorante nel trasporto, bisogna pagare il materiale e il lavoro per realizzarla. E allora?

Eliminiamola, pensò WalMart: cominciò un'opera di convincimento presso tutti i produttori del settore perché rinunciassero alla confezione, e in effetti nel giro di qualche anno non esisteva più non solo sugli scaffali Wal-Mart, ma in tutti i supermercati Usa, un solo deodorante che fosse contenuto in un involucro cartaceo. Il risparmio - calcolò il big della grande distribuzione - sarebbe stato di cinque centesimi per ogni singolo deodorante, da distribuire tra produttori, catene commerciali e clienti finali. Con un vantaggio per tutti, anche per l'ambiente (si pensi a quanti alberi abbattuti in meno), e con un solo danneggiato, evidente: chiunque lavori in una fabbrica di confezioni di cartone. Un piccolo episodio, un aneddoto, che però spiega l'effetto dirompente della Wal-Mart sull'economia Usa, e sulle abitudini degli stessi americani. «Vendi sempre più basso» Il segreto del successo della WalMart sta tutto nella filosofia del suo fondatore, Sam Walton, che aprì il primo store nel 1962: «Vendi sempre più basso degli altri». Anche se di pochi centesimi, il prezzo di Wal-Mart deve essere il più basso in assoluto che si trovi nel mercato per un prodotto di qualsiasi genere, anche di marca. Attenzione: non stiamo parlando di un hard discount , quello cui siamo abituati in Europa, dove in negozi spartani e disadorni vengono vendute merci perlopiù sconosciute per risparmiare sui costi della pubblicità: Wal-Mart risparmia certamente sull' appeal degli ambienti e sugli ornamenti, ma offre prodotti di marca. Solo che riesce a venderli tutto l'anno (e non solo nei periodi degli sconti) anche fino al 15% in meno degli altri, il che fa una bella cifra per le tasche dell'americano medio. E' il principio dell' everyday low price , ogni giorno prezzi bassi, un vero e proprio «patto con il consumatore» di cui Wal-Mart si è fatto alfiere. Ancora: sugli scaffali del colosso, possiamo trovare ben 120 mila prodotti diversi, tanto che si è calcolato che la stessa persona potrebbe fare la spesa quotidianamente da WalMart per 5 anni e non comprare mai lo stesso prodotto pur mettendo nel carrello 60 articoli differenti al giorno.

Una comodità per chi vuole comprare il necessario per la settimana (non solo alimentari) con un solo viaggio in macchina. E sempre nei 5 anni, il prezzo della lampadina Ge - molto diffusa negli Usa - si è abbassato dai 2,19 dollari del 2001 agli 0,88 del 2005. Grazie all'imperativo del prezzo basso, Wal-Mart dunque è riuscita a diventare la più grande catena di distribuzione, negli Usa e nel mondo. Non solo: attualmente è anche l'impresa con il più alto fatturato del pianeta, e verrà superata a fine 2006 dal gruppo petrolifero Exxon solo grazie al notevole rincaro del greggio nell'ultimo anno. In ogni cittadina o metropoli in cui WalMart si è insediata, ha cominciato infatti ad imporre un abbassamento dei prezzi a tutti i negozi vicini, costringendoli a chiudere o ad operare con i suoi stessi obiettivi. Wal-Mart ha così orientato il mercato, non solo localmente: la recente fusione dei big Gillette e Procter & Gamble (stiamo parlando di due multinazionali Usa che non hanno certo bisogno di presentazioni) è stata motivata dalla necessità di avere maggiore forza contrattuale rispetto all Wal-Mart. Se infatti il prezzo basso può essere - a prima vista - molto vantaggioso per il consumatore, non è detto che alla lunga questo principio non comporti grossi svantaggi al sistema economico e alle comunità. Wal-Mart - e di conseguenza tutti i suoi concorrenti - chiedono infatti ai propri fornitori un costante abbassamento dei prezzi, in contrasto persino con le leggi dell'inflazione (l'esempio della su citata lampadina parla da solo). Oggi comanda il distributore Bisogna anche tener conto che l'ultimo decennio, quello che ha visto trionfare la Wal-Mart, è anche quello in cui il settore del retail (commercio) ha superato per addetti quello dell'industria, fatto storico per gli Usa: 14,9 milioni di occupati nel commercio contro i 14,5 nel manifatturiero nel 2003. La distribuzione si è messa al centro dei processi economici, al pari se non in posizione di superiorità rispetto alla produzione, una novità leggibile proprio nell'effetto Wal-Mart: i fornitori, per abbassare il prezzo su richiesta dei distributori, hanno dovuto via via ridurre la qualità dei prodotti, ridurre i salari o licenziare gli operai per delocalizzare nelle aree del mondo a minor costo di manodopera.

Così, oggi, gran parte della merce venduta nei WalMart viene da paesi come il Bangladesh, la Cina o il Cile. Effetto Wal-Mart che non risparmia - come anticipato - i lavoratori, e forse questo è il fenomeno più noto al grande pubblico europeo, aspetto non certo messo in ombra da Fishman: innanzitutto gli 1,6 milioni di dipendenti diretti della multinazionale, spesso sotto i riflettori mediatici a causa dello sfruttamento cui sono costretti. Bassi salari, straordinari imposti, discriminazioni di genere (Wal-Mart è oggetto della più grossa class action della storia: 1,6 milioni di lavoratrici hanno fatto causa perché discriminate nelle retribuzioni e nell'avanzamento di carriera); senza contare il caso dei dipendenti chiusi di notte nei negozi, o degli immigrati irregolari (e ovviamente sottopagati) impiegati dalle ditte di pulizia. Ma che dire degli operai che cuciono i jeans in Bangladesh? Un episodio del libro riporta la testimonianza di una giovane operaia tessile picchiata dal caporeparto con il paio di jeans che sta cucendo. In Cile, gli addetti alla lavorazione del salmone non se la passano meglio, ma nel paese sudamericano c'è un effetto Wal-Mart ancora più macroscopico: il salmone fino a 12 anni fa non esistev a nei mari cileni, mentre oggi - grazie alle massicce importazioni di Wal-Mart - il Cile è diventato addirittura il primo esportatore di salmone del mondo. Un vantaggio per il paese, non per i suoi oceani: gli allevamenti intensivi, infatti, stanno sconvolgendo l'ambiente sottomarino a causa degli scarichi industriali e delle feci dei pesci che si depositano sul fondo. E infine, molti commessi dei negozi vicini a Wal-Mart hanno perso il lavoro, causa chiusura per impossibilità di reggere la competizione, come tanti dipendenti dei fornitori di Wal-Mart. Il libro di Fishman si conclude con le interviste ad alcune operaie della L.R. Nelson, azienda costruttrice di irrigatori: sono state licenziate in 300, perché a causa delle insistenti richieste di Wal-Mart - «abbassate i costi» - l'impresa ha deciso di delocalizzare parte della produzione in Cina. Un «ricatto» tipico, in epoca di globalizzazione: uno dei tanti «effetti Wal-Mart».

Montalto, l’Enel e quel solare che scotta

Montalto, l’Enel e quel solare che scotta

Corriere della Sera Economia del 21 gennaio 2008, pag. 9

di Barbara Millucci

Il più grande impianto di ener­gia pulita d'Italia, il settimo d'Europa, che aprirà i cantieri il prossimo febbraio per entrare in funzione nella primavera del 2009, piace stranamente poco a verdi e sindacati.



Si tratta di una centrale insolita per il nostro paese, pulita, efficien­te ed assolutamente unica nel suo genere. Occuperà 10 'ettari di ter­reno a Pian dei Gangani, all'inter­no della centrale Enel già esisten­te di Montalto di Castro e a due passi da quella nucleare mai ulti­mata, costerà 30 milioni di euro e produrrà 7 milioni di chilowattora ogni anno.



«Con l'impianto fotovoltaico — spiega il responsabile Enel del progetto, Gaetano Starace — ab­batteremo la produzione di anidri­de carbonica di 5.000 tonnellate l'anno, l'equivalente dell'inquina­mento causato da 1700 automobili». L'Enel ha già pronti i pannelli necessari a produrre 3 megawatt e l'impianto produrrà energia pu­lita sufficiente a coprire il fabbiso­gno di 2700 nuclei familiari. L'iniziativa è parte del progetto ambientale di Enel, che punta ad investire entro il 2011 oltre 4 mi­liardi di euro nelle energie rinno­vabili. E si va ad aggiungere alla struttura di Serre Persano (SA) da 3,3 MW, inaugurata nel 1993 e tutt'ora in funzione.



L'investimento verrà ripagato nell'arco di dieci anni e non ha redditività tale da determinare vantaggi economici consistenti. E se l'assessore all'Ambiente della Provincia di Viterbo Tolmino Piaz­zai ritiene che «porre l'energia alternativa vicina a quella policombustibile dell'impianto Enel già esistente non è errato» di parere diverso sono i verdi, secondo cui «il comportamento dell'Enel è contraddittorio: con la mano sini­stra investe sulle rinnovabili, con la mano destra punta al carbone ammazza-Kyoto, azzerando gli ef­fetti positivi dell'investimento sul­le rinnovabili».



Un altro fronte polemico riguar­da il personale. «Una volta a regi­me — dice Starace — la centrale solare non avrà bisogno di assu­mere altre persone». Ma per il se­gretario del settore elettrico della Cisl, Amedeo Testa, «l'Enel sta solo facendo un'operazione di fac­ciata e tende a non creare occupa­zione, quando invece il personale serve eccome. Secondo i nostri studi ci vogliono almeno 5 specia­listi per garantire la sicurezza del­l'impianto e per manovrare attrezzature nuove». In effetti un im­pianto solare è molto semplice da costruire, i pannelli si vanno ad appoggiare su delle strutture precostituìte. Il grosso sta nell'acqui­sto dei pannelli, che costano all'incirca mille euro l'uno. «Il prezzo è così elevato perché i pannelli ven­gono dalla Germania .— dichiara il sindaco di Montalto di Castro Salvatore Carai — in Italia non li produce nessuno». Ma il Segreta­rio della Filca Cisl Viterbo Fabio Turco va oltre: «Visto che si tratta del più grande impianto solare d'Italia perché non dar vita qui al primo polo dell'energia pulita? Il distretto industriale dei Due Pini, proprio di fronte la centrale, ospi­ta importanti aziende come I'Italcementi. I pannelli solari si po­trebbero fabbricare in questa zo­na invece che andarli a comprare all'estero».

Memoria. Centinaia di prigionieri morirono di stenti nel campo di Giado tra il 1942 e il '43

Corriere della Sera 21.1.08
Memoria. Centinaia di prigionieri morirono di stenti nel campo di Giado tra il 1942 e il '43
Libia, l'orrore nel lager italiano
L'ordine: sterminate i deportati ebrei. All'ultimo momento la revoca
di Dario Fertilio

Giado, centottanta chilometri a sud di Tripoli, praticamente il nulla nel nulla. Era un campo di concentramento italiano costruito nel 1942 e riservato agli ebrei libici, un nome taciuto per anni e invece ora da sottolineare con l'inchiostro nero. Perché fu là, dove oggi spuntano solo rovine e filo spinato mezzo inghiottiti dal deserto, che l'esercito del Duce si macchiò del delitto più grave in termini numerici, una violenza gratuita sui prigionieri: almeno 560 uomini, donne e bambini morti di fame, di malattie, di stenti e brutalità. Gente colpevole soltanto di essere ebrea.
Nessun altro luogo, includendo l'isola di Arbe nel Quarnero, fu teatro di stragi «italiane» numericamente più rilevanti. E avrebbe potuto andare ancor peggio se l'ordine estremo, annunciato e sul punto d'essere eseguito, fosse stato confermato. Invece una revoca, letteralmente dell'ultima ora, evitò ai circa duemila prigionieri maschi del campo, già in fila per l'esecuzione, una soluzione finale alla nazista.
Proprio quella agghiacciante disposizione, Uccideteli tutti, dà il titolo al saggio dello storico- giornalista Eric Salerno, appena uscito dal Saggiatore. Già autore di reportage sulle guerre coloniali italiane, e corrispondente dal Medio Oriente, Eric Salerno punta questa volta sui rari superstiti, spesso testimoni oculari, di quei tempi ormai lontani, sforzandosi di confrontare i racconti, svelare le connivenze, soffiare via dai nomi delle vittime la polvere dell'oblio. Non tutti gli obiettivi sono raggiunti: le testimonianze orali non compensano la scarsità dei documenti; le date degli eventi sono approssimative; i nomi degli aguzzini in divisa italiana restano sconosciuti. Anche quello del comandante del campo — un ufficiale dell'esercito — è disperso negli archivi oppure (come ipotizza l'autore) forse in passato è stato fatto sparire per sviare le ricerche. E soprattutto manca il nome di chi diede quell'ordine di uccidere.
Eppure, nonostante tanti lati oscuri, il racconto di Eric Salerno prende alla gola, soprattutto per le vivide testimonianze. La scena culminante è del 1943, «una ventina di giorni prima della vittoria britannica», quando a Giado gli italiani hanno i nervi a fior di pelle perché sanno che presto arriveranno gli inglesi, e forse toccherà a loro stessi finire in prigionia. Temono che, rovesciati i ruoli, gli ebrei siano destinati a trasformarsi in accusatori? Meditano di far terra bruciata preventiva per salvarsi? È possibile: così si spiegherebbe perché decidano di radunare sotto la bandiera tutti gli ebrei maschi; ecco perché il comandante italiano «in tono tranquillo» annuncia ai prigionieri «una cattiva giornata», aggiungendo sadicamente «abbiamo ricevuto l'ordine di uccidervi tutti». Per non parlare dell'avviso: i 480 malati ricoverati nell'ospedale del campo «saranno fatti scendere nello scantinato e bruciati ». I racconti abbondano di altri particolari drammatici: gente che si getta a terra invocando Dio; il rabbino Yosef, avvolto nel suo scialle per la preghiera, trascinato nel centro del campo da un militare imbestialito («questo è il momento per uccidere, non per pregare!»). E tre ore di attesa mortale, fra le otto e le undici del mattino, con i reclusi affamati e assetati in attesa dell'ordine di esecuzione. Infine, alle undici e mezzo, il telefono squilla. Una voce annuncia che la disposizione è annullata: liberi tutti i prigionieri. Il che non evita episodi di sadismo gratuito: uno dei rabbini è costretto a spazzare il recinto del campo con la barba.
Resta il dubbio: quell'ordine di liquidazione risaliva davvero a Mussolini? Avrebbe potuto macchiarsi di un simile delitto quello stesso Duce che nel marzo 1937, un anno e mezzo prima della promulgazione delle leggi razziali, era stato accolto dalla comunità israelita di Tripoli con fiori, ovazioni e benedizioni, constatando che i commercianti ebrei italiani si erano dimostrati il vero, prezioso tessuto connettivo delle colonie africane? Per quei meriti avevano ricevuto in realtà una terribile ricompensa: deportati dalla Cirenaica in Tripolitania, costretti ai lavori pesanti, infine rinchiusi a migliaia a Giado. Il cinismo di Mussolini, del resto, è testimoniato dallo scambio di messaggi con il governatore della Libia Italo Balbo: quest'ultimo, ancora nel gennaio del '39, si sforzava di indurlo a «non infierire», dal momento che «gli ebrei erano già morti». Ma la risposta del capo del fascismo era stata: «Ti autorizzo all'applicazione delle leggi razziali», «ricordandoti che gli ebrei sembrano ma non sono mai definitivamente morti». Restano, oggi, pallidi ricordi di quelle vittime, ancora più struggenti perché anonimi (di soli ottanta scomparsi a Giado Eric Salerno ha potuto ritrovare le generalità). Con un risvolto amaramente ironico: tutta la vicenda anche in Israele è poco conosciuta. Forse perché, come ricorda Salerno, «per decenni venne insegnato che l'Olocausto era patrimonio degli ebrei europei, soprattutto ashkenaziti».
Su quel che accadde in Libia, e sugli aguzzini italiani, dovunque calò un silenzio piuttosto assordante. «I non pochi criminali di guerra italiani, per volontà degli Alleati, non sono mai stati processati o puniti».

«Usa e Israele torturatori»: bufera sul manuale diplomatico canadese

Corriere della Sera 21.1.08
Scuse Dopo le proteste di Washington sarà rivisto il testo che insegna come soccorrere i propri cittadini soggetti a sevizie
«Usa e Israele torturatori»: bufera sul manuale diplomatico canadese
di Ennio Caretto

Il segreto svelato. Il dossier doveva restare segreto. E' venuto alla luce quando il ministero degli Esteri di Ottawa l'ha consegnato per sbaglio ad Amnesty International

WASHINGTON — Un manuale di 89 pagine per i diplomatici canadesi, con disegni e diapositive, che includeva gli Stati Uniti e Israele tra i Paesi che praticano la tortura, sarà «rivisto e riscritto». Lo ha annunciato a Ottawa il ministro degli Esteri Maxime Bernier, chiedendo scusa a Washington e Gerusalemme. Il manuale, che descriveva come sevizie alcune tecniche d'interrogatorio americane, ha rischiato di causare una rottura tra il premier Stephen Harper e George Bush, entrambi conservatori. «Mi rammarico molto che abbia messo in imbarazzo alcuni dei nostri più stretti alleati — ha aggiunto Bernier —. I loro nomi non dovevano figurarvi». Il manuale era venuto alla luce accidentalmente: il ministero degli Esteri canadese lo aveva consegnato per sbaglio ad Amnesty International dopo essere stato querelato per violazione dei diritti umani nella guerra al terrorismo.
Il manuale, sembra in uso da anni e sinora rimasto segreto, insegna ai diplomatici come soccorrere i cittadini canadesi torturati in altre nazioni. Gli Stati Uniti e Israele vi compaiono — indipendentemente da Guantanamo — assieme all'Afghanistan, l'Iran, l'Arabia Saudita, la Siria, l'Egitto, la Cina e così via, nel capitolo «Possibili torture e casi di abuso». Il manuale condanna le tecniche d'interrogatorio che secondo Washington non costituirebbero sevizie «perché a lungo termine producono gli stessi effetti delle torture», e cita l'incappucciamento dei detenuti, la loro nudità forzata a temperature glaciali, la privazione del sonno e l'assunzione di posizioni molte dolorose. Il campo di detenzione di Guantanamo è oggetto di un capitolo a parte perché dal 2002 ospita un musulmano con cittadinanza canadese, Omar Khadr, 21 anni, di cui Amnesty international, ma non il premier Harper, ha chiesto la restituzione a Ottawa. In una breve dichiarazione, Bernier ha precisato che il manuale «non è una direttiva politica, e non riflette perciò la dottrina del governo». E la sua portavoce Marina Wilson ha sostenuto che «lo scopo del corso per i diplomatici è di stimolare il confronto delle idee e prepararli a situazioni imprevedibili».
Ma la scoperta del manuale aveva destato scandalo nei Paesi confinanti, spingendo l'ambasciatore statunitense a Ottawa, David Wilkins, a intervenire in maniera pesante. «E' offensivo che un alleato ci accosti a Paesi come l'Iran e come la Siria — aveva protestato Wilkins —. Noi non abbiamo torturato e non torturiamo nessuno. Lo abbiamo ribadito molto vigorosamente ». Bernier ha accettato le rassicurazioni americane, pur senza dire in che misura il manuale verrà modificato: certo è che scompariranno i nomi degli Stati Uniti e di Israele. Al pari degli altri Paesi elencati dal manuale, dall'Afghanistan alla Cina, Israele non ha fatto commenti.
Per Amnesty International, l'annuncio di Ottawa è «una resa» a Washington e Gerusalemme. Alex Neve, il suo segretario nazionale, ha definito il manuale «uno strumento importante per i diritti umani» e deprecato che il governo canadese abbia loro anteposto l'interesse degli alleati. La sua associazione sta tentando di impedire a Ottawa di continuare a consegnare a Kabul i talebani catturati nel conflitto in Afghanistan dalle truppe canadesi ma Ottawa risponde che il governo afghano garantisce che non saranno torturati.

La Cina teme il contagio Usa "La crisi colpirà anche noi"

La Repubblica 21.1.08
La Cina teme il contagio Usa "La crisi colpirà anche noi"
L'economista He Fan: il caro petrolio frena l'export
di Federico Rampini

La rivalutazione monetaria. Sull´orlo della recessione
La risposta giusta per contenere l´inflazione è una stretta monetaria più severa e una più veloce rivalutazione della nostra moneta

Direttore del prestigioso Istituto di economia e politica internazionale presso l´Accademia delle scienze sociali di Pechino, il professor He Fan è uno dei più autorevoli economisti della Repubblica popolare. E´ anche uno dei più spregiudicati: parla senza tabù dei pericoli della crisi americana, denuncia l´effetto destabilizzante dell´inflazione sul consenso sociale in Cina, invoca una rivalutazione del renminbi, e ammonisce l´Europa a prendere atto che l´ascesa della Cina come superpotenza è ineluttabile.
Come andrà la crescita cinese nel 2008? Resisterete al contagio americano e sostituirete gli Stati Uniti nel ruolo di locomotiva mondiale? Oppure la vostra dipendenza dalle esportazioni vi rende vulnerabili?
«La Cina manterrà una crescita robusta ma meno vigorosa dell´anno scorso. Nel 2007 il Pil è aumentato dell´11,6% secondo i dati ufficiali, e forse di più nella realtà. Nel 2008 scommetterei su un risultato fra il 10% e il 10,5%. Di recente si è fatta strada l´idea che la Cina e altre economie asiatiche possano sganciarsi dall´andamento dell´economia americana. E´ vero che negli ultimi anni la crescita Usa non è stata brillante e invece quella cinese è stata formidabile. Ma io escludo che la Cina possa isolarsi del tutto da un contagio americano. Il nostro meccanismo di sviluppo è intimamente collegato alla globalizzazione. Nessuna economia è un´isola e noi non facciamo eccezione. Le esportazioni contribuiscono per un terzo alla crescita del Pil cinese. Se c´è una grave recessione negli Stati Uniti, la Cina soffrirà parecchio. Anche se il rallentamento americano dovesse essere "soft" io prevedo che le nostre esportazioni diminuiranno. Vi contribuiscono dei fattori interni: sta aumentando il nostro costo del lavoro, insieme con i costi dell´energia e delle materie prime che dobbiamo importare. Inoltre il governo cinese investe di più nella protezione dell´ambiente e anche questo ha dei costi. Infine sono convinto che è in arrivo un´ondata protezionista contro di noi».
Quanto è serio per voi il problema dell´inflazione? Il potere d´acquisto del lavoratore cinese perde quota?
«Il rincaro dei prezzi è il problema numero uno per il governo cinese in questo momento. Per molti anni l´inflazione era rimasta sotto controllo. Dal 2006 e soprattutto nel 2007 è ripartita al rialzo. L´effetto più grave è che si allarga ulteriormente il divario tra i ricchi e i poveri. Chi ha solo il salario per vivere sarà più colpito. La maggioranza della popolazione soffre per il carovita nei beni alimentari e nell´energia. La storia ci insegna che l´inflazione può minacciare la stabilità sociale. L´ultimo esempio fu alla fine degli anni 80: una delle cause dei disordini di Piazza Tienanmen fu l´inflazione a due cifre che imperversava a quell´epoca. Perciò il governo è molto preoccupato. Un altro timore: l´inflazione alimenta la bolla speculativa del mercato immobiliare che prima o poi scoppierà provocando a sua volta tensioni sociali. Alcune categorie di lavoratori sono relativamente protette grazie ai recenti aumenti salariali ma questo a sua volta può accelerare l´inflazione. La risposta giusta secondo me è una stretta monetaria più severa, e una più veloce rivalutazione della nostra moneta, il renmimbi».
Questa è "musica" per le orecchie occidentali. Americani ed europei chiedono da tempo che il renmimbi diventi più forte. Perché lei è favorevole?
«Una delle cause dell´inflazione è che importiamo petrolio e materie prime i cui prezzi in dollari sono rincarati vertiginosamente. Se il renmimbi si apprezza pagheremo meno le importazioni e la pressione sul costo della vita verrà calmierata. Credo che il governo sia più aperto oggi su questo terreno. In passato i dirigenti cinesi temevano che una moneta più forte avrebbe penalizzato le nostre esportazioni creando disoccupazione. Ma dalla fine del 2005 alla fine del 2007 si è lasciato che il renmimbi si apprezzasse lentamente sul dollaro, circa del 10%, eppure il nostro attivo commerciale con gli Stati Uniti è aumentato. Ho fatto ricerche mirate sui settori industriali esportatori in regioni come il Guangdong, arrivando alla conclusione che anche se dovessero fallire alcune piccole e medie aziende esportatrici non vi saranno effetti consistenti sulla disoccupazione. In quelle aree ormai ci sono fenomeni di penuria di manodopera e i lavoratori licenziati troverebbero facilmente un posto. Credo che nei prossimi tre anni vedrete una rivalutazione del renmimbi molto più pronunciata».
Cosa vuol dire per noi? Diminuirà l´invasione del made in China sui mercati europei?
«Non fatevi illusioni, non sarà il renminbi più forte a correggere gli squilibri commerciali. Le esportazioni cinesi non sono molto sensibili al tasso di cambio. Perfino se rivalutassimo il renminbi del 20% o addirittura del 50% continueremmo ad avere un attivo commerciale. La ragione va cercata nei cambiamenti strutturali dell´economia mondiale e del commercio fra nazioni. Non bisogna ragionare secondo i vecchi schemi per cui noi ci specializzavamo nei prodotti ad alta intensità di lavoro come le scarpe e i vestiti, e in cambio importavamo alta tecnologia come gli Airbus. Il vero carattere distintivo della globalizzazione è l´immensa dimensione della delocalizzazione e dell´outsourcing in ogni settore industriale. Le multinazionali europee e americane devono reagire alla concorrenza riducendo i costi e quindi spostano continuamente interi processi produttivi in Cina e in altri paesi emergenti. Gran parte delle nostre esportazioni fanno parte di questo fenomeno: importiamo materie prime e semilavorati, li trasformiamo, creiamo valore aggiunto e riesportiamo, spesso per conto di multinazionali occidentali. Per quanto si rivaluti la nostra moneta, molte produzioni di computer o di scarpe non torneranno mai più in Europa. Una rivalutazione del renmimbi spingerà le nostre imprese a diventare più efficienti com´è accaduto in Giappone. Rispetto agli anni 70 lo yen giapponese si è rivalutato eppure il Giappone continua ad avere un grosso attivo commerciale con l´Occidente».
Gli europei sono angosciati dall´effetto dello sviluppo cinese sull´ambiente. State cercando seriamente di ridurre le emissioni carboniche?
«Cominciamo a vedere i primi effetti delle misure in favore dell´ambiente. Nelle mie indagini più recenti nella provincia industrializzata del Guangdong ho individuato molte piccole aziende che sono state costrette a chiudere per via delle nuove normative contro l´inquinamento. Stiamo anche introducendo incentivi di mercato che rendano redditizio tagliare le emissioni carboniche per vendere i propri diritti sul mercato, secondo il modello di Kyoto. L´Europa può aiutarci accelerando il trasferimento di tecnologie "verdi". E´ nel vostro interesse ed è anche una grande opportunità di mercato».
Di fronte all´ascesa della Cina come superpotenza ci interroghiamo: in che modo segnerà il XXI secolo? Quale sarà l´impronta cinese sul nuovo ordine mondiale?
«E´ evidente che eserciteremo un ruolo sempre più decisivo non solo nell´economia globale ma anche sulla scena politica. Io non credo che saremo una forza destabilizzante, al contrario. Siamo talmente interessati al buon funzionamento dell´economia globale, che c´è un´evidente convergenza d´interessi con gli Stati Uniti. Guardate com´è cambiata negli ultimi anni la percezione che i nostri vicini asiatici avevano di noi: ancora dieci anni fa i paesi confinanti vedevano la Cina come una minaccia, oggi hanno cambiato completamente parere. Vedo semmai più occasioni di tensione con l´Europa, dove alcune nazioni meno sviluppate si sentono più direttamente minacciate dalle esportazioni cinesi. Se si aggiunge il fatto che avete economie e mercati del lavoro meno flessibili degli Stati Uniti, è in Europa che vedo venire più tensioni protezionistiche. Ma dovete essere consapevoli che l´ascesa della Cina è inesorabile. E´ urgente costruire nuove istituzioni per il dialogo e la governance globale: quelle esistenti come il G8 o il Wto non sono riuscite a integrare in modo soddisfacente il nuovo peso politico delle nazioni emergenti».

Vandana Shiva: «In India cresce la tecnologia, Ma i contadini si suicidano per la fame»

l'Unità 21.1.08
Vandana Shiva: «In India cresce la tecnologia, Ma i contadini si suicidano per la fame»
di Cristiana Pulcinelli

FESTIVAL DELLA SCIENZA A Roma ieri una conferenza congiunta di due rappresentanti di Cindia

All’auditorium di Roma ieri era di scena Cindia, ovvero l’aggregato di Cina e India. Le due nazioni più popolose del mondo stanno diventando protagoniste del mondo della ricerca scientifica e il festival della scienza della capitale ha dedicato l’ultima giornata ad analizzare questo fenomeno attraverso la conferenza di due donne: la neuroscienziata cinese Nancy Ip e l’indiana Vandana Shiva, fisica, economista e una delle più famose rappresentanti del mondo ecologista.
Nancy Ip ha fornito alcuni dati che indicano in modo chiaro come la Cina stia procedendo a passi da gigante verso l’obiettivo di uno sviluppo basato sull’innovazione. Basti pensare che nel giro di pochi anni l’investimento complessivo in ricerca e sviluppo è cresciuto tanto che nel 2005 è arrivato al secondo posto dopo gli Stati Uniti. E sempre al secondo posto, i cinesi si sono piazzati per numero di ricercatori, molti dei quali, peraltro, sono cervelli rientrati in patria dopo essere fuggiti in occidente. Secondo alcune previsioni, entro pochi anni il 90 % degli scienziati del mondo verranno dall’Asia. Certo, in Cina rimangono aperti numerosi problemi, a cominciare da una istruzione di base pubblica sempre meno di qualità. Poi c’è il problema della responsabilità sociale degli scienziati e l’impatto dello sviluppo di un paese tanto densamente abitato sulle risorse del pianeta. E ancora, il problema della tutela della proprietà intellettuale che, secondo i parametri occidentali, non è sufficientemente garantita.
E proprio da quest’ultimo punto prende le mosse il discorso di Vandana Shiva. I brevetti sono spesso frutto di atti di pirateria, dice la scienziata indiana: «La Monsanto ha preso i semi di una varietà di grano indiano a basso contenuto di glutine e li ha brevettati: ha detto questi sono mia proprietà. Si sa che le allergie al glutine sono molto diffuse in occidente e quindi questo grano è interessante da un punto di vista commerciale. Lo stesso è stato fatto con i semi di una varietà di cotone. Così i profitti della Monsanto crescono, mentre i contadini, che prima avevano i semi da piantare, oggi devono comprarli: negli ultimi anni 200mila contadini si sono suicidati in India».
Ma non è solo l’industria alimentare che si comporta in modo insostenibile. «Si è molto parlato dell’automobile Nano della Tata, quella da 1700 euro. Si è detto che è frutto dell’innovazione scientifica. In realtà è solo un’auto più piccola, ma che funziona come tutti gli altri veicoli, a benzina. Cosa c’entra quindi la scienza? Si tratta solo di un problema di design. Si è detto anche che l’auto costerà poco, ma è già costata troppo: terre fertili sono state espropriate ai contadini per darle all’industria che la costruirà. Si è detto che sarà un’auto per il popolo. Falso: se la potrà permettere solo il 5% della popolazione indiana». Il fatto è che la crescita economica in India sta rafforzando una classe di nuovi ricchi, ma la povertà è sempre più diffusa, sostiene Vandana Shiva. Qual è allora il metro per giudcare la buona scienza? «Usare al minimo le risorse della Terra e sostenere la creatività umana».

domenica 20 gennaio 2008

Bomba intelligente




Bomba intelligente: "Alzi la mano chi di voi si chiama Bin Laden"

"Dov'è Bin Laden? Dov'è al-Qaida?"



"Dov'è Bin Laden? Dov'è al-Qaida?"

sabato 19 gennaio 2008

Incredibile: per la Bce il pericolo viene dai salari...

Incredibile: per la Bce il pericolo viene dai salari...
l'Unità del 18/01/2008

Secondo l’Istituto rischiano di far impennare l’inflazione, su cui già pesano i rincari di petrolio e alimentari

Un fantasma si aggira per l’Europa: gli aumenti salariali. Questo l’allarme (poco credibile, almeno per quantro riguarda l’Italia) lanciato ieri dalla Bce, secondo cui aumenti salariali più forti del previsto rischiano di far impennare ulteriormente l'inflazione, sulla quale già pesano «forti pressioni al rialzo» legate al caro-petrolio e agli alimentari. Conclusione: è indispensabile che tutte le parti coinvolte nelle negoziazioni «mostrino senso di responsabilità». È altresì importante «eliminare qualsiasi forma di indicizzazione delle retribuzioni nominali ai prezzi», visto che la fiammata dell'inflazione è destinata gradualmente a rientrare nel corso dell'anno, anche se i prezzi rimarranno saldamente sopra il 2% nei prossimi mesi.
La Bce, nel comunicare che seguirà con «particolare attenzione le trattative salariali nei paesi dell'area euro», torna a minacciare un eventuale rialzo dei tassi di interesse. Il consiglio «è pronto ad intervenire in via preventiva al fine di evitare il concretizzarsi di effetti di secondo impatto e rischi al rialzo per la stabilità dei prezzi a medio termine». Strategia opposta a quella del presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, che ieri ha ribadito che, se ce ne sarà bisogno, la Fed potrebbe agire con tagli notevoli ai tassi di interesse per fornire uno stimolo all’economia americana.
La minaccia di una possibile stretta dei tassi da parte della Bce, comunque, non viene considerata credibile dagli analisti che scommettono addirittura in un taglio del tasso di riferimento dall'attuale 4% entro la fine del 2008.
La Bce continuerà comunque a privilegiare la crescita, sulla quale pesano rischi di ribasso: nonostante i fondamentali dell'economia di Eurolandia siano solidi e l'espansione del pil in termini reali sia sostanzialmente in linea con quella del prodotto potenziale, sulla crescita economica gravano «rischi di indebolimento che riflettono principalmente la possibilità che la rivalutazione del rischio in corso nei mercati finanziari abbia una ricaduta maggiore di quanto attualmente atteso sulle condizioni di finanziamento e sul clima di fiducia, con un impatto negativo sulla crescita mondiale e dell'area euro».
Le turbolenze sui mercati finanziari e le tensioni sul mercato interbancario al momento hanno avuto effetto solo sui tassi applicati nell'erogazione di prestiti, divenuti «contrastanti»: se da un lato quelli per i nuovi mutui a tasso variabile con determinazione iniziale del tasso fino a un anno sono saliti in ottobre al 5,29% (+6 punti base su settembre), dall'altra parte si è avuto un calo di ben 41 punti base all'8,09% per i nuovi prestiti alle famiglie per l'acquisto di beni.

venerdì 18 gennaio 2008

I campesinos messicani in piazza contro il Nafta

I campesinos messicani in piazza contro il Nafta

di Gianni Proiettis

l Manifesto del 05/01/2008

Col 2008 entra in vigore l'ultimo capitolo del trattato di libero commercio tra Usa, Canada e Messico: mais, fagioli, zucchero. Il colpo di grazia

Un'ondata di manifestazioni ha percorso il Messico da nord a sud dalla notte di Capodanno. Erano manifestazioni di campesinos - ma non solo - contro l'avvio dell'ultimo capitolo del trattato di libero commercio fra Canada, Stati uniti e Messico. Il capitolo agro-pecuario, che da inizio 2008 prevede l'apertura totale della frontiera messicana all'import di mais, fagioli, zucchero di canna e latte in polvere dagli Usa: il colpo di grazia alla stremata agricoltura messicana.
A Ciudad Juarez centinaia di manifestanti hanno bloccato il ponte che porta a El Paso, Texas, impedendo la circolazione fra i due paesi. Dopo aver spiegato i motivi della protesta agli automobilisti, i campesinos hanno riaperto il ponte al traffico ma, sotto lo sguardo nervoso degli elicotteri della Border Patrol, fermavano tutti i camion in entrata in Messico per assicurarsi che non contenessero fagioli o mais.
I dimostranti, che hanno sfidato i meno 3 della notte, appartenevano a varie organizzazioni contadine già confluite da anni nella Red Mexicana de Acción frente al Libre Comercio, che in giugno ha lanciato una campagna nazionale in difesa della sovranità alimentare e la riattivazione delle campagne e sta raccogliendo un milione di firme.
«Sin maíz no hay país», scandiscono, senza mais non c'è Messico. Perché questo cereale non è solo la base dell'alimentazione popolare - come se fosse poco - ma anche la radice profonda della cultura meso-americana, simbolo identitario per eccellenza. Nella cosmogonia maya del Popol Vuh, l'uomo non è creato dall'argilla, ma dal granturco.
E' simbolico che nel paese, dove più di 7000 anni fa si scoprì questa preziosa graminacea a partire da una specie silvestre, si debba oggi importarlo a forza dal potente vicino del nord. E per di più transgenico. Il fatto che quello made in Usa costi meno è dovuto ai forti sussidi di cui beneficiano gli agricoltori statunitensi, sussidi che per i contadini messicani rappresentano la prova di una concorrenza sleale.
«I campesinos si rifiutano di sparire e morire per decreto dei potenti», dice Gabino Gómez dell'associazione El Barzón. La maggioranza delle organizzazioni contadine chiedono che le clausole del trattato che riguardano i fagioli e il mais vengano rinegoziate, tenendo conto che l'apertura venne programmata nel 1994 ma la situazione da allora è molto mutata. L'emigrazione illegale verso gli Stati uniti non ha smesso di aumentare in questi 14 anni e le campagne messicane hanno continuato a svuotarsi.
L'abbandono delle campagne è buona notizia solo per i giganti dell'agro-business, veri avvoltoi in circolo a cui la cosiddetta «ley Monsanto» dà diritto di scorribanda. Mentre i campesinos sono decisi a non mollare e hanno già annunciato una marcia sulla capitale per la fine di gennaio, il governo Calderón sul tema dell'agricoltura mostra finora un encefalogramma piatto.
In Messico, l'85% del mais è prodotto da contadini che dispongono di meno di 5 ettari e usano metodi tradizionali e sementi proprie. Ma le grandi multinazionali - Cargill e Monsanto in testa - hanno formato un Consejo Nacional Agro-pecuario insieme ai grandi produttori messicani e premono per introdurre la coltivazione di mais ogm direttamente in Messico. Dicono che sarebbe la soluzione «di fondo» per aumentare la produzione.
L'opinione pubblica però non ha dimenticato che, esattamente un anno fa, furono proprio le grandi compagnie del settore a provocare un aumento del 40% del prezzo della tortilla. In quell'occasione, era bastato l'annuncio di una domanda di mais per la produzione di bio-combustibile a far lievitare i prezzi. Oggi, il rincaro della benzina, scaglionato mensualmente per gentile concessione del governo, ha già provocato un aumento del 35% nei generi di prima necessità.
A Città del Messico, il 2 gennaio una manifestazione è sfilata davanti all'ambasciata Usa. Vi hanno partecipato le più combattive organizzazioni contadine e popolari, fra cui la Appo di Oaxaca e il Frente de Pueblos en Defensa de la Tierra di Atenco. In un documento, consegnato ai deputati del Congresso, chiedono l'annullamento completo del trattato di libero commercio.
«Durante i 14 anni di esistenza del Tlcan (Nafta, in inglese), sono cresciute in maniera allarmante in Messico la disoccupazione, l'emigrazione, la distruzione delle attività agricole, la concentrazione e l'accumulazione della ricchezza, la caduta del potere d'acquisto dei salari e la povertà estrema». In effetti, gli unici che hanno tratto vantaggio dal Tlcan sono i grandi esportatori agro-pecuari messicani e le multinazionali del settore.

La Gran Bretagna rilancia il nucleare, insorgono gli ambientalisti

La Gran Bretagna rilancia il nucleare, insorgono gli ambientalisti

di Francesca Marretta

Liberazione del 11/01/2008

Il governo Brown ha dato il via libera alla costruzione di 22 impianti atomici di nuova generazione finanziati da compagnie private. «Ridurrà le emissioni di Co2», giurano a Downing Street. La rabbia delle associazioni che annunciano azioni legali: «E' una menzogna»

Energia nucleare per tagliare le emissioni di Co2 e per risparmiare sulle bollette sempre più salate di petrolio e gas naturale. E' questa la ricetta di Londra soddisfare il costante aumento del fabbisogno energetico del Regno Unito. Per questo il governo britannico ha ufficialmente approvato un piano di ammodernamento ed ampliamento dei siti nucleari esistenti che forniscono il 20% dell'energia del Regno Unito, con impianti di nuova generazione. Il nucleare è ormai «sicuro» e «ampiamente sperimentato» ha spiegato il ministro dell'Industria John Hutton, che ieri ha presentato alla Camera dei comuni il Libro bianco sul nucleare. «E' nel pubblico interesse che nuove centrali nucleari contribuiscano al mix energetico della nazione, insieme ad altre tecnologie a basso impatto ambientale», ha dichiarato il ministro.
Il nuovo piano energetico dell'esecutivo Brown, che scioglie l'indecisione del Labour sulla questione del nucleare, definita, solo fino a pochi anni fa un'opzione «poco attraente», si è scontrato con l'immediata opposizione delle organizzazioni ambientaliste, che si chiedono se un costo da 100mld di euro per la sostituzione di impianti nucleari obsoleti sia sostenibile per il paese. Sulla questione della spesa il governo ha messo le mani avanti, annunciando che saranno aziende private a finanziare, sviluppare e costruire le nuove centrali nucleari, ad occuparsi dello smaltimento dei rifiuti, fino allo smantellamento. Per facilitare il lavoro delle imprese ed invogliarle a partecipare alle gare, il governo si è impegnato a snellire i nodi procedurali. Del resto non era stato proprio Gordon Brown a dire che dall'eredità della Thatcher c'era da imparare? Allo stesso tempo, si tratta pur sempre di una fondamentale risorsa strategica per il paese, il ministro dell'esecutivo laburista ha annunciato che sarà istituita una commissione indipendente incaricata di supervisionare i costi del piano energetico, compreso l'impatto sulle bollette dei consumatori britannici, al fine di garantire la funzionalità dell'intero sistema. La stessa commissione sarà incaricata di studiare una soluzione per la questione dello smaltimento dei rifiuti nelle vecchie centrali.
Il piano, ha incassato l'approvazione dei Tories, purché si mantenga l'impegno a non spendere una sterlina di danaro pubblico, mentre il nuovo leader dei Liberaldemocratici Nick Clegg, ha esortato il governo ad «essere onesto» sulla questione dei costi dell'operazione e soprattutto su chi davvero graverà la bolletta: «Il governo dovrebbe abbandonare questi elefanti bianchi e concentrarsi piuttosto su una maggiore efficienza energetica e l'uso di tecnologie rinnovabili». Il direttore di Greenpeace, organizzazione in testa al coro delle proteste ambientaliste, John Sauven, sostiene che alla base dell'annuncio del governo sul nucleare c'è una menzogna di fondo. «Una ricerca degli stessi ministri di questo governo dice che persino la costruzione di 10 nuovi reattori taglierebbe le emissioni di Co2 solo del 4% e dopo il 2025», ha affermato Sauven, aggiungendo che la scelta nucleare «consente a politici come Gordon Brown di diffondere l'impressione illusoria di essere in grado di prendere decisioni difficili». Greenpeace ha annunciato ricorsi legali contro il piano del governo Brown, con l'intenzione di dimostrare in tribunale, dati alla mano, l'inutilità e la dannosità del nuovo piano energetico nazionale britannico. L'energia elettrica prodotta da reattori nucleari nel Regno Unito viene generata da 9 centrali che dispongono complessivamente di 19 reattori attivi. Saranno 14 le località interessate dagli impianti di nuova generazione (che dovrebbero essere 22), tra cui Hinkley Point, Sizewell, Dungeness e Bradwell. Il progetto contenuto nel libro bianco sull'energia indica 10 siti in cui costruire centrali a reattore singolo, da 1,1 a 1,6 Giga-Watt ed altri 12 considerati «ottimali» per installare i reattori gemelli di ultima generazione, che erogano una potenza compresa tra 2,2 e 3,2 Giga-Watt.
La Gran Bretagna segue in Europa l'esempio di Francia e la Finlandia, già impegnate nella costruzione di nuovi impianti nucleari. Nonostante la devolution scozzese non copra la politica energetica, il governo autonomo scozzese mantiene forme di controllo sulla pianificazione e sulla costruzione di nuovi impianti energetici. E sulla questione nucleare il primo ministro scozzese Alex Salmond ha detto a Londra che la Scozia non vuole altre altri siti, bastano quelli che ci sono (Dounreay, Hunterston, Torness e Chapelcross). Un ammutinamento che non mancherà di avere ripercussioni nelle varie contee della verde, ma atomica Gran Bretagna.

La banca Ubs: la crisi dei mutui subprime proseguirà nel 2008

La banca Ubs: la crisi dei mutui subprime proseguirà nel 2008

di Ma. Ga.

Il Manifesto del 12/01/2008

«I problemi che il sistema dei servizi finanziari ha dovuto affrontare nel 2007 non svaniranno con l'arrivo del nuovo anno», hanno detto ieri il presidente dell'Ubs, Marcel Ospel e l'amministratore delegato dell'istituto svizzero Marcel Rohner.
Non è stato un augurio di buon 2008.
Contemporaneamente - dall'altra sponda dell'Atlantico - un'anticipazione del New York Times ha rivelato che la Merrill Lynch starebbe per annunciare una maxi-svalutazione pari a 15 miliardi di dollari per la prossima settimana, quando saranno presentati i suoi conti relativi all'andamento del quarto trimeste.
Per la Merrill Lynch sarebbe la seconda grande svalutazione in pochissimo tempo, dopo quella pari a 8,5 miliardi di dollari annunciata nel terzo trimestre, entrambe legate alla crisi dei mutui subprime. Una crisi che comtinua a mietere vittime finanziarie e che sta spingendo molti grandi gruppi finanziari, soprattutto statunitensi, a spostare i propri investimenti verso i mercati asiatici considerati più sicuri o verso alcuni beni rifugio, come i metalli preziosi.
Nel frattempo, alcune banche si sono lanciate nell'acquisizione di grandi società indebitate che hanno offerto mutui «facili» all'epoca della bolla immobiliare. Bank of America è corsa ad acquistare - per circa 4 miliardi di dollari - la Countrywide Financial, il colosso dei prestiti immobiliari, mentre la JP Morgan Chase - secondo l'emittente televisiva Cnbc - sembra puntare sulla Washington Mutual, uno dei maggiori istituti ad agire su base regionale negli Usa.
In Gran Bretagna, la Northern Rock - che ha rischiato il fallimento ed è stata salvata dalla banca centrale britannica - venderà i suoi crediti ipotecari per un controvalore di 4,3 miliardi di dollari sempre alla JP Morgan Chase. Un modo per fare cassa, senza tuttavia scongiurare l'ipotesi avanzata dal Cancelliere dello Scacchiere, Alistar Darling, di una prossima nazionalizzazione della Northen Rock per salvarla dal crack.
L'obiettivo di tutti è quello di non spaventare gli azionisti e di non «metterli in fuga». L'Ubs ha inviato una lettera via internet ai suoi risparmiatori per cercare di riassicurarli sostenendo che «la banca supererà le attuali difficoltà qualora accetti un aumento di capitale di 13 miliardi di franchi svizzeri da raccogliere tramite un contributo del sovrano di Singapore e di un altro investitore del Medio Oriente». Investitore misterioso di cui non è ancora nota l'identità.