mercoledì 28 novembre 2007

Morto e vissuto di schok: l'episodio del taser a Vancouver

Morto e vissuto di schok: l'episodio del taser a Vancouver
di Naomi Klein - 28/11/2007

dal sito: comedonchisciotte

La scorsa settimana è stato divulgato un video visto dal mondo intero, un video in cui lo scorso ottobre poliziotti della Royal Canadian Mounted Police usavano una pistola Taser* su di un cittadino polacco all’aeroporto internazionale di Vancouver. L’uomo, Robert Dziekanski, morì subito dopo. Nei giorni scorsi sono emersi alcuni retroscena a suo riguardo. Sembra che il 40enne polacco non morì soltanto dopo aver subito l’elettroshock, ma pare che la sua vita fosse costellata di episodi “shoccanti”.

Nel 1989 Dziekanski era un giovanotto, quando la Polonia diede inizio al grande esperimento chiamato “shock terapeutico” per la nazione. Si prometteva che se quel Paese comunista avesse accettato una serie di misure economiche brutali, la ricompensa sarebbe stata che la Polonia avrebbe ottenuto lo “status” di “normale Paese europeo” come la Francia o la Germania. La sofferenza sarebbe stata breve, la ricompensa grande.

Per far questo, da un giorno all’altro, il governo polacco eliminò il controllo dei prezzi, tagliò i finanziamenti, privatizzò le industrie. Ma per giovani lavoratori come Dziekanski il “normale” non arrivò mai. Oggi circa il 40% dei lavoratori polacchi sono disoccupati. Dziekanski era tra questi. Aveva lavorato come tipografo e minatore, ma era disoccupato da alcuni anni e aveva avuto screzi con la polizia.

Come molti polacchi della sua generazione, Dziekanski cercò lavoro in uno di quei Paesi “normali”, come sarebbe dovuta diventare la Polonia, senza riuscirvi. Solo negli ultimi tre anni due milioni di polacchi hanno partecipato a questo esodo di massa. Quelli come Dziekanski hanno cercato lavoro a Londra come baristi, a Dublino come portinai, e in Francia come idraulici. Il mese scorso decise di seguire sua madre nella British Columbia, in Canada, che sta attraversando un periodo di grande lavoro nel campo edilizio in previsione delle prossime Olimpiadi.

“Dopo aver aspettato sette anni, Dziekanski arrivò nel Paese dei suoi sogni, Vancouver”, disse il Console polacco Maciej Krych. “Dieci ore dopo, era morto!”.

L’indignazione causata dal video girato da un passeggero si è concentrata sull’intollerabile uso del Taser, già coinvolto nella morte di 17 persone in Canada e molte di più negli Stati Uniti, ma cosa successe a Vancouver non riguarda unicamente l’uso del Taser, ma piuttosto la brutalità della crescente economia globale. Riguarda la realtà con cui molte vittime di varie forme di “shock economico-terapeutico” vivono alle nostre frontiere.

Trasformazioni rapide come quelle della Polonia hanno, sì, creato enormi ricchezze – in opportunità di investimento, nello scambio di valuta, nella crescita di nuove aziende più competitive, capaci di setacciare il globo alla ricerca dei luoghi più a buon prezzo dove produrre, ma dal Messico alla Cina, fino alla Polonia, hanno anche creato decine di milioni di disadattati, di persone che hanno perso il lavoro quando le loro ditte hanno chiuso i battenti, o che hanno perso la loro terra quando nuove zone di esportazione sono state aperte.

E’ logico che spesso molti decidano di emigrare: dalle campagne alle città, da nazione a nazione. Come sembra avesse fatto Dziekanski, essi sono alla ricerca di quel fantomatico “normale”. Ma non esiste abbastanza “normale” da spartire, o così ci dicono. Per cui, quando la gente decide di emigrare, spesso trova altri shock ad attenderla, tipo una orrenda recinzione di filo spinato a protezione del confine spagnolo o una pistola Taser al confine tra USA e Messico. Il Canada, famoso per la sua apertura all’immigrazione, sta militarizzando le proprie frontiere, e la sottile linea che divide l’immigrato dal terrorista sta rapidamente offuscandosi.

Il trattamendo spietato risercvato a Dziekanski dalla polizia canadese deve essere visto in tale contesto. La polizia fu chiamata quando Dziekanski, smarrito e disorientato, iniziò ad imprecare in polacco, e a un certo punto fece volare una sedia. Se devi affrontare uno straniero come Dziekanski, che non parla inglese, perché comunicare se puoi “shoccare”? Mi colpisce il fatto che la stessa logica brutale e gli stessi espedienti hanno guidato la politica economica della Polonia verso il capitalismo: perché intraprendere una graduale via di cambiamento, che avrebbe richiesto dibattiti e consensi, quando uno “shock terapeutico” prometteva, anche se con dolore, una cura istantanea?

Capisco che sto parlando di tipi di shock molto diversi tra di loro, che sono però interconnessi in un ciclo che io chiamo “la dottrina dello shock”. Prima c’è lo shock di una crisi nazionale, che getta i Paesi nella disperazione per cui sono pronti a qualsiasi tipo di cura, pronti a sacrificare nel processo persino la propria democrazia. Nel 1989, in Polonia, quel primo “shock” è stata la fine del Comunismo e il tracollo economico. Venne poi la “terapia dello shock”, quel processo anti-democratico entrato dalla “finestra” della crisi che fece sì balzare in avanti l’economia, ma a discapito dei lavoratori. Poi ancora, in troppi casi, c’è quel terzo “shock”, quello che gestisce e disciplina i disadattati, i disperati, gli immigrati, quelli che il sistema ha fatto impazzire.

Ogni “shock” può uccidere, alcuni più rapidamente di altri.

Naomi Klein è l’autrice di molti libri, tra cui il più recente, “Shock Economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri”, pubblicato a settembre. Visita il sito di Naomi, www.naomiklein.org, o per saperne di più sul suo libro, il sito www.shockdoctrine.com

(*) Il termine taser è un marchio depositato dalla TASER International, Inc. ed è l'acronimo di Thomas A. Swift's Electronic Rifle, dove Tom Swift è il nome del personaggio di un fumetto. Questo termine è usato per riferirsi a dei dispositivi classificati come armi da difesa "meno che letali" che fanno uso dell'elettricità per far contrarre i muscoli del soggetto colpito.

Tali dispositivi sono stati ideati nel 1969 da Jack Cover ma i modelli che permettono l'immobilizzazione totale di una persona sono stati progettati a partire dal 1998. Nel novembre 2007, in conseguenza della morte di una persona in Canada (la terza nel lasso di tempo di un mese) si sono accentuate le polemiche sull'uso di questo tipo di arma, la cui adozione è stata fortemente criticata dall'ONU e della quale Amnesty International ha chiesto il ritiro. (da Wikipedia)

Titolo originale: "Shocked to death"

Fonte: http://www.latimes.com/
Link
21.11.2007

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di GIANNI ELLENA

Guerra in Iraq: più di 15 mila le vittime statunitensi?

Guerra in Iraq: più di 15 mila le vittime statunitensi?
di Mike Withney - 28/11/2007

dal sito: comedonchisciotte

Il Pentagono ha nascosto il vero numero delle perdite americane nella guerra in Iraq. Il numero autentico supera le 15.000 unità e CBS News può provarlo.

L'unità investigativa della CBS voleva fare un servizio sul numero dei soldati morti per suicidio e ha "sottomesso una richiesta al Dipartimento della difesa in base al Freedom of Information Act". Dopo quattro mesi ricevettero un documento che mostrava che, tra il 1995 e il 2007, vi erano stati 2200 suicidi tra soldati in "servizio attivo".

Stronzate.

Il Pentagono stava nascondendo la reale entità dell' "epidemia di suicidi". Dopo un'esauriente indagine su dati riguardanti il suicidio di veterani raccolti in 45 stati la CBS scoprì che nel solo 2005 "ve ne erano stati almeno 6256 tra coloro che avevano prestato servizio nelle forze armate. Ciò vuol dire 120 per ogni singola settimana in un solo anno".

No non è un errore di stampa. Personale militare in congedo o in servizio attivo, in gran parte giovani veterani tra i 20 e i 24 anni, ritornano dal combattimento e si uccidono in quantità mai viste prima. Possiamo assumere che "turni multipli di servizio" in una zona di guerra abbiano fatto precipitare una crisi di salute mentale di cui il pubblico non sa assolutamente nulla e che il Pentagono nega completamente.

Se aggiungiamo i 6256 morti per suicidio nel 2005 all'ufficiale cifra di 3865 perdite in combattimento otteniamo un totale di 10.121 morti. Persino una stima a occhio di quantità di suicidi simili nel 2004 e nel 2006 implicherebbe un numero totale di perdite Usa nella guerra in Iraq che supererebbe le 15.000.

Già, 15.000 uomini e donne Usa in servizio attivo, morti in una guerra che non ha ancora alcuna giustificazione legale o morale.

La CBS ha intervistato il Dr. Ira Katz, direttore per la salute mentale al Dipartimento per le questioni dei Veterani. Katz ha tentato di minimizzare l'incremento di suicidi tra i veterani affermando che "non c'è un'epidemia di suicidi, ma il suicidio è un grande problema".

Forse Katz ha ragione. Forse non c'è un'epidemia. Forse è perfettamente normale che giovani uomini e donne di ritorno dal combattimento affondino in una inconsolabile depressione e si uccidano in quantità maggiori di coloro che muoiono sui campi di battaglia. Forse è normale per il Pentagono abbandonarli appena ritornano dalla loro missione e lasciare che si facciano esplodere il cervello o si impicchino nella loro cantina con un tubo da giardino. Forse è normale che i politici continuino a finanziare un massacro scansando le perdite che hanno prodotto a causa della loro insensibilità e mancanza di coraggio. Forse è normale che il presidente continui con le solite, insipide bugie che perpetuano l'occupazione e continuano a uccidere decine di giovani soldati che si sono esposti al rischio per il loro paese.

No, non è normale; è una pandemia-- un'esplosione di disperazione che è il corollario naturale per chi vive nella paura costante di vedere i propri amici venire smembrati dalle "roadside bombs", o vedere bambini fatti a pezzi ai checkpoint, o trovare corpi torturati sepolti sulle rive di un fiume come un sacco di spazzatura.

L'esplosione del numero di suicidi è il logico risultato della guerra Usa all’Iraq. I soldati che ritornano sono traumatizzati dalla loro esperienza e si uccidono a decine. Forse avremmo dovuto pensarci prima di iniziare l'invasione.

Guardate il video di CBS News "Suicide Epidemic among Veterans".

Mike Whitney vive nello stato di Washington. Può essere contattato all’indirizzo: fergiewhitney@msn.com

Titolo originale: "Pentagon Cover Up 15,000 or More US Deaths in Iraq War?"

NOTA DEL REDATTORE:

In passato abbiamo pubblicato articoli (vedi sotto) che ipotizzavano che il numero dei morti USA in combattimento in Iraq potesse essere molto più alto di quello ufficiale. Pur non presentando prove definitive e sostanziali tali articoli esprimono dei "rumors" diffusi nella rete.

Questo articolo di Whitney, invece, riprende un’inchiesta delle CBS che mostra che i morti per suicidio tra i soldati americani che hanno prestato servizio attivo in Iraq potrebbero essere 7-8 volte di più dei morti in combattimento.

A questo punto la domanda sorge spontanea: è l’alto tasso di suicidi che ha generato la voce che il numero dei morti fosse maggiore dei circa 3900 caduti ufficiali? O, al contrario, il Pentagono, giocando con le cifre dei morti in combattimento (e forse dei morti in ospedale in seguito alle ferite) nasconde il reale numero di perdite subite dall’esercito di occupazione USA?

In tal caso il numero di 2200 suicidi tra il 1995 e il 2007 indicato originariamente dal Pentagono alla CBS potrebbe essere davvero quello reale. Un tasso di suicidi come quello scoperto in seguito dalla CBS, è molto maggiore che tra i veterani di guerre passate, spesso anche più cruente (basti pensare alle guerre mondiali)? Probabilmente si. La CBS indica più di 6000 suicidi nel solo 2005. Se tale cifra valesse indicativamente anche per gli altri anni di guerra, 2003, 2004 e 2007, avremmo più di 25000 morti compresi i 3865 in combattimento.

Lasciamo a chi ne ha i mezzi giornalistici per indagare la verifica del reale numero dei suicidi e il compito di indicare se si tratta di un fenomeno sociologicamente interessante come ipotizza Whitney, o della copertura per qualcosa di ben peggiore.

Articoli di interesse:

LE PERDITE MILITARI USA IN IRAQ SONO MAGGIORI DI QUANTO VIENE RIPORTATO

MORTI USA IN IRAQ: SOLO 1 NOME SU 10 VIENE PUBBLICATO

Fonte: http://www.counterpunch.org/
Link
18.11.2007

Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org da ALCENERO

Clima, l’Onu richiama i ricchi: in pericolo oltre un miliardo di poveri

Clima, l’Onu richiama i ricchi: in pericolo oltre un miliardo di poveri
di Pietro Greco
Per il rapporto dell’Undp saranno loro a pagare il prezzo più alto dei mutamenti dovuti ai gas serra. Servono 86 miliardi di dollariFATE ATTENZIONE ai poveri del mondo. Perché sono loro che pagheranno il prezzo più salato per i cambiamenti del clima accelerati dall’uomo. Il monito è delProgramma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite (Undp), che ieri ha reso pubblico il suo rapporto 2007/2008 sullo Sviluppo Umano dal titolo piuttosto esplicito: «Combattere il cambiamento del clima: la solidarietà umana in un mondo diviso». Ed è rivolto alla parte ricca del mondo, che è anche la principale responsabile dell’aumento della temperatura media del pianeta e dei suoi effetti. Si tratta di un monito tempestivo, perché lunedì 3 dicembre, si apre a Bali la conferenza dell’Onu che dovrà decidere il futuro del Protocollo di Kyoto e, quindi, le modalità con cui il mondo deciderà di combattere quella che molti, ormai, ritengono la più grave minaccia che incombe sull’umanità nel XXI secolo. Ma si tratta anche di un monito che scende nel dettaglio e diventa un vero e proprio programma politico. Con una sua coerenza. E una sua forza.I dati scientifici di riferimento sono quelli dell’Ipcc: la temperatura media del pianeta è aumentata di 0,72 °C nell’ultimo secolo. E aumenterà ancora di un valore compreso tra 1,8 °C e 4,0 °C entro il 2100. L’incertezza dipende anche dalle scelte politiche che, nel frattempo, adotteremo. Cosa comporterà, in termini economici e sociali, un cambiamento del clima che non ha precedenti negli ultimi millenni? Gli esperti dell’Undp non hanno dubbi. Peggiorerà in maniera insopportabile le condizioni di vita della fascia di popolazione più povera del mondo. L’alta temperatura irromperà in diversi modi nei campi, rivoltando il sistema agricolo di molti paesi. Entro i 2060, l’agricoltura a sud del Sahara subirà un calo di produttività del 26%. A livello mondiale altri 600 milioni di persone (in aggiunta agli 800 attuali) soffriranno la malnutrizione. E, entro il 2080, altri 1,8 miliardi di persone soffriranno la sete. In tutto il mondo i rifugiati ambientali potrebbero essere oltre 330 milioni.Ma anche sul piano sanitario i rischi saranno diffusi. Altre 400 milioni di persone, per esempio, saranno minacciate dalla malaria. Lo scenario dell’Undp, dunque, conferma e rafforza quello proposto nei mesi e nelle settimane scorse dagli scienziati dell’Ipcc. Ma l’Undp chiama anche a una precisa azione politica. Dobbiamo andare «oltre Kyoto» anche perché non possiamo far pagare ai poveri le colpe dei ricchi. E in maniera così drammatica. Che fare, dunque? Muoversi lungo due direzioni: cercare sia di prevenire che di adattarsi al clima che cambia. Chiamando i ricchi alla solidarietà attiva verso i più poveri. In tema di prevenzione, è bene che da Bali parta un processo con tappe ben definite per la riduzione delle emissioni di gas serra. L’accordo può essere raggiunto su questa base: i paesi sviluppati, che hanno responsabilità storiche, si impegnino a ridurre le loro emissioni del 30% rispetto ai livelli di riferimento del 1990 entro il 2030 e dell’80% entro il 2050. Nel medesimo tempo i paesi a economia emergente e i paesi ancora in via di sviluppo accettino di ridurre le loro emissioni del 20% entro il 2050, sempre rispetto al 1990 come anno di riferimento. Tutto ciò avverrà a un costo pari all’1,6% del Pil mondiale. Una cifra grande, ma inferiore di un terzo abbondante alla spesa militare. Un prezzo giusto per sventare la più grave minaccia alla sicurezza dei cittadini del pianeta. Se questo avverrà, riusciremo a mantenere la concentrazione di anidride carbonica entro il livello di 450 parti per milioni e limiteremo a soli (si fa per dire) 2 °C l’aumento della temperatura media del pianeta.Ma due gradi sono ancora molto. Anzi, moltissimo. Cosicché oltre a prevenire dovremo anche adattarci ai cambiamenti del clima. Inutile dire che i ricchi hanno le risorse, finanziarie e tecnologiche, per farlo. Non avranno questa capacità i poveri del mondo. Ecco perché i ricchi dovranno aiutare i poveri. Finanziando le loro possibilità di adattamento. Il prezzo della solidarietà è stato fissato dall’Undp in 86 miliardi di dollari l’anno da raggiungere entro il 2015. Non è un prezzo impossibile. Ma è alto. A tutt’oggi gli aiuti che ogni anno i paesi ricchi trasferiscono ai paesi poveri per aiutarli ad adattarsi al clima non superano i 26 milioni di dollari.

martedì 27 novembre 2007

Il deserto avanza in Sicilia

Il deserto avanza in Sicilia
I cambiamenti climatici hanno accelerato la desertificazione dell’isola, come di altre regioni meridionali. Il 27% del territorio italiano è a rischio. L’erosione delle coste, la deforestazione e la pressione migratoria da sud. Leonardo Sciascia l'aveva immaginato in modo diverso, quel mare che raccontò «color del vino», narrando il viaggio in treno di una famiglia che attraversava la costa ionica della Sicilia. Lo scrittore di Racalmuto avrebbe dovuto aspettare mezzo secolo, e spostarsi quaranta chilometri più a sud, per vedere coi suoi occhi le onde infrangersi sul litorale, onde dall’improbabile cromatismo porporino. Non dal vino quel rossore era causato, bensì dal venefico mercurio. Tutto accadeva proprio di fronte l’agglomerato industriale di Priolo Melilli. Lì, per venti e passa anni, le industrie del petrolchimico hanno scaricato a mare rifiuti chimici e veleni, contaminando suolo, falde acquifere e litorale, causando anche notevoli danni alla catena alimentare. In quella fabbriche, almeno fino al 2005, quando proprio la procura aretusea fece partire l’inchiesta denominata «Mare rosso», si produceva cloro-soda e il mercurio finiva nelle acque di fronte. E non è un caso che proprio in quella zona, insieme ai distretti industriali di Gela e di Pace del Mela nel messinese, si registrino dei picchi nei dati di mortalità per cancro, con una media di gran lunga al di sopra della norma, per non dire delle malattie dell’apparato respiratorio e dell’incidenza della malformazioni tra i neonati. Dal mare della provincia di Siracusa alle spiagge di Gela, per scoprire una sabbia dal color bianco abbacinante. Non era un miracolo della natura, ma più prosaicamente la mano dell’uomo: solfato di calcio, ricco di isotopi radioattivi. Questa la sconcertante eppur banale risposta al luccicante candore delle coste di Gela. Oggi la Sicilia paga le colpe di un modello industriale che ha dissipato buona parte del suo patrimonio naturale. Un mix esplosivo cui vanno sommate le modificazioni climatiche e la «rivoluzione» antropica del territorio, con l’abbandono dell’agricoltura e delle aree rurali e una sempre maggiore concentrazione nelle aree urbane. Tutto questo senza mettere ancora nel conto la pressione migratoria che già si avverte sulle sponde sud della Sicilia. Entro il 2020, circa sessanta milioni di persone abbandoneranno le zone desertificate dell’Africa subsahariana per dirigersi verso l’Africa settentrionale e l’Europa. Negli anni futuri un grande movimento migratorio costante potrebbe prodursi dalle regioni del Sahel. L’onda umana si dirige verso le città costiere. Un flusso di migranti che rischia di essere amplificato dal fatto che 29 dei 36 paesi più poveri del mondo sono localizzati in questa fascia di terra, e con i due terzi della popolazione che vive in condizioni di assoluta povertà: facile preconizzare un esodo di massa. Per molti di loro, la ricerca di un futuro migliore passerà proprio dalla Sicilia. Al centro del Mediterraneo, la regione corre il rischio di essere inglobata nel processo di desertificazione che mostra già i primi segni nelle aree del Nordafrica.
CLICCA QUI PER LEGGERE L'ARTICOLO INTERO DELLA RIVISTA "LIMES" SULL'ARGOMENTO

Tv isterica, genera ansia e depressione

Tv isterica, genera ansia e depressione
dal "Corriere della Sera"
Ansia, depressione, insonnia e persino attacchi di panico. Questo genera la tv, secondo uno studio promosso da Meta Comunicazione e realizzato da un pool di 60 psicologi e psicoterapeuti. Le trasmissioni caratterizzate da continuo allarmismo (58%), toni che rasentano l'isteria (51%), continue polemiche (46%) alla lunga rischiano di causare delle vere e proprie patologie, come quelle sopra elencate. In media, persino in un talk show, ogni 6 minuti vengono utilizzati toni e termini che alzano il livello di ansia e aggressività, oltre al fatto che gli stessi temi trattati affrontano ciò che di più inquietante avviene quotidianamente. Lo studio ha analizzato, per quattro settimane, i contenuti, i toni e il lessico utilizzato nelle diverse tipologie di trasmissioni, per individuare il livello di ansia generato dalle stesse. Da intrattenimento e svago, secondo il 73% degli esperti intervistati, la tv è diventata un collettore di stress (63%), ansia (55%) e aggressività (49%). E ad essere sotto accusa non sono solo le trasmissioni legate all'attualità e alla cronaca, come talk show e tg, ma anche contenitori che sulla carta dovrebbero essere di puro intrattenimento, dove, secondo gli esperti (47%), il carico d'ansia è ancora maggiore, perché lo spettatore ha meno difese. Sotto accusa l'allarmismo (58%), ormai utilizzato in ogni tipo di trasmissione, dalle news ai contenitori di costume. Anche i servizi più normali vengono annunciati come se si trattasse di una gravissima notizia. Per il 51% i toni isterici che ormai dominano nel piccolo schermo rappresentano una delle maggiori cause dell'ansia di chi resta troppo tempo davanti alla tv. Una situazione che non viene certo aiutata dalle continue polemiche (46%). Nella classifica del grado di ansia catodica proprio i talk show sono al primo posto, come sottolinea il 58% degli esperti e conferma l'analisi dei programmi andati in onda nelle ultime 4 settimane. Subito dietro i tg (52%) in cui, in media si raggiungono alti livelli di stress ogni 12 minuti. Lo stesso vale per le trasmissioni sportive, dove l'ansia sembra la costante per cercare di fidelizzare gli spettatori (45%, i picchi di ansia catodica che hanno una frequenza media di uno ogni 15 minuti). Seguono le trasmissioni di servizio, dove si vogliono tutelare i consumatori o dirimere controversie (41%, uno ogni 20 minuti). Ma sotto accusa sono anche le trasmissioni di costume e di puro intrattenimento come i contenitori pomeridiani (38%, dove i toni fanno impennare il livello d'ansia in media ogni 21 minuti). Seguono i reality (36%), che seguono lo stesso principio delle trasmissioni sportive e dove il livello d'ansia sale in media ogni 24 minuti.
Corriere della Sera 29/10/2007

Rischi psichiatrici da antinfluenzali

Rischi psichiatrici da antinfluenzali
fonte Sanità News
Gli esperti della Food and Drug Administration (Fda) raccomandano di inserire nei foglietti illustrativi degli antivirali Tamiflu* (oseltamivir, Roche) e Relenza* (zanamivir, GlaxoSmithKline-GSK) nuove avvertenze sui possibili rischi psichiatrici evidenziati tra i pazienti in terapia. Gli specialisti basano le proprie conclusioni sulla revisione di circa 600 casi di eventi neuropsichiatrici registrati fra i pazienti in cura con Tamiflu* e di 115 casi segnalati tra quelli che assumevano Relenza*. Due farmaci (il primo a formulazione orale, il secondo inalatorio) ritenuti promettenti anche contro il virus aviario H5N1, e il cui profilo di sicurezza viene da sempre difeso dalle industrie produttrici. In particolare, gli esperti Fda consigliano di aggiungere all’avvertenza gia’ inserita nel foglietto del Tamiflu* - relativa alla necessita’ di “monitorare con attenzione eventuali comportamenti anomali o autolesivi” fra i pazienti in terapia – anche la precisazione che “in certi casi, questi comportamenti sfociano in seri danni, inclusa la morte, nei pazienti pediatrici e adulti”. Quanto a Relenza*, nel cui foglietto illustrativo non compare finora alcuna indicazione di possibili rischi psichiatrici, l’avvertenza proposta riguarda la segnalazione di “casi di allucinazione, delirio e comportamenti anomali” fra i pazienti in trattamento. Le segnalazioni di eventi di questo genere in pazienti che assumono Tamiflu* “sono in continuo aumento”, sottolineano gli specialisti. Sui rischi del Relenza*, invece, gli esperti non sanno ancora dire con sicurezza se gli eventi riportati siano realmente da legare al farmaco, alla malattia o a entrambi.
titolo: Rischi psichiatrici da antinfluenzali
fonte: Sanità News ( sanitanews.it )
pubblicato il 27/11/2007

lunedì 26 novembre 2007

A chi servono i biocarburanti?

A chi servono i biocarburanti?
di Jutta Kill - 30/03/2007

da megachip

I biocombustibili sono la moda del mese per costruttori di automobili e politici che vogliono farsi vedere ambientalisti senza affrontare direttamente il problema delle emissioni da trasporti in costante ascesa. Le bio-chiacchiere hanno preso molto piede nell'Unione Europea. Il 10 gennaio, la Commissione ha presentato il nuovo piano sull'energia e i biocarburanti. E sono brutte notizie per tutti.

Il documento propone che il 10% dei bisogni di carburante per i trasporti (aviazione esclusa) in tutta l'Ue debba essere coperto da quelli biologici entro il 2020. L'origine sarà una serie di varie colture, come colza, mais, barbabietola, olio di palma, canna da zucchero e soia.
Alcuni sono coltivati all'interno dell'Unione, ma si tratta di una capacità limitata: quindi quanto più crescerà la domanda europea per questi carburanti “verdi”, tanto più aumenterà la quota da coltivare nel sud del mondo. E dato che la Commissione ha fissato come obiettivo una quota dell'uso complessivo di carburanti nei trasporti, l'aumento dei consumi significherà un ulteriore incremento di questo volume.
Essendo i carburanti per i trasporti la fonte di emissioni in più rapida crescita nell'Ue, la domanda di importazione per quelli biologici dal sud del mondo sarà molto forte. Ciò preoccupa in modo particolare, perché esistono segnali del fatto che l'attuale domanda di biocarburanti in Ue stia già spingendo alla deforestazione e alla distruzione di ricchezza dei sistemi di biodiversità in tutto il mondo, dal Sud America al sud-est asiatico.

In Camerun, ad esempio, la principale coltura di palma da olio, Socapalm, si sta espandendo a spese delle foreste tradizionalmente utilizzate dalle popolazioni locali.
Questa espansione sta alla radice di conflitti sulle terre che coinvolgono le popolazioni Bagyeli, Bulu e Fang, i cui territori sono stati confiscati senza alcun indennizzo. I posti di lavoro creati dalle piantagioni – raramente si impiegano le popolazioni locali – sono spesso temporanei, senza contratti regolari o assicurazioni sugli incidenti, le paghe estremamente basse: un bracciante guadagna poco meno di un euro per una giornata lavorativa di 12 ore.
I prodotti chimici usati in agricoltura e il dilavaggio dalle raffinerie inquinano i corsi d'acqua vicini, peggiorando ulteriormente i mezzi di sostentamento delle popolazioni.
Se non bastasse, esistono prove che alcuni biocarburanti aumentino, anziché ridurre, le emissioni di gas serra, all'interno del sistema di produzione e trasformazione. Un recente studio di impatto ambientale sulle colture di palma da olio nel sud-est asiatico condotto dal gruppo ambientalista Wetlands International mostra come il loro uso in Europa genererà complessivamente il 10% in più di anidride carbonica dell'equivalente di combustibili fossili.

Il rapporto della Commissione parla di questi rischi sono superficialmente, soffermandosi invece sui vantaggi dei biocombustibili come occasione per le economie dei paesi del sud del mondo. Non riconosce il fatto che i profitti di questo mercato delle esportazioni andranno a vantaggio di pochi nel sud, mentre molti si troveranno a perdere le terre delle colture tradizionali a favore delle piantagioni di monocolture, con l'aumento dei prezzi degli alimenti di base.
Dato che gli obiettivi biofuel dell'Unione Europea promuovono la produzione di biomasse nel sud del mondo, l'Unione sarebbe responsabile della riduzione delle superfici destinate alla produzione alimentare, diminuendo così la sicurezza alimentare locale e mondiale. Negli Usa, gli obiettivi dei biocombustibili sono stati criticati perché richiedono una quota eccessiva della produzione di granturco (il 20% nel 2006). Questa domanda Usa ha già fatto aumentare il deficit mondiale di cereali, e crescere i prezzi di alimenti base come la tortilla in Messico.
La proposta della Commissione Europea, tace anche su un'altra questione chiave: gli interessi del settore biotech nella produzione di carburanti di origine biologica.

Le versioni geneticamente modificate di molte colture ora utilizzate a scopi energetici (come mais, soia e colza) hanno incontrato parecchia resistenza per quanto riguarda il loro uso alimentare, specialmente in Europa. Questo settore industriale, spera che promuovendole per i biocarburanti, si possa farle accettare.
La vera questione che la strategia energetica dell'Europa dovrebbe affrontare sono i volumi crescenti dei trasporti. Sono essenziali gli investimenti in un ben concepito ed economico sistema di trasporti pubblici, ma il rapporto Ue non ne parla. Il documento non lascia dubbi sul fatto che l'obiettivo principale per aumentare l'uso di biocarburanti per i trasporti non sia il cambiamento climatico, o ridurre l'impronta ambientale, ma piuttosto la “sicurezza energetica”.
Questo spiega la mancanza di attenzione a interventi all'interno del settore trasporti che potrebbero portare vantaggi sul fronte del cambiamento climatico. Limiti di velocità e un migliore rapporto peso-potenza nelle nuove auto e camion potrebbero far risparmiare, e l'adozione di pneumatici che promuovono un basso consumo, e motori più piccoli nei veicoli passeggeri, potrebbero far risparmiare ancora di più. Tutto questo, anche senza entrare nei risparmi di carburante dalla sostituzione dei sistemi individuali con intelligenti piani di trasporto pubblico.

La Commissione liquida tutte queste possibilità come marginali, cose che non vale la pena di sviluppare. Preferisce importare rischiosamente biocarburanti, che probabilmente indeboliranno le politiche sul clima e quelle ambientali, all'adeguamento del sistema di trasporti europeo. Nessuna meraviglia, che oltre 60 organizzazioni del settore ambiente e giustizia stiano chiedendo di bloccare i nuovi obiettivi europei sui biocarburanti.


Nota: il testo originale inglese anche sul mio sito Mall, sezione Environment ; su Megachip un tema parallelo è quello affrontato da James Howard Kunstler nei suoi Scenari di sviluppo post-petrolifero (f.b.)

di Jutta Kill da Red Pepper - scelto e tradotto per Megachip da Fabrizio Bottini

Anfetamine ai bambini... Stupefacente, vero?

Anfetamine ai bambini... Stupefacente, vero?
di Davis Fiore
05/02/2007

dal sito: ecplanet.net


Il Ritalin sta per arrivare nelle farmacie italiane e molti genitori si stanno già preoccupando. Il principio attivo, infatti, il metilfenidato, è un'anfetamina e nell'aprile del 2006 è stato inserito dal Ministero della Salute e della Giustizia nelle tabelle 1 e 2 delle sostanze stupefacenti, assieme alla cocaina, la mescalina, il metadone, la morfina, l'oppio e l'eroina.

Come si può dare una sostanza stimolante, dagli effetti simili a quelli delle droghe pesanti, a un bambino ?

In base alle norme vigenti (legge Fini-Giovanardi) possedere più di 180 mg. di Metilfenidato è reato punibile con la reclusione e sanzioni pesanti. Vogliamo ripetere quello che sta accadendo in molte scuole americane, dove le pastiglie sono frantumate dai ragazzi e aspirate col naso ?

Sembra di sì, dato che il “farmaco” è appena stato registrato presso l'AIFA, l'Agenzia Italiana del Farmaco, che però si pronuncerà in via definitiva soltanto alla fine di febbraio. Intanto aspettiamo. Ignari di quello che sta per accadere, verso una campagna farmacologica che si preannuncia di dimensioni enormi.

Si tratta di un pubblico potenziale di 800 mila bambini ! Sono i cosìdetti bambini iperattivi (ADHD), quelli un po' più vivaci, per intenderci (di certo non malati).

Ma è già tutto pronto, ed hanno pensato proprio a tutto !

Persino a un registro nazionale, dove saranno inseriti tutti i dati dei bambini sotto trattamento. In ogni momento si potrà sapere chi e quanti sono in “cura”. Una vera e propria schedatura !

Per non parlare degli effetti collaterali dello psicofarmaco.

Per citarne alcuni:

tachicardia, ipertensione, perdita dell'appetito, visione confusa, midriasi, nausea, vomito, dolore addominale, contrazioni muscolari, insonnia, confusione, cefalea, nervosismo, euforia, aumento della frequenza respiratoria etc. etc.

Secondo uno studio dell'Università del Texas del 2005 si aggiungerebbe un rischio di cancerosità; sono inoltre noti i casi di morte improvvisa. Come tutte le droghe, infine, il Ritalin provoca assuefazione e dipendenza.

Chi salva i semi è un fuorilegge?

Chi salva i semi è un fuorilegge?
di Marinella Correggia
13/01/2007

dal quotidiano "Il Manifesto"


Quando due aderenti all'associazione francese di «salvatori di semi» chiamata Kokopelli si fanno un dono - brevi manu o anche per posta nazionale e internazionale - si tratta molto probabilmente di un bel pacchetto di semi. Insalate guasconi, pomodori «zebra nera», carote di Guérand, zucche cremose ed enormi degne di Cenerentola. Sono varietà antiche, talvolta a rischio di scomparire per sempre nella massificazione delle poche tipologie imposte dalle multinazionali sementiere che commercializzano ibridi e Ogm.
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La missione di Kokopelli (www.kokopelli.asso.fr), dall'anno di nascita nel 1999, è proprio «difendere, conservare e moltiplicare» le varietà antiche, ereditate da 10.000 anni di selezione contadina, un vero patrimonio dell'umanità; varietà che sono anche più gustose, più nutrienti, più resistenti alle alee climatiche e alle patologie. I soci sono 5.500, fra di loro comuni, orticoltori, botanici. Tutti possono collaborare a quest'impresa. Ad esempio diventando madrina o padrino di una o più varietà: si comprano per posta a modico prezzo, si seminano nel proprio orto (che così diventa un'oasi Kokopelli), si fa il raccolto di ortaggi e poi i semi tornano, moltiplicati, nel circuito. Il catalogo dell'associazione conta già, ad esempio, 550 tipi di pomodori, 300 fra peperoni e peperoncini, 130 di lattughe, 150 di zucche, 50 di melanzane; un trionfo di colori e sapori. La vendita dei semi serve a finanziare la distribuzione gratuita a comunità rurali in Asia, Africa e America Latina di varietà là adattabili (in fondo, pomodori, patate e mais non sono autoctoni in Europa eppure vi si sono adattati benissimo).
I «kokopellisti» si definiscono liberatori di semi e protettori della biodiversità. E' un'urgente necessità planetaria, di fronte a quella che la Fao (Organizzazione dell'Onu per l'alimentazione e l'agricoltura) chiama «erosione del materiale genetico disponibile per le generazioni presenti e future», e «grave minaccia per la sicurezza alimentare mondiale nel lungo periodo». Lo riconosce anche la direttiva Cee 98/95, che permette la creazione di una lista di conservazione di semi contro l'erosione genetica. Eppure la benemerita Kokopelli, che meriterebbe finanziamenti pubblici, è considerata fuorilegge dallo stato francese. Il 22 dicembre scorso la Corte d'Appello di Nîmes ha condannato il presidente Dominique Guillet a pagare decine di migliaia di euro di multa per il reato di «commercializzazione di semi non conformi». In ottobre, un ricorso di quelli che un comunicato di Kokopelli chiama «i rapitori di semi», cioè i rappresentanti delle industrie sementiere, era stato respinto dall'Avvocato generale; e nel mese di marzo il Tribunale di Alès aveva assolto Guillet dall'accusa di «vendita di sementi non iscritte negli elenchi autorizzati».
Il processo a Kokopelli non passa inosservato in Francia. Il quotidiano Le monde di ieri, che ha dedicato molto spazio alla vicenda, spiega in sintesi che «non ci si improvvisa venditori di sementi. La professione è molto sorvegliata». Il finocchio Mantovano o il fagiolo Christmas avrebbero dovuto passare dei testi di omogeneità e stabilità, per poi essere iscritti su un catalogo ufficiale, in Francia gestito dallo Gnis (Groupement national interprofessionnel des semences, graines et plantes), che insieme alla Federazionale nazionale dei produttori di semi (Fnpsp) si sono costituiti parte civile (sic) nel processo. Secondo loro, Kokopelli esercita una «concorrenza sleale». Ma i salvatori di semi rispondono: «Far registrare una varietà costerebbe 1.500 euro. Non possiamo pagare simili cifre, le varietà da recuperare e proteggere sono migliaia», ha spiegato l'agricoltore Raoul Jacquin-Porretaz che per l'associazione segue proprio gli aspetti giuridici; «Le sementi sono diventate una merce, e i cataloghi servono a mantenere i contadini in uno stato di sudditanza feudale».
I condannati ricorreranno in Cassazione e intendono trascinare lo stato francese di fronte alla Corte europea di giustizia dell'Aja.
Intanto sempre dalla Francia arriva una buona notizia. E' stato «sdoganato» il macerato d'ortica, di cui terra terra si è occupata il 14 settembre 2006. Il 1 luglio era entrato in vigore un decreto che impediva non solo di vendere ma perfino di divulgare ricette per la preparazione di prodotti naturali se non omologati; fra questi, il secolare macerato, un concime e un antiparassitario totalmente naturale. Per fortuna i parlamentari francesi hanno adottato all'unanimità un emendamento alla legge sulle acque e sull'ambiente acquatico (varata il 20 dicembre) che autorizza l'uso di «preparati naturali» senza previa autorizzazione.

L'acqua in Italia

L'acqua in Italia
di Giancarlo Terzano

16/12/2005

dal sito fareverde.it


Il mondo ha sete. Ogni anno, per mancanza di acqua potabile (cioè per vera e propria sete) muoiono 6.000 bambini. Ed altrettanti, ma questa volta al giorno, sono coloro che muoiono per malattie legate all’uso di acqua non potabile. Oltre 2 milioni di morti all’anno, più varie centinaia di milioni di malati (si calcola che l’80% delle malattie dei paesi in via di sviluppo dipenda dall’uso di acqua contaminata e dalle precarie cure sanitarie): cifre enormi, che rischiano di aumentare. Nel 2025, infatti, a fronte di una domanda di acqua potabile che si prevede sarà aumentata del 70%, saranno 3 miliardi gli esclusi.

Gli allarmi sull’emergenza idrica sono stati al centro degli incontri organizzati il 22 marzo, scorso, II Giornata Mondiale dell’Acqua, dove concorde è stata la tesi che l’acqua, l’”oro blu” del terzo millennio, costituirà uno dei temi principali da discutere alla prossima conferenza sullo stato della Terra di “Rio+10”, che si terrà a Johannesburg a fine agosto. Il problema è mondiale, ma riguarda, ovviamente, soprattutto alcune aree del pianeta, geograficamente penalizzate (non trascuriamo, però, il progressivo processo di desertificazione, con l’aumento delle aree aride). Secondo l‘UNEP, il Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite, gia oggi 1/3 della popolazione mondiale vive in condizioni di stress o crisi idrica (si parla di “stress idrico” quando la disponibilità di acqua complessiva, per ogni uso, in un Paese, è contenuta tra i 1.000 e i 1.700 m3 pro capite annui; al di sotto dei 1.000 m3, si ha “crisi idrica”). I problemi più acuti sono in Africa ed Asia Occidentale, ma la crescita demografica ed industriale ha portato ad un peggioramento della situazione idrica anche in molte altre zone, come ad esempio la Cina, l’India o l’Indonesia.

L’Italia, con i suoi 3.052 m3 teorici di acqua pro capite, non dovrebbe certo soffrire di crisi idrica. Eppure, anche nella nostra penisola, la situazione presenta un quadro preoccupante.

Nonostante la ricca potenzialità, una parte rilevante della popolazione nazionale (localizzata essenzialmente al Sud) non ha un accesso regolare all’acqua potabile. La colpa, più che alla siccità, ai mutamenti climatici e al progressivo inaridimento di alcune aree meridionali ed insulari (il che pure fa la sua parte), è essenzialmente dovuta a carenze strutturali e gestionali del sistema acqua nazionale: un carrozzone dalle infrastrutture arretrate, una torre di Babele di competenze, una quantità di sprechi inconcepibile, un intreccio di affarismi e interessi particolari. Insomma, un sistema che (è il caso di dirlo!) fa acqua da tutte le parti.



LE DISPONIBILITA’ DELLA RISORSA ACQUA

L’Italia è potenzialmente molto ricca di acque. Con i suoi 175.012 milioni di m3 annui, è in testa al gruppo dei paesi UE, seconda solo alla Francia, come quantità di risorse teoricamente disponibili. Calcolando l’afflusso delle piogge, il deflusso superficiale e l’accumulo nella falde sotterranee, ogni italiano potrebbe contare su 3.052 m3 annui di acqua, una quantità al di sotto delle media europea (4.035 m3) ma ben al di sopra di ogni soglia di stress idrico. Se dalla disponibilità teorica passiamo a quella effettiva (calcolata escludendo le perdite naturali e considerando le possibilità di captazione), abbiamo 56.012 milioni di m3, una quantità assoluta di tutto rispetto (si pensi che il deflusso medio annuo del Po è di 47.000 di m3), seconda in Europa soltanto a quella della Germania, e che pone gli italiani al primo posto nell’UE come disponibilità pro-capite, con 980,3 m3 annui a persona contro una media UE di 612 m3 (dati EUROSTAT, vedi tabella 1).

Tale disponibilità non è, tuttavia, omogenea nel territorio nazionale. Un’occhiata alle stime elaborate dalla CNA (Conferenza Nazionale dell’Acqua) nelle due ultime campagne di studio del 1971 e 1989, dimostra nette differenze tra i vari compartimenti idrografici, con ampie disponibilità al Nord Italia e percentuali più ridotte nel resto del territorio nazionale (tabella 2). Dei 296 miliardi di m3 annui di piogge cadute (stima effettuata in base ai dati pluviometrici del trentennio 1921-1950), ridotti a 164 miliardi potenziali a causa dei fenomeni naturali di evaporazione e evapotraspirazione, e ulteriormente ridotti a seguito delle perdite e delle difficoltà di captazione a 52 miliardi di risorse effettivamente utilizzabili (i dati, come appare, sono sensibilmente diversi dalle stime EUROSTAT), il Nord Italia può contare su quasi 34 miliardi (pari al 65% delle risorse disponibili), ben al di sopra degli altri compartimenti del Centro Italia (15%), del Sud (12%) e delle isole (8% complessivo). Si tratta, inoltre, di acque in gran parte di superficie (al Sud e nelle isole soprattutto laghi artificiali), ma rilevante è la quantità di acque sotterranee (circa 11 miliardi di m3, superiore alle media UE).

E’ evidente che i mutamenti climatici in corso incideranno ancora di più sulla disponibilità della risorsa acqua. Le previsioni, com’è noto, parlano di un aggravarsi della siccità e della progressiva “desertificazione” di alcune aree dell’Italia insulare e meridionale, cui si contrapporrebbe una “tropicalizzazione” delle aree centro-settentrionali, con aumento della piovosità dovuta soprattutto a violenti e potenti rovesci. Se gli effetti della desertificazione del Sud sulla disponibilità di acque sono facilmente immaginabili, non illudiamoci neanche sugli effetti dell’aumento della piovosità nelle altre regioni: vista anche la particolare conformazione del territorio nazionale (ricco di pendii), aggravata dalla cementificazione del letto dei fiumi e dalla riduzione delle aree boschive, piogge più violente non comporteranno un maggiore assorbimento dell’acqua caduta ma semmai un più rapido deflusso verso il mare.



I PRELIEVI E GLI USI

La disponibilità disomogenea comporta anche situazioni critiche nei prelievi, che già in Italia sono maggiori alla media dell’Unione Europea (e la tendenza è ad un continuo aumento). Il Nord Italia, presso cui si registrano i maggiori prelievi in termini assoluti, utilizza il 78% delle risorse disponibili. Più sostenibile è l’utilizzo nelle regioni centrali, dove i prelievi sono pari al 52% della disponibilità locale; del tutto critica è la situazione al Meridione, dove i prelievi sono pari al 96% delle disponibilità locali.

Tra i settori d’impiego, la parte dominante è svolta dall’agricoltura, seguono l’industria, gli usi civili, l’energia (essenzialmente al Nord) e, più limitatamente, il turismo.

L’agricoltura è decisamente il settore più idroesigente. A livello nazionale, oltre il 50% delle risorse sono, infatti, destinate ad usi irrigui, soprattutto nel Sud e nelle Isole (meno “assetati” sono invece i campi dell’Italia centrale, che richiedono il 40% dell’acqua prelevata in zona). Il sistema, tuttavia, appare tutt’altro che impeccabile, ed anzi la produttività dell’acqua nell’agricoltura italiana è tra le più basse dell’Unione Europea. L’irrigazione, inoltre, spesso attinge alle falde sotterranee, al cui inquinamento – come vedremo - a sua volta contribuisce con i concimi ed i pesticidi. Del resto, a dover essere denunciata, è proprio la “logica industriale” che sottende ormai all’agricoltura, e che porta ad un utilizzo irresponsabile e non rinnovabile degli elementi naturali, suolo ed acque innanzitutto.

Il prelievo per usi industriali è sul livello del 20-30% rispetto al totale. E’ concentrato soprattutto nelle regioni del Nord Italia (come anche l’utilizzo per l’energia delle acque).

Circa il 10-20% dei prelievi è destinato agli usi civici. L’OMS (l’Organizzazione Mondiale della Sanità) ha stabilito in 50 litri al giorno (15 m3 annui) pro-capite il fabbisogno essenziale di acqua per usi domestici. Gli italiani, con 278 litri di acqua al giorno, sono ben al di sopra di tale soglia ed anzi sono in testa anche rispetto alle altre nazioni europee (vedi tabella 3, i cui ultimi dati sono, però, aggiornati al 1995). La tabella 4 riporta i consumi (in metri cubi annui a persona) nelle principali città italiane. Le differenze sono sensibili: si passa dagli oltre 100 m3 di Torino ai 51,6 m3 di Campobasso e ai 45,6 m3 di Firenze. Le differenze, avverte l’ISTAT, sono dovute alle diverse condizioni del servizio idrico e alle abitudini di consumo nelle singole città. Si noti che di tali quantità soltanto il 2-3% viene consumato propriamente per bere o per l’alimentazione, mentre il resto è assorbito dallo sciacquone (30%), da lavastoviglie e lavatrici (30%), dal bagno, o doccia, e dagli altri usi, lavaggio dell’auto compresa. Irrinunciabile, quindi, appare la creazione di una rete duale, che consenta di riservare l’acqua potabile agli usi più delicati, mentre per scarichi e usi-extradomestici si potrebbe utilizzare acqua non trattata.

L’acqua per usi domestici, infine, proviene in gran parte dalle falde sotterranee (l’85% del totale), in genere meno inquinate di quelle superficiali e che quindi richiedono minori trattamenti; al Sud e nelle Isole, rilevanti sono anche gli invasi artificiali, da cui si ricava acqua potabile nella misura del 15-25%. Pressoché assenti, invece, i processi di dissalazione dell’acqua marina, che invece forniscono acqua ad altri paesi del Mediterraneo, come Spagna, Malta o Cipro.



GLI SPRECHI E LE CARENZE

Non tutta l’acqua prelevata, tuttavia, finisce per essere concretamente utilizzabile. La “Relazione sullo stato dell’Ambiente 2001”, a cura del Ministero dell’Ambiente, quantifica all’incirca nel 27% del totale l’acqua che si perde tra il prelievo e l’effettiva erogazione. Il dato è più o meno omogeneo per tutto il territorio nazionale (si passa dal 23% del Nord al 30% del Sud e delle Isole) e pone, purtroppo, anche stavolta l’Italia nelle posizioni di vertice nella classifica degli spreconi d’acqua tra i Paesi europei.

La causa di questi sprechi è, innegabilmente, strutturale. La rete idrica italiana necessiterebbe di adeguamenti e dell’investimento di ingenti risorse economiche volte a migliorare il sistema di adduzione e distribuzione, gli impianti di depurazione e le reti fognarie (le cui carenze contribuiscono all’inquinamento delle acque superficiali e sotterranee), la formazione del personale addetto. La cd. Legge Galli (L. 36/94), che regolamenta il sistema idrico italiano, prevede del resto che il risparmio della risorsa acqua avvenga a partire proprio dal “risanamento e graduale ripristino delle reti esistenti che evidenziano rilevanti perdite”. Solo per il Sud, la spesa dovrebbe aggirarsi sui 100 mila miliardi di lire (la stima è del Comitato per la Vigilanza sull’Uso delle Risorse Idriche, ed è stata ripresa nel “Piano acqua per il Sud” dal Governo). Ma si tratta di una pia speranza. Anzi, finora, nonostante il progressivo invecchiamento delle infrastrutture idriche, gli investimenti sono diminuiti. Accentuando la già generale contrazione delle spese per opere pubbliche, gli investimenti in opere idriche dal 1985 al 1998 si sono ridotti di oltre 2/3.

Non sorprenderà, quindi, che lo spreco di acqua è aumentato, arrivando, come detto, all’attuale 27%, contro il 17%, ad esempio, registrato nel 1975. Particolarmente eloquente è la figura 1, dove vengono raffrontate le quantità di acque addotte, immesse in rete, erogate all’utenza e, per contro, disperse, nel 1975 e nel 1987: in sostanza, dopo 12 anni di invecchiamento del sistema, la maggiore quantità di acqua addotta ed immessa in rete nel 1987 è finita soprattutto dispersa.

L’inadeguatezza del sistema idrico (ma anche la disomogeneità della disponibilità delle risorse) fa sì che, paradossalmente, nonostante la grande disponibilità di acque immesse in rete, in molte zone della penisola l’acqua potabile resti un bene raro, centellinato a giorni o ad ore. Il problema riguarda soprattutto l’Italia meridionale ed insulare. Nel 2000, il 24,3% delle famiglie del meridione ed il 37,1% di quelle insulari hanno lamentato significative interruzioni nella fornitura d’acqua, contro una media nazionale del 15% (tabella 5, dati ISTAT). Ad essere più colpite sono la Sicilia (33,7%), la Sardegna (47,3%), la Calabria (47,9%), regioni per cui si manifestano scenari da emergenza di protezione civile (in Sicilia, nel 2001, è stato nominato un Commissario Straordinario dell’emergenza idrica). Colpisce la presenza di forti carenze anche in regioni piccole e ricche di risorse, quali il Molise (18,1%) e la Basilicata (28%): il problema è dato, oltre che dall’alta percentuale di perdite, anche dalla cessione delle acque locali ad altre regioni (soprattutto Puglia) su cui è sorto un acceso contenzioso politico-economico.



ACQUE MINERALI

Un discorso a parte meritano i consumi di acque minerali.

Gli italiani hanno il duplice primato di essere il popolo che, in Europa, consuma più acqua per usi domestici, ma anche di quello che ne beve di meno. La nostra, ovviamente, non è minor sete; semplicemente, ci abbeveriamo con acqua minerale. E infatti siamo in testa ai paesi europei come i maggiori consumatori di acque minerali, con 140 litri a testa, prima di belgi (124 litri) e tedeschi (99 litri); ultimi gli olandesi, con 17 litri pro-capite (la stima è del quotidiano tedesco Die Zeit, per il nostro periodico Altroconsumo, invece, i litri consumati dagli italiani sarebbero stati 155 a testa).

L’alto consumo di acque minerali è dovuto, innegabilmente, a diversi fattori: ci sono, sicuramente, gusti personali e talvolta indicazioni mediche, ma essenzialmente c’è sfiducia nei confronti dell’acqua potabile di casa. Secondo l’ISTAT, nel 2000 il 44,7% delle famiglie italiane non aveva fiducia nell’acqua che esce dai rubinetti di casa; il dato, in leggero calo rispetto agli anni precedenti (nel 1998 e nel 1999 la percentuale di sfiducia era superiore al 46%) riguarda un po’ tutt’Italia, con la punta massima della Sardegna (79,6%) e, al contrario, la punta minima del Trentino Alto Adige, dove meno del 10% delle famiglie ha espresso sfavore verso l’acqua potabile (tabella 6, dati ISTAT).

Da bene voluttuario, così, l’acqua minerale è diventata elemento quotidiano del nostro bere: il 71% degli italiani ha un consumo rilevante di acque minerali, con oltre 1⁄2 litro giornaliero (in sostanza soddisfa la sua sete essenzialmente con tali acque). I consumi massimi si registrano nella fascia d’età tra i 24-35 anni, mentre gli anziani ne bevono meno (il che conferma come le motivazioni terapeutiche siano le meno rilevanti).

L’eccessivo ricorso alle acque minerali, se può soddisfare i produttori, costituisce comunque un pessimo segnale, sotto più punti di vista.

Innanzitutto, esso è frutto, come detto, di sfiducia verso la qualità dell’acqua potabile. Sotto accusa, aldilà delle vere e proprie emergenze inquinamento, è soprattutto il processo di potabilizzazione tramite clorazione. Per eliminare i batteri, e quindi il rischio di infezioni sanitarie, si ricorre essenzialmente al cloro, che però dà all’acqua un odore ed un sapore spesso sgradevoli. In alternativa al cloro, in alcuni comuni si sta già sperimentando un diverso processo di potabilizzazione tramite ozono e raggi ultravioletti, anche allo scopo di scongiurare la formazione di trialometani (THM), quei composti prodotti dalla clorazione di cui alcuni studi hanno sostenuto la tossicità.

Ciò che, però, viene facilmente dimenticato, grazie anche al solito martellamento pubblicitario, è che anche le acque minerali sono tutt’altro che più pure dell’acqua dei rubinetti. Anzi, a rigore, esse possono anche essere non potabili a norma di legge e contenere sostanze chimiche in limiti superiori a quelli ammessi per l’acqua degli acquedotti. A norma dei D.Lgs. 105/92 e del D.M. 542/92, che regolamentano il settore delle acque minerali naturali, queste sono più che altro acque terapeutiche, dotate di “caratteristiche igieniche particolari e proprietà favorevoli alla salute”. Per questo motivo, il legislatore è più elastico che nei confronti dell’acqua da rubinetto, ed ammette, ad es., presenze di arsenico fino a 200 µg/l, il quadruplo della concentrazione ammessa oggi per le acque da acquedotto, e addirittura 20 volte la concentrazione ammessa a partire dal 2003 (il D.Lgs. 31/2001 prevede infatti il limite di 10µg/l). Vanno inoltre considerati i più frequenti controlli cui sono sottoposte le acque potabili rispetto a quelle minerali (le cui analisi complete vengono effettuate a cadenze quinquennali), nonché la possibilità di alterazioni a seguito di stoccaggi non idonei (micidiale, ad es., è la prolungata esposizione al sole delle bottiglie in plastica). Infine, trattandosi di acque medicinali, andrebbero considerate le eventuali controindicazioni, con i rischi connessi al prolungato assorbimento di alcune sostanze e alla carenza di altre.

Altro aspetto negativo è, naturalmente, il costo. Le acque minerali pesano sul bilancio domestico dalle 300 alle 1000 volte in più delle acque da rubinetto. Una stima ISTAT riferita alle sole famiglie che effettivamente consumano acqua minerale, quantifica in £. 34.600 la spesa mensile. Oltre 400.000 lire all’anno per bere l’acqua, quando invece per i 4-5 litri giornalieri di acqua potabile che una famiglia normalmente consuma, basterebbero (pur nella selva tariffaria degli oltre 8000 gestori italiani) 4/6.000 lire annue. Ma i costi non finiscono qui: l’80% delle bottiglie è in PET, ed il vuoto a rendere, anche sul vetro, è del tutto marginale. Al costo dell’acqua, quindi, si aggiunge anche il costo, monetario ed ambientale, dello smaltimento del rifiuto bottiglia; costo che, com’è noto, nell’attuale sistema italiano degli imballaggi, fondato sull’irresponsabilità dei produttori e del consumatore diretto, grava su tutta la collettività.

Ulteriore aspetto negativo è la “privatizzazione” delle acque. Le acque minerali, come ogni altra acqua in Italia, sono di proprietà pubblica. Il loro sfruttamento da parte dei privati avviene su concessione da parte delle Regioni, che in cambio ottengono soltanto le briciole. La Lombardia, ad es., che rappresenta una delle regioni più ricche di fonti minerali, in cambio di 8 miliardi di litri estratti dalle sue fonti, incassa meno di 300 milioni di lire, mentre il relativo giro d’affari di “acque minerali lombarde” supera i 2 mila miliardi di lire. In sostanza, l’operazione di esproprio della collettività (che si vede privata, nei fatti, dell’accesso a fonti in precedenza libere) a favore dell’imbottigliatore avviene in cambio di una misera contropartita. A trarne i benefici economici, poi, sono soprattutto le multinazionali del settore. Il sistema delle acque minerali, infatti, è a forte concentrazione, e due soli soggetti (la Nestlé, proprietaria in Italia dei marchi San Pellegrino, Levissima e Panna, e la francese Danone, cui appartengono Ferrarelle e San Benedetto) rappresentano più del 30% dell’intero mercato mondiale, con consistenti quote, come s’è visto, anche in Italia.



LA QUALITA’ DELLE ACQUE

Non è possibile, ovviamente, definire in maniera unitaria la qualità delle acque nazionali. Il D.Lgs. 152/99, nel fissare gli obiettivi di qualità, differenzia 6 tipologie di “corpi idrici significativi” (corsi d’acqua superficiali, laghi, acque marino-costiere, acque di transizione, corpi idrici artificiali, acque sotterranee) e 4 tipologie di “acque a specifica destinazione” (acque destinate alla potabilizzazione, di balneazione, idonee alla vita dei pesci, idonee alla vita dei molluschi). Per le acque a specifica destinazione, la qualità, quindi, è data dalla possibilità di una precisa utilizzazione da parte dell’uomo, dei pesci o dei molluschi, mentre per i corpi idrici significativi, la qualità è data non solo dal rispetto di parametri prefissati ma anche dalla capacità dei corpi idrici stessi di “mantenere i processi naturali di autodepurazione e di supportare comunità animali e vegetali ampie e ben diversificate”.

Per le acque destinate alla potabilizzazione (superficiali o sotterranee), l’art. 7 del D.Lgs. 152/99 prevede da parte delle Regioni una classificazione in base alle caratteristiche fisiche, chimiche e microbiologiche. Sono state così individuate tre categorie: l’A1, per cui è sufficiente un trattamento fisico semplice e la disinfezione, l’A2, per cui si prevede un trattamento fisico e chimico normale più la disinfezione, l’A3, che necessita di trattamento fisico e chimico spinto con affinazione e disinfezione. Se l’acqua è al di fuori di queste tre categorie, essa non è utilizzabile per usi potabili, a meno che non ci siano alternative d’approvvigionamento, nel qual caso anche acque inferiori ai valori della categoria A3 possono essere potabilizzate, sempre dopo adeguato trattamento. Una statistica del Ministero della Salute per il 2000, relativa alle fonti di captazione per l’acqua potabile per i Comuni superiori ai 5.000 abitanti, dimostra l’appartenenza delle acque alle tre categorie (tabella 7). Il gruppo prevalente (52%) è dato dalla categoria A2, ed il ricorso ad acque di qualità inferiore all’A3 è limitato a due sole regioni, l’Emilia Romagna e soprattutto la Sardegna (regione per cui sono stati presentati ben 124 – oltre la metà del totale nazionale! - programmi d’azione volti al miglioramento della qualità dell’acqua). Per le acque potabili, il Ministero della Sanità ha censito nel 1998 ben 597 casi di inquinamento, dovuti soprattutto a fattori organici e batteriologici, ma anche nutrienti (azoto e fosfati, derivanti dalle attività agro-zootecniche) e chimici.

Per le altre acque ad uso specifico, la situazione è la seguente. Per le acque destinate alla balneazione (parliamo esclusivamente di acque dolci), l’82% dei laghi sono risultati favorevoli (quindi balenabili), mentre per i fiumi la percentuale positiva è più bassa, e si assesta sul 49,5% del totale campionato. Per le acque ritenute idonee alla vita di pesci e molluschi, la Relazione sullo stato dell’ambiente 2001 parla di una qualità rimasta sostanzialmente buona, e talvolta anche migliorata (anche se non mancano i casi di non conformità ai parametri).

Tra i cd. corpi idrici significativi, ci limitiamo ad uno sguardo ai corsi d’acqua e alla falde sotterranee. Per i fiumi, lo stato della qualità è di difficile definizione, a causa della parzialità dei dati disponibili e dei divergenti sistemi di monitoraggio. Pur nella diversità degli indici di valutazione, comunque, ed in una scala di valori che va da 1 a 5, può essere notato come pochi esami abbiano dato risultati nettamente positivi (rapportabili alla prima classe di qualità), mentre la maggior parte dei casi rientri nelle classi 2 e 3 (qualità buona o comunque sufficiente), con non sporadiche cadute nelle classi 4 (qualità scadente) e finanche 5 (qualità pessima, o fortemente inquinata). Tra attività industriali e agro-zootecniche, insediamenti urbani e captazioni per uso energetico (che riducendo la portata del fiume incidono anche sulla sua capacità di depurarsi), i nostri fiumi ce la devono proprio mettere tutta per autodepurarsi. Con risultati alterni: il Po, ad esempio, riesce a ripulirsi e a mantenere una qualità media (ben peggiore è la situazione di molti suoi affluenti); non ce la fa proprio, invece, il Tevere, le cui capacità di autodepurazione sono annullate dai troppo frequenti scarichi che incontra nel suo cammino.

Per le acque sotterranee, va evidenziato, in primo luogo, il ridottissimo livello di informazioni (nonostante esse ci forniscano l’85% dell’acqua destinata agli usi potabili); vanno, poi, evidenziati gli 851 eventi inquinanti verificatisi nel 1999, dovuti essenzialmente all’agricoltura (pesticidi, erbicidi, concimi chimici) e alla zootecnia (complessivamente 216 eventi) ma anche agli scarichi industriali (117) e fognari (107). In crescita, anche il preoccupante fenomeno delle intrusioni saline (soprattutto in Puglia, Emilia Romagna, Sicilia e Toscana).



LA GESTIONE

A gestire i quasi 50.000 impianti (tra acquedotti, reti di distribuzione e fognarie, depuratori) che costituiscono il sistema idrico italiano, per anni ci hanno pensato una miriade di soggetti, con un’elevatissima frammentazione gestionale. Oltre 8.100, secondo l’ISTAT, erano al 1 aprile 1999 i gestori, in massima parte Comuni (circa l’80%) e solo residualmente aziende municipalizzate e speciali, consorzi pubblici, società per azioni. Caratteristica uniforme di tali soggetti, inoltre, è il ridotto numero di impianti gestiti: considerando quale unico impianto le reti di distribuzione e quelle fognarie per ciascun Comune, emerge che quasi l’89% dei gestori si occupa di un numero di impianti inferiore a 10, ed appena il 2% raggiunge grandi dimensioni, con più di 30 impianti gestiti.

E’ parere unanime che tale estrema frammentazione abbia costituito uno dei punti dolenti del sistema idrico nazionale, ostacolandone l’ammodernamento strutturale e gestionale e condannandolo all’inefficienza.

Il legislatore (L. 36/94, cd. Galli), così, ha inteso porvi rimedio, attraverso un’azione di riordino volta all’integrazione sia funzionale (concernente le diverse fasi del ciclo, dalla captazione allo smaltimento) sia territoriale (relativa a bacini d’utenza minimi).

Il riordino del sistema idrico italiano avviene sulla base degli Ambiti Territoriali Ottimali (ATO), bacini di utenza di più ampie dimensioni territoriali e demografiche, da delimitare, secondo la legge Galli, nel “rispetto dell’unità del bacino idrografico o del sub-bacino o dei bacini idrografici contigui” (in realtà, lo sganciamento dalle unità amministrative locali non è avvenuto, e gli Ambiti individuati, piuttosto che rispettare i bacini idrografici, sono per lo più modellati sui territori provinciali o regionali).

Approvata nel gennaio 1994, la legge Galli non ha trovato, però, ancora completa attuazione. Nell’aprile scorso, il Comitato per la Vigilanza sull’uso delle Risorse Idriche (organismo di vigilanza disposto proprio dalla legge Galli) ha pubblicato il “Primo Rapporto sullo stato di avanzamento della L. 36/94”, dove sono evidenziati ritardi notevoli, soprattutto a livello periferico. Le Regioni hanno individuato complessivamente 89 ATO, con una drastica razionalizzazione, quindi, rispetto agli oltre 8.100 gestori (anche se – va osservato - non tutte le Regioni hanno disposto un unico gestore per Ambito). Tuttavia, di questi 89, solo 48 risultavano effettivamente insediati: una percentuale del 54%, che copre appena il 49% della popolazione ed il 44% degli 8102 Comuni italiani.

Sul piano operativo, poi, appena 25 degli 89 Ambiti avevano terminato la fase della ricognizione delle opere idriche (essenziale per il passaggio alla successiva fase della programmazione degli interventi), ed appena 12 avevano redatto (e 7 anche approvato) il Piano di Ambito, che deve fissare i livelli del servizio obiettivo. In sostanza, la nascita del Sistema Idrico Integrato (SII) avviene a passi lentissimi e, ad oggi, ancora non ha prodotto i suoi frutti nei confronti degli utenti.

La legge Galli ha dettato, inoltre, il superamento della cd. “gestione in economia”, quella cioè effettuata direttamente dai Comuni. Pur non cancellando bruscamente tale modalità (l’art. 10 prevede che le gestioni esistenti, anche se in economia, continuino a gestire i servizi finché non viene attuato il nuovo Sistema Idrico Integrato), la nuova normativa si adegua ai mutati indirizzi amministrativi (introdotti dalla L. 142/90) e si orienta su strumenti “privatistici” quali la concessione a terzi o l’affidamento diretto ad Aziende speciali e a Spa o Srl miste a capitale prevalente pubblico. Nei fatti, la maggior parte degli ATO non ha ancora definito le forme di affidamento, mentre chi lo ha definito (compresi i due unici ATO che hanno già completato l’affidamento) ha scelto quasi sempre la Spa a maggioranza pubblica.

La riforma si completa con l’obbligo del raggiungimento del pareggio economico finanziario della gestione, da ottenere attraverso una politica tariffaria che assicuri la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio. Sono comunque previste modulazioni nelle tariffe, per agevolare i consumi domestici essenziali e le fasce sociali a reddito minore.



BENE COMUNE O RISORSA LIMITATA?

La politica tariffaria ed il superamento della gestione diretta da parte dei Comuni hanno fatto parlare di rischio “privatizzazione” per le acque. Tale allarme è stato lanciato, in particolare, dal Comitato per il Contratto Mondiale sull’Acqua, un coordinamento di ong e associazione varie, che sostiene la natura di bene comune e patrimonio dell’intera umanità delle acque, e conseguentemente il diritto di tutti ad accedervi (il Comitato, in occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua, ha anche pubblicato“Il pozzo di Antonio”, un ampio dossier sul malessere del nostro sistema idrico).

In effetti, più che appartenere alla categoria dei beni mercificabili, l’acqua è innanzitutto un’esigenza vitale, come l’aria che respiriamo. Conseguentemente, un elementare senso di giustizia porta a ritenere che essa debba essere garantita a tutti e che vada respinta l’idea che il suo valore (e l’accesso ad essa) possano essere determinati dalle regole del mercato. Nel contempo, essa però è anche una risorsa naturale non illimitata, che va sottoposta ad un uso razionale, senza sprechi e nel rispetto anche delle generazioni future e di tutto l’ambiente.

La legge Galli cerca di conciliare le due esigenze, stabilendo, da un lato, che le acque devono essere utilizzate nel rispetto di “criteri di solidarietà” e, soprattutto, che “tutte le acque superficiali e sotterranee … sono pubbliche” (tali principi potrebbero addirittura trovare spazio nella Costituzione qualora fosse approvata una proposta di modifica dell’art. 2, finora sottoscritta da 50 parlamentari di tutte le forze politiche, volta ad introdurre il seguente comma “Tra i diritti inviolabili, la Repubblica riconosce l’acqua come bene comune pubblico e fonte di vita insostituibile. Ne tutela e garantisce l’accesso effettivo a tutti”); dall’altro, che qualsiasi uso delle acque avvenga salvaguardando “le aspettative ed i diritti delle generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale”.

Naturalmente, va attesa la piena applicazione della legge per vedere se essa manterrà le promesse. Intanto, due aspetti ci comunque sembrano rilevanti. Il primo è che non crediamo sbagliato il principio che l’acqua vada pagata. In una società opulenta e consumista come quella italiana, dove i nostri redditi vengono impiegati per mille beni voluttuari e spesso completamente inutili, il principio “politico” (prima ancora che economico) che un bene prezioso e da usare con parsimonia debba essere pagato ci appare più che fondato. Non si tratta di mercificare un bene essenziale, né di voler assoggettare al “Dio mercato” una risorsa vitale, bensì di spingere le persone, tramite lo strumento che realisticamente più comprendono (il loro portafoglio) ad un uso oculato della risorsa acqua. Introducendo tutti i rimedi sociali per evitare che le fasce più disagiate siano escluse dall’accesso al bene, ma anche utilizzando lo strumento tariffario (con una progressione per fasce di consumo, ed anche fissando limiti massimi al consumo stesso) per dissuadere dagli sprechi la stragrande maggioranza delle persone, spesso attente più alla lucentezza dell’automobile che allo sperpero della preziosa risorsa acqua.

Una tale finalità – ed ecco il secondo aspetto – è, per sua natura, opposta a quella perseguita da privati, i quali, pur dovendo gestire una risorsa secondo criteri economici, hanno comunque l’intento di massimizzare il profitto, e quindi di vendere il più possibile, anche se ciò può significare l’esaurimento delle scorte nel giro di pochi decenni. In tale senso, condividiamo le preoccupazioni per gli appetiti che l’acqua-business (e non solo quello delle minerali) sta suscitando in grandi gruppi economici, ed auspichiamo che il pubblico non rinunci alla sua gestione.



Qualche consiglio…

Quando si parla delle perdite nella nostra rete idrica, siamo presi, giustamente, da un moto di indignazione. Ma – Fare Verde intende sempre ricordarlo – non esistono soltanto le responsabilità pubbliche. Favoriti dal basso costo dell’acqua (le tariffe italiane sono tra le più basse d’Europa), anche noi, troppo spesso, dimentichiamo che l’acqua è una risorsa preziosa e non illimitata.

Di seguito riportiamo alcuni consigli per un uso più responsabile dell’acqua. Tracciato il solco, siamo sicuri che ognuno saprà aggiungere altre accortezze, vincendo con il suo buon senso le cattive abitudini e la pigrizia.



- evitate di lasciare inutilmente i rubinetti aperti. Per quanto banale possa apparire il richiamo, si tratta di uno dei comportamenti più diffusi, come dimostra anche una recente indagine, per cui il 73% dei giovani italiani tra i 14 ed i 21 anni lascia ordinariamente aperto il rubinetto dell’acqua anche quando non ne fa uso;

- applicate ai rubinetti un frangigetto, che riduce il consumo di acqua senza ridurne la potenza del getto;

- preferite la doccia al bagno: oltre che più veloce, la doccia fa consumare dai 30 ai 50 litri, contro 150-180 di un bagno (e chiudete il rubinetto quando vi insaponate); in proposito, anche un consiglio romantico: fate la doccia o il bagno insieme al vostro partner;

- riducete la portata dello sciacquone, che consuma almeno il 30% dell’acqua domestica; se non volete piegare l’asta del galleggiante (basterebbero 2-3 gradi), un metodo semplice ed efficace è quello di inserire nello scarico un corpo solido (un mattone, una bottiglia di plastica piena d’acqua) che ne ridurrà la capienza e quindi la caduta;

- fate controllare spesso gli impianti domestici da personale specializzato, e non sottovalute l perdite;

- usate lavatrici e lavastoviglie solo a pieno carico e inserite i programmi economizzatori dove possibile; per ogni ciclo completo di lavaggio si consumano dagli 80 ai 170 litri d’acqua;

- riciclate l’acqua della bollitura della pasta per lavare i piatti: essendo ricca di amidi, oltre a far risparmiare l’acqua, sgrasserà le stoviglie, facendo risparmiare anche il detersivo;

- innaffiate le piante al mattino o, meglio, al tramonto, usando acqua di pozzo o piovana, dove possibile; in casa, riciclate per le piante l’acqua usata per il lavaggio delle verdure;

- non sprecate l’acqua potabile per il lavaggio delle automobili: arriverà la pioggia!

Il ruolo dell'etica protestante nella genesi del capitalismo

Il ruolo dell'etica protestante nella genesi del capitalismo
di Alain de Benoist - 25/11/2007

Arianna Editrice sito: ariannaeditrice.it



Durante le lezioni tenute all’Università di Wittemberg in qualità di lettore di teologia a proposito delle epistole di San Paolo Apostolo ai Romani, Lutero introdusse il tema della “giustificazione per fede” in forza del quale l’esperienza religiosa divenne fatto individuale, privando la Chiesa del suo tradizionale ruolo di intermediazione tra la divinità e la comunità dei credenti. E’ possibile, a suo giudizio, ravvisare in questa presa di posizione il presupposto teologico di quell’individualismo che si è poi affermato quale tratto distintivo della Modernità?



Non penso che vi sia un legame diretto tra il tema della “giustificazione per fede” ed il venir meno di ogni forma d’intermediazione tra la comunità dei credenti ed il divino. Riprova ne sia che la Chiesa ha fatto propria la tesi di San Paolo, la quale gioca un ruolo essenziale nella sua dottrina della salvezza (si vedano a questo proposito Romani 1, 17; Galati, 3, 11 etc.). Il protestantesimo, al contrario, si è affrancato dal quadro istituzionale romano dal momento che si avvale della “giustificazione per mezzo delle opere”. Secondo un’ altra interpretazione, la maggior parte dei mistici ha cercato di stabilire un legame diretto con Dio (atteggiamento quest’ultimo guardato spesso con sospetto dalla Chiesa) senza per altro cadere nell’individualismo.

La genesi di quest’ultimo, che si è manifestato nella sua forma profana con l’avvento della Modernità, è in effetti più complessa. La teologia cristiana postula che ciascun uomo possiede un’anima che lo pone in uguale relazione con Dio. Ma è con l’avvento del Cristianesimo che fa la propria comparsa quella che Michel Foucault ha definito la “fonte del sé”. Tra il III ed il IV secolo l’individuo diventa un essere il cui valore è irriducibile a tutto ciò che non sia se stesso, dotato di una consapevolezza di se che lo induce a ritenersi svincolato da ogni condizionamento.

Certo, questo individuo appartiene ad una famiglia, ad una stirpe e ad un popolo, ma questi aspetti diventano del tutto secondari e contingenti, riconducibili ad un contesto puramente storico – sociale.

Sant’Agostino, dal canto suo, attribuisce un’importanza considerevole alla dimensione interiore: “Non cercare il significato della tua esistenza in ciò che è altro da te, concentrati su te stesso” (Noli foras ire, in te ipsum redi), egli scrive.

La conoscenza interiore, nella quale si esercita la coscienza riflessiva, diviene quindi un’esperienza di autorealizzazione contrapposta a quella sociale, uno spazio in cui l’uomo può scorgere Dio. La prova dell’esistenza di Dio si ottiene conducendo al limite estremo l’esperienza della nostra interiorità.

Con Descartes viene compiuto un passo ulteriore in questa direzione. Egli approfondisce l’interiorizzazione dei principi morali, spingendo l’uomo a distaccarsi dal mondo per poterlo meglio dominare. L’anima diventa quindi un principio organizzatore autonomo: affermando l’identità nell’interiorità, il soggettivismo cartesiano impone una concezione del soggetto come entità indipendente. Infine, il nominalismo, derivato dalla Scolastica spagnola, rifiuta gli “universali”, sostenendo che nelle faccende umane nulla ha valore al di là del singolo individuo. Allorché tutte queste idee saranno secolarizzate, trasposte nella sfera profana, le condizioni per l’avvento del moderno individualismo saranno mature. L’atomismo politico manifestatosi a partire dal XVII secolo, segnatamente nelle teorie del contratto sociale di Grozio, Puffendorf, Locke ed altri, ne è un primo esempio. A partire da quel momento la società non è altro che un’ unione di individui ed è dall’individuo che bisogna partire per comprenderla.



In un suo celebre saggio Max Weber sottolineò la stretta relazione intercorrente tra l’etica protestante, fondata sul lavoro quale unico mezzo di redenzione concesso all’Uomo, e la capillare diffusione del modello economico capitalista nei Paesi del nord Europa a partire dal XV secolo. L’insistenza del sociologo tedesco sulla matrice religiosa dell’etica economica non introduce, a suo parere, il rischio di un’interpretazione della dinamica storica uguale e contraria a quella marxista?



È sempre rischioso studiare un fenomeno complesso alla luce di un solo parametro. Marx ha ragione di sottolineare l’importanza dei fattori economici nella storia, ma sbaglia laddove intende spiegare ogni cosa in loro funzione. Le osservazioni di Max Weber meritano certo di essere prese in considerazione, senza che ciò ci induca a ricondurre ad esse la genesi del Capitalismo.

È necessario quindi sottolineare che il Protestantesimo, nel momento stesso in cui rifiuta l’autorità centrale di Roma, è ben lontano dall’essere un fenomeno unitario. Quando Max Weber parla di “etica protestante” si riferisce innanzi tutto al Calvinismo: in opposizione a Lutero, che denuncia nel traffico delle indulgenze una sorta di mercificazione della salvezza, sta Calvino, il quale si pronuncia in favore di una piena legittimazione dell’attività mercantile. E’ sempre lui che riabilita l’usura, condannata dai teologi del Medioevo, con il pretesto che essa può servire alla “pubblica utilità”.

Le tesi di Max Weber sono state spesso oggetto di discussione ed il dibattito prosegue ancor oggi! Werner Sombart, ad esempio, ha preferito sottolineare l’importanza degli Ebrei nell’avvento del Capitalismo moderno. Più di recente, nel 1993, il neoconservatore americano Micheal Novak ha creduto di poter ravvisare delle affinità tra lo spirito del Capitalismo e la morale cattolica (The Catholic Ethic and the Spirit of Capitalism) . In un suo libro apparso nel 1998, The Wealth and Povetry of Nations, David Landes afferma che “l’etica giudeo – cristiana” è stata la base della rivoluzione industriale.Gli storici, dal canto loro, hanno contestato spesso l’idea che il Nord d’Europa sia il solo luogo d’elezione del Capitalismo moderno.

Personalmente credo che non sia possibile spiegare la nascita del capitalismo senza tener conto di quel lento processo che, a partire dal Medioevo, ha condotto alla legittimazione del denaro. Essa si concretizza nel momento in cui il valore del denaro diventa una semplice convenzione tra agenti privati, vale a dire quando comincia ad essere regolato sulla base del solo ordine commerciale. Uno dei principali teorici di questo nuovo modo d’intendere il denaro fu Nicolas Oresme, vescovo di Lisieux, il cui “Trattato sulle Monete” comparve nel 1358: nella sua opera vengono meno i concetti di giusto prezzo e di giustizia distributiva, vi è solo un prezzo stabilito sulla base di un confronto tra i bisogni del mercato.

Questa legittimazione del denaro va di pari passo con l’ascesa del ceto borghese, la cui emancipazione è strettamente legata al commercio. La comparsa delle prime banche nei Paesi Bassi, in Inghilterra e in Italia segna d’altro canto una tappa decisiva. Il bimetallismo, che consiste nella pratica di esprimere il prezzo dell’oro in argento, si diffuse a partire dal XIII secolo ed è a Firenze che troviamo i primi esempi di partita doppia da cui si fa derivare, per convenzione, la nascita della rivoluzione commerciale associata all’avvento delle banche. L’era delle “grandi scoperte”, infine, ha inaugurato la diffusione del commercio sulle lunghe distanze.

La Riforma ha ereditato questa evoluzione, aggiungendovi il proprio tocco personale. Essa ha riabilitato la nozione di “vita ordinaria” (che Aristotele contrapponeva alla “vita retta”), vale a dire il dominio della produzione e della riproduzione che si riverbera nella sfera del privato. L’esaltazione dell’accumulo e del lavoro, fondamento della morale borghese, sono la conseguenza diretta di questa esaltazione della vita ordinaria, che va di pari passo con la nascita della “società civile” e con l’idea che la sorte dell’individuo non dipenda più in via prioritaria dalla sua partecipazione alla vita pubblica o dall’appartenenza ad una qualche collettività. Questa nuova morale che rifiuta innanzi tutto l’improduttività dell’aristocrazia (da questo momento in poi vengono definite come “improduttive” tutte quelle attività il cui prodotto non è suscettibile di essere cambiato con del denaro), di morale non ha nient’altro che il nome dal momento che, legittimando la ricerca del proprio interesse particolare, induce a giustificare l’egoismo: per Adam Shmith così come per Bernard Mendeville la somma degli atteggiamenti egoistici conduce alla realizzazione dell’armonia naturale degli interessi grazie al gioco della “mano invisibile”.



In un articolo recentemente apparso sulla rivista “Diorama letterario” Jacopo Tarantino ha suggerito l’idea che quel “nazionalismo universalista” prospettato da Robert Kagan quale elemento imprescindibile dell’espansionismo statunitense altro non sia che l’applicazione sul piano storico – fattuale della dottrina calvinista della predestinazione. Qual è la sua opinione in proposito?



La dottrina calvinista della predestinazione gioca in effetti un ruolo evidente nell’idea di “Destino manifesto” alla quale gli Stati Uniti non hanno mai mancato di riferirsi per giustificare le loro azioni nel mondo. Ora, al di la della Riforma, della quale senza dubbio ha assunto le sembianze esteriori, questa idea rimanda ad una concezione messianica derivata dall’Antico Testamento. Gli Stati Uniti, nati da un atto di rottura nei confronti dell’Europa, si sono posti come una nuova Terra Promessa, una società di “eletti” avente come vocazione quella di estendere al mondo intero il proprio modello.

Questa ideologia messianica è onnipresente tra i primi coloni giunti in America e tra la maggior parte dei “Padri fondatori”. Per George Washington gli Stati Uniti sono una nuova Gerusalemme “prescelta dalla Provvidenza per essere il teatro in cui l’uomo potrà conseguire la sua vera grandezza”, Thomas Jefferson li definisce “una nazione universale che persegue ideali universalmente validi”, John Adams come “una Repubblica pura e virtuosa che ha per compito quello di governare il mondo per consentire all’uomo di raggiungere la perfezione”. Dick Cheney e George Bush, oggi, non dicono nulla di diverso.

Questo ideale messianico fonde insieme nazionalismo ed universalismo in un modo rivelatore. Presumendo del tutto naturalmente che il loro modo di vita particolare sia “universale”, gli Stati Uniti intendono preservarlo da ogni contaminazione, ma anche imporlo al resto del mondo. E’ ciò che afferma la teologia puritana del “Covenant”, se Dio ha scelto di favorire gli Americani, essi hanno di conseguenza il diritto di convertire gli altri popoli al proprio stile di vita. Abbiamo quindi da un lato l’isolazionismo, che spinge l’America a separarsi dal mondo esterno, e dall’altro lo spirito di “crociata” che la induce a diffondere i valori americani da un capo all’altro del pianeta, sia tramite il commercio che per mezzo della forza militare. Le due tendenze sono contraddittorie solo in apparenza. In realtà esse corrispondono a due risvolti della stessa vocazione messianica, poiché rappresentano un esempio tipico di come l’universalismo politico nasconda sempre un dissimulato etnocentrismo.



Eppure alcuni commentatori non certo tacciabili di simpatie neoconservatrici come Picone e Ulmen hanno scorto in Carl Schmitt il nume tutelare di questo nuovo corso, dal momento che la politica estera inaugurata dall’ Amministrazione americana a partire dal 1991 mirerebbe allo stravolgimento delle regole vigenti nell’ attuale quadro giuridico internazionale in vista della realizzazione di un nuovo nomos della terra che farebbe degli Stati Uniti un Grossraum posto per sua natura al di fuori dei vincoli dello jus publicum europaeum. All’alba del XXI secolo l’ America dei Wasp si scopre schmittiana?



Non penso affatto che gli Stati Uniti siano diventati “schmittiani”, non solo perché i neoconservatori americani non hanno probabilmente mai letto Carl Schmitt, ma anche e soprattutto perché la loro pratica politica si discosta considerevolmente dal pensiero del giurista tedesco. Lo si vede già nel loro modo di concepire la politica, che si richiama invariabilmente a procedure giuridiche e a tecniche di gestione amministrativa.

Gli Stati Uniti non hanno altra tradizione politica che quella del liberalismo derivato dal pensiero dei Lumi. Ora, per Carl Schmitt la “politica liberale” è di per se stessa un ossimoro, poiché a suo giudizio il liberalismo è innanzi tutto una dottrina, che oppone alla dimensione del politico la duplice polarità della morale (i diritti dell’uomo) e dell’economia (il mercato).

Carl Schmitt, che ha sempre criticato l’imperialismo americano esortando l’Europa ad impedire agli Stati Uniti di intromettersi nella loro sfera d’influenza geopolitica, non avrebbe certamente mai approvato il modo in cui gli Stati Uniti, approfittando della scomparsa del sistema sovietico, cerchino oggi di dominare il mondo ostacolando con ogni mezzo l’insorgere di potenze rivali. Carl Schmitt si è pronunciato a più riprese in favore di un mondo multi polare – un “pluriverso” – e non certo per un “universo”. Il nomos della Terra a cui egli si riferisce non deve quindi essere confuso con l’imposizione multilaterale, a sostegno della globalizzazione, dell’”american way of life” a tutti i popoli del mondo.

Infine, Carl Schmitt ha denunciato per tutta la sua vita le conseguenze totalitarie derivanti dall’idea di “guerra giusta”. Il più grande merito dello jus publicum europaeum era a suo parere quello di aver saputo relegare la conflittualità entro dei limiti che impedivano di demonizzare il nemico, facendo in modo che il nemico di oggi possa eventualmente diventare l’alleato di domani.

I neoconservatori americani adottano esattamente l’attitudine inversa. Essi pretendono di condurre delle guerre morali, vale a dire delle guerre in nome del Bene. In un’ottica di tal genere il nemico diventa automaticamente un colpevole, un criminale, che deve essere estirpato con ogni mezzo. Guerre di questo tipo sono inespiabili. Esse implicano l’eliminazione dell’avversario: “chi non è con noi è contro di noi”, dice il presidente Bush. È un linguaggio di “crociata”, l’equivalente americano della Jihâd, non certo quello di Carl Schmitt.

(a cura di Paolo Mathlouthi)

domenica 25 novembre 2007

Anti Gentiloni Divide - petizione Wimax



cittadini italiani ed europei, CHIEDONO alla Commissione Europea
Che alla gara indetta dal Ministero delle Comunicazioni, con riferimento al decreto del 2 ottobre 2007, avente come oggetto l’assegnazione di diritti d’uso di frequenze per sistemi Broadband Wireless Access (BWA) nella banda 3.4 – 3.6 GHz, non possano partecipare operatori già detentori di frequenze BWA, nello specifico gli operatori UMTS.

questo è il link:
http://www2.beppegrillo.it/petizioni/iscrizione.php?submit=FIRMA+LA+PETIZIONE

Odeon Tv filmati sulle scie chimiche

Odeon Tv ha realizzato una trasmissione sulle scie chimiche.
La puntata è stata trasmessa giovedì 23/11/2007.
Questi sono i link per visualizzare i filmati:

http://archivio.odeontv.net/filmati/rebus/web_rebus_071123-a.wmv

http://archivio.odeontv.net/filmati/rebus/web_rebus_071123-b.wmv

http://archivio.odeontv.net/filmati/rebus/web_rebus_071123-c.wmv

http://archivio.odeontv.net/filmati/rebus/web_rebus_071123-d.wmv

http://archivio.odeontv.net/filmati/rebus/web_rebus_071123-e.wmv

La Chiesa tra dittature e Mafia (due libri)

sul sito: http://ilghibellino.blogspot.com
- (recensione) L' isola del silenzio. Il ruolo della
Chiesa nella dittatura argentina di Verbitsky
Horacio, Fandango Libri

Il libro descrive un legame tra la Chiesa Cattolica e
la dittatura argentina portando come prova la vicenda,
fino ad ora sconosciuta, secondo cui un'isola, di nome
El Silencio, avrebbe accolto per un mese i
desaparecidos imprigionati all'ESMA, (Scuola Superiore
di Meccanica della Marina, centro di detenzione
clandestina dove transitarono almeno 5000
sequestrati). Il volume raccoglie le testimonianze
degli scampati ai campi di detenzione clandestina e
dei parenti delle vittime ancora ufficialmente
"desaparecidos".

- IL RUOLO DEL VATICANO NEL GOLPE MILITARE IN
ARGENTINA, Gli oscuri legami tra i militari e la
«chiesa nera» di Bergoglio, HORACIO VERBITSKY, Il
Manifesto, 24 marzo 2006

- Le sagrestie di cosa nostra. Inchiesta su preti e
mafiosi, Vincenzo Ceruso, 2007, newtoncompton
- un'intervista: Ceruso: la zona grigia tra Chiesa e
Mafia Nel libro Le sagrestie di Cosa nostra. Inchiesta
su preti e mafiosi lo scrittore palermitano descrive
il filo rosso che lega la Chiesa all'organizzazione
riminale, tra omertà e collusione.
Ove scoprirete, tra le tante cose, "che nel 2005 il
Comune ha stanziato 3,5 milioni di euro per feste
religiose di ogni tipo."

venerdì 23 novembre 2007

Articoli interessanti

Sui quotidiani di giovedì 23 novembre sui quotidiani
sono usciti diversi interessanti articoli, alcuni di
questi riguardano la recente scoperta del Lupercale a
Roma. Per evitare troppi messaggi vi invio i link dei
blog ove potete trovare gli articoli.

Sul blog: storia Romana:
http://storiaromana.blogspot.com

Repubblica 23.11.07
Romolo e Remo. Perché una civiltà si fonda sul mito
Dopo il ritrovamento del lupercale
di Andrea Carandini

Repubblica 23.11.07
Un sistema giuridico avanzatissimo che ha ispirato e
fondato l´Occidente
DalLa Roma dei pastori alla patria del diritto
di Aldo Schiavone

Sul blog paganesimo: http://paganesimo.blogspot.com
Repubblica Firenze 23.11.07
Ninfe. Il simbolo neopagano del Rinascimento
Con Susanna Mati sulle tracce delle ninfe


Sul blog Il Ghibellino:
http://ilghibellino.blogspot.com
l'Unità 23.11.07
Polemiche. L'embrione dell'Avvenire
di Carlo Flamigni

Colpisce l'entusiamo con il quale l'Avvenire ha
accolto i recenti risultati sulle staminali adulte
Ma quei risultati non sono forse stati ottenuti
proprio grazie a ricerche sugli embrioni?

giovedì 22 novembre 2007

Intervista su Radio Città Futura

Gli ascoltatori della Radio per 11 anni potuto seguire la trasmissione
"Magia, Stregoneria, Paganesimo", da agosto 2007 la trasmissione è stata sospesa dal consiglio di Amministrazione. Il Consiglio di amministrazione ha utilizzato, a giustificazione di questa scelta, un verbale di contestazione dell'Autority che ipotizzava alcune affermazioni "blasfeme" da parte di Claudio Simeoni.
La trasmissione è ripresa su web, trovate l'archivio, in formato mp3, sul sito
http://www.federazionepagana.com/radiopagana
Claudio Simeoni è stato intervistato da "Radio Città Futura", vi riporto il messaggio del curatore tecnico di Radio Pagana, l'amico Franco Santin:
Registrazione della trasmissione "Futura" del 19 novembre 2007 da Radio Città Futura.
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2007-11-19.
Da Radio Città Futura. [21'03", 19 MB]
Intervista di Patrizia De Rossi a Claudio Simeoni e Manuela Simeoni da Radio Città Futura http://www.radiocittafutura.it/home/home.asp durante la trasmissione "Futura".
la trasmissione la trovare anche su:
http://www.federazionepagana.com/radiopagana/intervistaradiocittafutura.mp3
[A 11'58", 6" di interruzione del segnale web]
Buon ascolto.
Francesco Scanagatta

«Hanno usato i nostri figli come cavie umane»

«Hanno usato i nostri figli come cavie umane»
Giornata mondiale dell'infanzia Nigeria, sperimentazione killer.
I bimbi africani vittime di Big Pharma
di Stefano Liberti
Nel 1996, la casa farmaceutica Pfizer è andata nel nord della Nigeria per testare un nuovo farmaco su 200 bambini malati di meningite. Undici sono morti, molti altri hanno subito danni permanenti. Dopo undici anni, il governo di Abuja ha fatto causa all'azienda Usa. Che si difende: «Siamo andati lì solo per fare del bene»Kano (Nigeria). «Lo hanno preso e chiuso in una stanza. Gli hanno dato quel farmaco e me lo hanno ridotto in queste condizioni». Mustapha Mohammed ancora si infervora quando pensa a quei giorni terribili di undici anni fa. La sua città era in preda a una spaventosa epidemia di meningite. Uomini, donne e bambini si ammalavano e morivano come mosche. Una mattina suo figlio Anas, che all'epoca aveva tre anni, ha accusato i sintomi della malattia. Lui lo ha portato immediatamente all'ospedale. «Lì, c'erano quei medici bianchi», ricorda furente Mohammed. «Mi hanno detto che lo avrebbero curato e lo hanno chiuso in una stanza. Da allora, è così: ha mantenuto lo sviluppo mentale di un bambino».Siamo a Kano, nel nord della Nigeria, in un quartiere anonimo incuneato tra strade polverose al centro delle quali scorre a cielo aperto lo scolo delle fogne. Accanto al padre, Anas annuisce ma non sembra molto padrone dei suoi pensieri. Ha il volto esile, lo sguardo sperduto, i movimenti rallentati. Parla per monosillabi. Il ragazzo, che ora ha quattordici anni, ha il non invidiabile record di essere stato il primo ad essere stato arruolato per il test sperimentale di un farmaco - il Trovafloxacin, più comunemente detto Trovan - per il quale la casa farmaceutica statunitense Pfizer cercava l'autorizzazione da parte della Food and Drug Administration (Fda). Un test che, secondo i parenti dei bambini coinvolti, è stato condotto con l'inganno, senza fornire la minima informazione e senza ottenere quindi il necessario consenso informato.Un farmaco da un miliardo di dollariÈ il 1996. L'epidemia di meningite infuria a Kano, trascinando panico e morte. Gli ospedali sono presi d'assalto. I morti sono più di 10mila; le persone infettate circa 100mila. Questa ecatombe non trova grande spazio sulla stampa occidentale. Ma la notizia raccoglie un qualche interesse negli uffici della Pfizer. La situazione rappresenta un'occasione d'oro per sperimentare il Trovan, un farmaco il cui potenziale valore di mercato è stimato intorno al miliardo di dollari. I responsabili dell'azienda decidono di cogliere la palla al balzo: tra i possibili usi terapeutici del medicinale c'è anche la cura della meningite. Viene organizzato in fretta e furia un team: un aereo charter è spedito a Kano e, pochi giorni dopo, la sperimentazione ha inizio. I medici della Pfizer isolano un reparto dell'Infectious Disease Hospital (Idh) della cittadina nigeriana, l'ospedale in cui si concentrano i pazienti e vengono fornite le cure da medici statali e da un'équipe di Medici senza frontiere. Selezionano duecento bambini per il test. A cento danno il Trovan, agli altri un antibiotico approvato a livello internazionale.Alla fine del test, 11 bambini muoiono; molti altri subiscono malformazioni permanenti. Difficile dire se il nuovo farmaco - o la mancata somministrazione di un antibiotico di tipo classico - abbia avuto un ruolo attivo in questo disastro. Ma sta di fatto che, dopo la sperimentazione, la Fda consente la somministrazione del Trovan solo agli adulti, prima di restringerne pesantemente l'uso. In Europa il Trovan non riceverà mai l'autorizzazione di vendita. Alla fine, la Pfizer lo ritirerà dal mercato mondiale.«Finalità umanitarie»La vicenda rimane sepolta per alcuni anni, ignorata sia all'opinione pubblica nigeriana che dai pazienti coinvolti. Finché, nel 2001, grazie alla ricostruzione di un giornalista del Washington Post, diventa di dominio pubblico. L'articolo del quotidiano statunitense suscita un polverone a Kano: i parenti dei bimbi morti o rimasti deformi protestano. Accusano la casa farmaceutica di averli ingannati. Intentano una causa contro la Pfizer. Quest'ultima ribatte che i suoi ricercatori sono andati in Nigeria solo con finalità umanitarie «per combattere l'epidemia». Sotto la pressione dell'opinione pubblica, il governo nigeriano affida un'inchiesta a un gruppo di esperti medici. Il team produce un rapporto, che punta l'indice contro l'azienda. Gli esperti affermano che la casa farmaceutica non ha mai ottenuto l'autorizzazione dal governo nigeriano per condurre le sperimentazioni. Il test - sostiene il documento - «è stato un chiaro caso di sfruttamento dell'ignoranza». La commissione conclude dicendo che la Pfizer ha violato la legge nigeriana, la dichiarazione di Helsinki sui principi etici nella ricerca medica e la convenzione delle Nazioni unite per i diritti del bambino. Gli esperti raccomandano che la Pfizer venga «adeguatamente sanzionata».Ma nulla accade. Il rapporto è insabbiato. La causa intentata dai parenti delle vittime contro la Pfizer non ha seguito. «Troppa gente potente era coinvolta in quella storia. Probabilmente dalle alte sfere si è deciso di non intervenire», sostiene Ismayl Zubairi, un politico di Kano che nel 1996 lavorava all'Idh come infermiere. «La Nigeria è un paese estremamente corrotto. E poi all'epoca c'era una dittatura militare. È possibile che la Pfizer abbia ottenuto le autorizzazioni dal governo. Ma io ero là e di una cosa sono sicuro: non hanno mai informato i pazienti».Zubairi, che ha anche perso un fratello nel test della Pfizer, non ha alcun dubbio. A distanza di undici anni, non ha dimenticato quei giorni. «Mio fratello ha preso quel farmaco. Poi ha perso l'uso delle gambe. Infine, dopo tre giorni, è morto. Tutti i bambini coinvolti nel test della Pfizer hanno accusato effetti collaterali simili». Il suo racconto riecheggia quello di decine di altri genitori che hanno visto i propri figli morire, diventare storpi o sordomuti. O più semplicemente trasformarsi in vegetali, come Firdausi Madaki. La ragazza - un volto inerme dietro un paio di occhi privi di espressione - ha dodici anni. Ne aveva appena uno quando si è ammalata di meningite e la madre l'ha portata all'Idh, dove è stata presa in cura da «quei medici bianchi». Incapace di muoversi, di parlare, persino di bere o mangiare da sola, oggi trascorre le sue giornate nel cortile della misera casa dei genitori, sbattuta su una stuoia. Non riesce neanche a coordinare i movimenti delle mani per scacciare i nugoli di mosche che le si ammassano sul volto. La madre Abu ha lo sguardo tenace, ma quando pensa a questa figlia senza futuro non riesce a trattenere le lacrime. «Che posso fare? Anche i miei parenti mi hanno abbandonato. Spendo tutto quello che ho per il mantenimento di mia figlia. E poi, che ne sarà di lei? Che vita potrà mai avere?», dice tra i singhiozzi.Il processo ha inizioDopo undici anni, nel maggio scorso il governo federale nigeriano e il governo dello stato di Kano hanno deciso di passare all'azione. Hanno citato in giudizio la Pfizer in quattro procedimenti distinti per aver condotto il test senza permesso, chiedendo un risarcimento complessivo di otto miliardi di dollari e mezzo. Ora il processo va avanti, con i tempi della giustizia nigeriana. E i parenti dei bambini morti o malati sperano di ottenere qualche indennizzo.Ma alla causa farmaceutica ostentano tranquillità. «Abbiamo fatto tutto secondo le regole. Abbiamo almeno dodici lettere di autorizzazione da parte delle autorità nigeriane», si giustifica il dottor Jack Watters, responsabile dei test clinici condotti all'estero. Quanto al consenso informato, il dottore è perentorio: «I genitori sono stati debitamente informati delle caratteristiche del test e hanno dato la loro approvazione. Posso solo immaginarmi che non lo ricordano perché, in una situazione come quella, in cui i loro figli gli stavano morendo tra le braccia, erano probabilmente sottoposti a uno stress gigantesco».