lunedì 31 marzo 2008

NO TAV: IN 1400 ACQUISTANO TERRENO PER BLOCCARE TRACCIATO

La Repubblica.it » Cronaca » News:
"NO TAV: IN 1400 ACQUISTANO TERRENO PER BLOCCARE TRACCIATO"

Torino, 19:45

NO TAV: IN 1400 ACQUISTANO TERRENO PER BLOCCARE TRACCIATO

Sono stati piu' di 1400 gli acquirenti No Tav di una parte del lotto di 1251 metri quadri a Chiomonte dove dovrebbe sbucare uno di tracciati ipotizzati per la Torino-Lione. E' questo l'esito dell'acquisto collettivo di terreni organizzato dai No Tav della Valusa quest'oggi. Si erano prenotati in piu' di 1500 ma non tutti hanno poi sottoscritto l'acquisto presso il museo archeologico La Maddalena. "Il dato preciso ce lo fornira' il notaio Roberto Martino domani, comunque alla manifestazione hanno partecipato piu' di 2500 persone - ha spiegato Alberto Perino, uno dei leader del movimento di contestazione all'alta velocita' tra Italia e Francia -. Ora aspettiamo i prossimi progetti che proporranno, e noi reagiremo portando avanti altre iniziative simili, che servono a darci il diritto di essere in prima fila al momento degli espropri. Il 9 giugno di sicuro acquisiremo con le medesime modalita' altri due terreni qui a Chiomonte e altri due a Venaus, altro luogo che tornera' d'attualita' nella nostra battaglia, e dove un nostro presidio e' sempre stato presente".

Federazione Pagana: La TV Pagana via web

Federazione Pagana: La TV Pagana via web

Da martedì mattina, sul canale televisivo via web:

http://www.mogulus.com/paganesimo

Andrà in onda in continuo la conferenza illustrativa del Giudizio di Necessità che fu tenuta nel 2006 in sala dibattiti di Radio Gamma 5 in via Belzoni 9 Cadoneghe – Padova.

Il Giudizio di Necessità è il tredicesimo elemento del Crogiolo dello Stregone. E’ uno delle cinque pratiche di Stregoneria attuate nel Sistema Sociale, nelle relazioni sociali, nei rapporti con le persone.

La consapevolezza che siamo circondati da un immenso infinito e che il nostro giudizio, comunque, articola una frazione minima di quell’infinito, se da un lato ci rende consapevoli della relatività del nostro giudizio, dall’altro lato non ci esime dall’emettere giudizi. Non ci esime dal prendere delle decisioni, non ci esime dall’agire nella società.
Ma come lo Stregone agisce nella società?
Cosa tiene presente?
E su cosa e in base a cosa, chi pratica Stregoneria costruisce il suo giudizio?
La conferenza risponde a questo.
Il filmato è di 1 ora e 47 minuti circa ed è la prima volta e solo grazie a questo servizio, che questo filmato può essere reso pubblico.

La pratica della Stregoneria è, spesso, avvolta nel mistero e anche se io ho tentato di spiegarla, le persone hanno difficoltà a comprendere che fare un’azione o farne un’altra, non è la stessa cosa. Ogni volta che prendiamo una decisione o facciamo un’azione noi ci modifichiamo in quella e solo in quella direzione cancellando tutte le possibilità che altre decisioni o altre azioni avrebbero permesso.
Martedì mattina, fra le nove e le dieci, sul canale di “Paganesimo e Stregoneria”, all’indirizzo:

http://www.mogulus.com/paganesimo

Andrà in onda la Conferenza sul Giudizio di Necessità. Da mercoledì mattina riprenderà l’attuale programmazione con l’inserimento, per ora, della conferenza.
Solo su questo servizio possiamo fare questo, su You Tube non potevamo.

E’ la nuova TV via Web che, come tutti i servizi, per aver successo devono dare spazio alle persone che hanno delle passioni. Poi, un giorno, arriveranno i grandi operatori e ci sbatteranno fuori.
Claudio Simeoni
Meccanico
Apprendista Stregone
Guardiano dell’Anticristo
P.le Parmesan, 8
30175 – Marghera Venezia
e-mail claudiosimeoni@libero.it

domenica 30 marzo 2008

Raglio Day: Successo dei Tabari a Spinea



(PF)Il gruppo bi-folk El Fio' col Tabaro ha dato sfoggio delle sue qualità già ben note agli amici di Gamma 5.

L'occasione è stata il Raglio Day di domenica 30/3 al Parco Nuove Gemme di Spinea. Una splendida giornata di sole ravvivata da una sfilata di asini, dimostrazioni di falconeria, animazioni per bambini con la prodigiosa Marzia, specialità gastronomiche e per finire la rumorosa presenza folk-musicale dei cosiddetti Tabari con la loro affezionata Krelia (vedi foto), l'asinella che il portavoce Neno ama chiamare affettuosamente "Krelia! Vien qua, to mare vaca!".

Sono vestiti da contadini e circondati da oggetti di una volta, cantano e suonano senza essere dei professionisti ma con tanta simpatia tra una battuta di spirito e un canto da osteria. Curiosità e applausi arrivavano da tutti i presenti che hanno passato il pomeriggio della domenica alla scoperta di tanta tradizione e filosofia. Un motto: "ridi 'na olta al dì. Se no te se de chi, ridi de ti!"

sabato 29 marzo 2008

"Le stagioni dei NOTAV"

Megachip - Democrazia nella comunicazione:
"Le stagioni dei NOTAV"
dal sito: http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=6311


a cura di Ezio Bertok e Maurizio Piccione

Prologo
Domenica 30 Marzo 2008 a Chiomonte, pochi chilometri da Venaus, 1400 NOTAV si ritroveranno davanti ad un notaio per garantirsi un posto in prima fila qualora il partito trasversale degli affari tentasse di bucare la montagna. Un altro granello di sabbia in quel grande ingranaggio che si era inceppato nell'autunno del 2005 salvo rimettersi in moto all'indomani.

Negli ultimi due anni sono cambiate molte cose ma per chi non vive il problema TAV nella sua quotidianità può essere difficile cogliere ciò che è cambiato e quanto è rimasto come allora. I grandi media interessati propongono con sempre maggiore insistenza l'immagine di una valle rassegnata che ha cambiato idea, disposta ad accettare l'idea che il TAV “si può fare”. Non è così. Ma anche l'immagine di un modello intatto di democrazia partecipata è un'immagine distorta che non rende giustizia alla verità. La verità è più complessa e può essere utile un riassunto di questi ultimi due anni per chi, in altre parti del paese, si spende per la difesa del proprio territorio e dei beni comuni guardando con speranza e partecipazione alla resistenza NOTAV.

Il 30 Marzo segnerà l'avvio di una nuova fase della nostra lotta. Una forma inedita di resistenza, nata ben prima dell'autunno 2005, che fa politica mettendo al centro le persone, che nella lotta al TAV scopre tutti gli inganni di un modello di (non)sviluppo che uccide anche le speranze di futuro, che pratica nuovi stili di vita capaci di distinguere tra bisogni reali e una domanda di consumi indotta da un mercato che a tutto guarda fuori che alla qualità della vita.

Una resistenza che si è diffusa nel paese creando presidi e presidiando la democrazia, una resistenza che vuole stringersi nell'abbraccio di tante altre resistenze. E' il Patto di Mutuo Soccorso.

Il big-bang

Era l'autunno del 2005, il problema TAV Torino-Lione varcava i confini della Val di Susa ed assumeva un rilievo nazionale, la resistenza della Val di Susa conquistava le prime pagine dei giornali e Venaus diventava un simbolo.

Era l'8 Dicembre e un nuovo presidio nasceva di fronte al cantiere aperto solo due giorni prima con i blindati e i manganelli della polizia: la perforazione della montagna avrebbe dovuto iniziare da lì, ma l'8 dicembre tutto si ferma, nei mesi successivi il cantiere rimane deserto e il presidio di fronte si anima sempre più.

Nove giorni dopo erano oltre 50.000 in piazza a Torino, giunti da tutte le regioni d'Italia: non era solo una manifestazione di solidarietà, c'era in ognuno dei presenti la condivisione profonda delle ragioni che animavano la lotta NOTAV. Era ormai chiaro che l'opposizione del valsusini al progetto non derivasse soltanto dai rischi per la loro salute e dalla certezza delle devastazioni ambientali: l'inutilità di quest'opera folle, il suo costo astronomico e la consapevolezza che sarebbe stato a carico di tutti i contribuenti, l'enorme business legato all'apertura dei cantieri, gli intrecci tra politica e criminalità organizzata. Tutto questo era ormai patrimonio comune e in molti comprendevano ora cosa intendessero i NOTAV quando parlavano di “partito trasversale degli affari”. Altri ancora lo avrebbero compreso nei mesi successivi quando si materializzò quel Patto di Mutuo Soccorso che oggi riunisce tanti piccoli cortili impegnati a difendere i beni comuni contro le devastazioni delle grandi opere e certo non affetti da sindrome nimby.

Quel laboratorio di democrazia nato in Val di Susa creava nuove speranze, suscitava grandi aspettative; quella gente che dialogava e lottava, che ritrovava il gusto della partecipazione e la voglia di difendere i propri diritti e il proprio futuro, quella gente che guardando alla propria valle indicava l'intero paese, quella gente era ora l'esempio da seguire. E quei sindaci schierati in prima fila con le loro fasce tricolori, insieme ai cittadini che li avevano eletti sulla base di programmi elettorali chiaramente targati NOTAV? Tutti si compiacevano nel misurare la differenza tra un impegno mantenuto ed una promessa elettorale. Che un altro modo di fare politica fosse possibile?

Cominciano le grandi manovre…

Anche il partito trasversale degli affari comincia a farsi domande, e sceglie subito di cambiare strategia. Il governo di allora, all'indomani della riconquista dei NOTAV di Venaus, decide di mettere da parte i manganelli e apparecchia un tavolo, anzi due: uno “politico” ed un “tecnico”. Al primo parteciperanno anche rappresentanti delle istituzioni locali guidati dal presidente della comunità montana Antonio Ferrentino; a quello tecnico, detto anche Osservatorio, siederanno anche tecnici nominati dalla comunità montana stessa: dovrà presentare al tavolo politico un quadro dettagliato della situazione trasportistica in valle, misurare la capacità dell'attuale linea ferroviaria, valutare gli scenari di traffico. Non dovrà invece considerare ipotesi di tracciati di una nuova linea ma dovrà limitarsi a fornire al tavolo politico gli elementi per rispondere alla domanda: “Di una nuova linea c'è bisogno oppure no?”. Queste sono le intese.

I sindaci della valle salutano la novità come un riconoscimento delle autonomie locali e confidano in una reale disponibilità al dialogo da parte del governo. Il presidente Ferrentino, che per molti era diventato un simbolo della protesta NOTAV, si dice convinto che l'Osservatorio dimostrerà, dati alla mano, che la linea ferroviaria esistente basta e avanza e questo taglierà la testa al toro.

I comitati NOTAV non nascondono perplessità, hanno sì fiducia nei due tecnici che faranno parte dell'Osservatorio, non dubitano che riusciranno a dimostrare questa tesi ma… mettono in guardia: “Il potere politico non accetterà mai un esito contrario alle sue aspettative, porterà comunque avanti i suoi disegni e cercherà di usare il tavolo tecnico contro di noi… potrebbe essere un cavallo di troia… non dobbiamo cascarci…”.

Le riserve crescono quando viene nominato presidente dell'Osservatorio tecnico Mario Virano: il governo in carica è ancora quello dei manganelli a Venaus ma Virano è più che mai gradito anche a quello che verrà, quello che dichiarerà un giorno sì e l'altro anche che intende operare con “il consenso delle popolazioni interessate”. L'architetto Virano, ha ricoperto vari incarichi che giustificano non pochi dubbi sulla sua imparzialità ma l'essere (ancora oggi) commissario governativo per la Torino-Lione sembra troppo: come potrà essere imparziale nella sua veste di presidente super partes dell'Osservatorio indossando anche la giacca di sponsor del TAV?

Le cose però vanno avanti e la comunità montana accetta i rischi. Inizia una nuova fase.

Uno sgabello a tre gambe

Che il rapporto tra Comitati NOTAV e parte istituzionale della valle non sia sempre stato facile è un dato di fatto; spesso i sindaci sono stati “portati” a schierarsi apertamente anche quando avrebbero preferito farne a meno, si sa come vanno le cose: che la maggior parte della popolazione in valle sia contraria al TAV non ci piove, ma un'amministrazione ha anche altro cui pensare... Comunque, anche se sull'Osservatorio le posizioni divergono, il dialogo continua, tutti sono consapevoli che i risultati fino ad ora conseguiti sono il frutto dell'equilibrio di quello che viene definito uno “sgabello con tre gambe”: la popolazione e i comitati, i numerosi tecnici del movimento che fin dai primi anni 90 avevano denunciato i rischi del progetto, i sindaci e gli amministratori dei comuni e della comunità montana. Ognuno ha fatto al momento giusto la sua parte, non è il caso di guardare chi spinge e chi frena: salvaguardare questo equilibrio è l'obiettivo che tutti si danno, consapevoli che nel momento in cui una gamba dello sgabello dovesse cedere sarebbero guai per tutti.

Cambia il governo, arriva quello “amico” e… cominciano nuovi guai. Che non tiri una buona aria lo si capisce presto, e Vicenza ce lo confermerà; il giorno dopo la manifestazione del 17 Febbraio 2007 (anche 2000 NOTAV in piazza…il Patto di Mutuo Soccorso funziona…) esce il dodecalogo di Prodi: il TAV è al terzo posto, la sinistra “radicale” ingoia tutto e non si scompone. Ma come? Non eravate contrari? Si, ma, però…

Inverno - primavera

Intanto anche in quel “laboratorio di democrazia” della val di Susa qualcosa sta cambiando: sarà il tempo, sarà l'effetto del governo amico… Certo, già un anno prima talvolta era stata usata qualche enfasi di troppo parlando di “democrazia partecipata”. Intendiamoci, la sostanza nei fatti era quella, “NOTAV senza SE e senza MA” era il sentire comune di cui anche i sindaci si facevano interpreti, lo sgabello stava in piedi e guai se qualcuno provava a dare una pedata per farlo traballare. Si tenevano riunioni periodiche tra sindaci, comunità montana e comitati: venivano chiamate “comitati istituzionali”, non erano sedi decisionali (il presidente Ferrentino ci teneva a sottolinearlo sempre) ma insomma, alla fine le posizioni espresse in qualche modo poi pesavano. Molti continuavano a guardare alla Valsusa come a un modello da imitare. Nell'immagine che ne veniva data c'era molto di vero e qualche enfasi di troppo: se serve a dare più coraggio questo non guasta, a patto di non creare false illusioni; suscitare nuovi entusiasmi va bene, ma occorre pur sempre stare con i piedi per terra, e guai a non accorgersi se qualcosa sta cambiando.

Il tempo passa e il dialogo spesso si interrompe, nascono diffidenze, c'è chi accusa e chi si chiude in difesa, i toni talvolta salgono un po' sopra le righe. Quei comitati istituzionali non sono più convocati, il clima si deteriora. Non si parla di tradimenti, sia ben chiaro, ma la fiducia è un'altra cosa e crescono le incomprensioni. Ma perché la conferenza dei sindaci è fatta a porte chiuse? Dove è finita la trasparenza? Perché Ferrentino non accetta il confronto prima di presentarsi al tavolo politico romano? Perché non si sforza di convincere al suo rientro da Roma? Perché in valle si nega e altrove continua a presentarsi come leader di un movimento quando le sue scelte oggi sono sempre meno condivise? Dubbi che chiamano altre domande, domande che avanzano nuovi dubbi.

Estate

In questo clima escono intanto i primi documenti dell'Osservatorio tecnico, e vengono chiamati “quaderni” quasi fossimo a scuola. E parlano chiaro: i dati confermano che l'attuale ferrovia basta e avanza, basta per oggi e di sicuro fino al 2030, dopo non ha senso fare previsioni. Risultati sottoscritti da tutti, nero su bianco, compresi gli sponsor del TAV. I nostri tecnici spiegano che va tutto bene, Ferrentino conferma. Che abbia avuto ragione lui? Abbiate fiducia, devono essere “loro” a gettare la spugna, continua a ripetere.

In realtà il governo amico ha un'altra idea e non fa nulla per nasconderla. L'Osservatorio tecnico messo in piedi da Lunardi e Berlusconi è talmente apprezzato da Di Pietro e Prodi che questi pensano bene di utilizzarlo nel presentare all'Unione Europea una richiesta di finanziamento per la nuova linea: dicono che il confronto con le popolazioni locali ha portato buoni frutti e le resistenze sono ormai ridotte a marginali sacche di irriducibili.

Confronto? Quale confronto? Vuoi vedere che…. No, non può essere, anche nei documenti ufficiali dell'Osservatorio (i cosiddetti “quaderni”) sta scritto che il traffico sull'attuale linea ferroviaria è ben al di sotto delle sue potenzialità (6 milioni di tonnellate/anno a fronte di 20-30 milioni), che il traffico è in diminuzione e che non è ipotizzabile una saturazione per decenni! E soprattutto da dove salta fuori questa nuova disponibilità delle popolazioni?

Lo ha spiegato il commissario della UE Barrot, quando i NOTAV gli hanno consegnato 32.000 firme che dimostrano esattamente il contrario: “Me lo ha detto il ministro Di Pietro, e ha parlato di un Osservatorio nel quale è attivo da mesi un proficuo confronto con le amministrazioni locali…”.

Un commissario europeo può dar credito a qualche migliaio di firme e dare del bugiardo ad un ministro di uno stato membro? No, non può, anche se il ministro mente. Detto fatto: l'Europa promette il finanziamento che le regole vorrebbero fosse subordinato al consenso delle popolazioni interessate dal progetto. Prodi e Di Pietro ringraziano pubblicamente l'Europa, poi ringraziano Virano in privato. I grandi media fanno il lavoro sporco, si scatenano e parlano di una valle rassegnata che ha cambiato idea. Niente di più falso.

Ma allora quel cavallo di Troia di cui si parlava? Se prima potevano esserci dubbi…

Autunno - inverno

Tra sindaci e amministratori già da tempo crescono i malumori, e prendono corpo distinguo e prese di distanza dal presidente della comunità montana che non si sposta di un centimetro dalla sua posizione: avanti tutta, abbiamo la situazione in pugno, non è successo niente. Come niente? E' pur vero che la cifra promessa dall'Europa è solo una briciola rispetto al costo dell'opera, ma non è di grande significato sul piano politico? E il tavolo politico che dopo lo stanziamento dei fondi europei ha deciso che l'Osservatorio ora si occuperà di definire i tracciati della nuova linea? Non è successo niente? Ma fino a ieri non si era detto che nell'Osservatorio si deve parlare solo di “SE TAV” e non di “COME TAV” e il presidente Ferrentino aveva assicurato che se il mandato fosse cambiato avrebbe lasciato il tavolo?

Per farla breve: 87 amministratori, e tra essi alcuni sindaci, prendono carta e penna e scrivono che così non va, che l'esperienza dell'Osservatorio va considerata chiusa. E' una scelta coraggiosa e giusta, che riceve ampi consensi. Gli schieramenti politici in questa presa di posizione c'entrano ben poco: semmai il numero dei sindaci e degli amministratori dissidenti non è più elevato a causa delle enormi pressioni dei partiti. Ma le previsioni sono che le adesioni cresceranno, e i partiti alle prossime elezioni la pagheranno cara, a cominciare da quelli che sostenevano le ragioni NOTAV e un anno fa hanno digerito il dodecalogo di Prodi e neppure oggi si mostrano pentiti, anzi.

Una nuova primavera

La storia non è finita, è appena iniziato un nuovo capitolo. Sì perché se è vero che sono stati mesi difficili non sono passati invano e il movimento NOTAV è oggi più maturo di ieri. L'Osservatorio per fortuna non è tutto, quel che conta è che da qui non passeranno dicono i comitati NOTAV, anche quelli che in questi mesi si erano un po' arrugginiti e oggi si stanno riprendendo. Dicendo “da qui” non intendono solo Venaus e dintorni: vale anche per la val Sangone che secondo gli strateghi di Di Pietro & C. dovrebbe opporre minor resistenza, vale per Chiomonte dove gli stessi strateghi hanno previsto lo sbocco del grande buco sotto la montagna, quello che ci eviterebbe l'isolamento dall'Europa.

Riprendono slancio assemblee, serate informative e iniziative varie, il movimento precisa il primo obiettivo: smentire le voci (interessate) che parlano di una valle rassegnata e convinta che non può sempre dire soltanto NO. In questo caso si può e si deve, perché non ci sono altre strade. Altre strade porterebbero ad accettare qualcosa in cambio, vedrebbero il progetto concretizzarsi a poco a poco, diluito un po' più nel tempo: tanto tutti sanno che il “loro” obiettivo non è “utilizzare” una nuova infrastruttura ma “costruire” una nuova infrastruttura, e la differenza non è poca. Hanno in mente di cominciare da Torino dove il sindaco Chiamparino non vede l'ora di utilizzare il TAV anche come pretesto per dare il là ad una enorme speculazione edilizia che i progettisti hanno definito “la rivoluzione urbanistica del 21 secolo”. Un affare più grande dei nuovi grattacieli che cambieranno il volto di Torino, anzi la premessa per altri grattacieli. Non sono fantasie, il progetto di c.so Marche e della cintura ovest della città sta lì a dimostrarlo così come i progetti dell'Agenzia per la Mobilità Metropolitana che guardano lontano, verso la bassa valle di Susa. Un pezzo qua, un pezzo là, e questo è fatto: domani poi vogliamo lasciare le cose così e non unire i vari pezzi?

Un nuovo capitolo insomma si apre oggi per i NOTAV: sanno che lo sgabello a tre gambe oggi traballa un po', ma invece di piangersi addosso si danno da fare per renderlo di nuovo stabile, non canti vittoria chi lo vede già caduto. E se oggi alcuni sindaci non si espongono ancora beh, vedremo, non è detto…

Tanto per cominciare i NOTAV sanno di non essere soli. Da quell'8 dicembre di due anni fa ne hanno fatta di strada, hanno costruito nuove relazioni, hanno stretto nuove amicizie, hanno suscitato aspettative, hanno esportato ovunque un modello: i presidi stile Venaus, o Borgone o Bruzolo sono quasi un marchio di qualità… Continuano a promettere “Sarà Dura”.

Di nuovo la valle fa sentire oggi la sua voce, è una voce NOTAV, è ben diversa da quella che riportano i grandi media, e per cominciare invita tutti a prenotarsi un posto in prima fila per diventare protagonisti di questa avventura: ogni occasione deve essere buona per condurre una lotta pacifica, non violenta e determinata. L'idea è semplice.

Il governo appena sfiduciato ha promesso nuovi sondaggi, nuove opere preliminari; dal governo che verrà, quale che sarà, non ci sarà certo da aspettarsi che cambi idea da solo: deve essere aiutato. Bene, nei luoghi in cui sono previsti i prossimi sondaggi, quando si presenteranno per eseguire gli espropri dei terreni… si troveranno di fronte un migliaio di NOTAV, ognuno proprietario di un solo, piccolo, metro quadro di terreno su quale ognuno vorrà esercitare il proprio diritto. Il prossimo 30 Marzo ognuno comprerà un posto in prima fila, 15 euro, spese notarili comprese. Riusciranno a fermare il TAV con i cavilli burocratici ed il notaio? Nessuno si illude: ma intanto un altro granello di sabbia finirà negli ingranaggi, e poi… saranno (saremo) in tanti ad accoglierli quel giorno!

20 Marzo 2008

Ezio Bertok (Comitato NOTAV-Torino, postmaster@notavtorino.org )

Maurizio Piccione (Spintadalbass - Avigliana, postmaster@spintadalbass.org )

giovedì 27 marzo 2008

II FLOP DEL VACCINO ANTI AIDS «CHI LO PRENDE RISCHIA DI PIÙ»

CORRIERE DELLA SERA 22 mar. ’08

II FLOP DEL VACCINO ANTI AIDS «CHI LO PRENDE RISCHIA DI PIÙ»

Ricerca L'immunologo Gallo: un disastro, come il Challenger per la Nasa
Due decenni di studi, spesi 500 milioni di dollari l'anno
Il genetista Desrosiers: oggi non abbiamo la minima idea- di come mettere a punto un vaccino efficace
Un flop da diversi milioni di dollari. Se si considera che solo quest'anno i fondi pubblici americani dedicati alla ricerca contro l’Aids sono stati. quasi 50o milioni (circa 350 milioni di euro). E sono quasi Zo anni che somme a sei zeri, via via, cresciute, sono state erogate dal governo federale.
«Un flop paragonabile al disastro dello shuttle Challenger per la Nasa», dice l'immunologo Robert Gallo, co-scopritore (insieme al francese Luc Montagnier) del virus dell'Aids, che guida l'Istituto di virologia umana di Baltimora.
Un flop con implicazioni non da poco per le future strategie mondiali (che poi sono quelle statunitensi) anti-Aids. Con implicazioni anche politiche, visto che George Bush ha investito anche di suo in questa sfida. Il flop riguarderebbe i risultati parziali, ma chiaramente negativi, delle prime due sperimentazioni di vaccini anti-Hiv. Test in fase conclusiva. Quasi vent'anni di ricerche che rischiano di andare in fumo. o, comunque, tali da allertare chi da anni studia questa malattia con «vantaggi» non indifferenti per i laboratori impegnati.
Due esperimenti che addirittura lasciano a bocca aperta gli scienziati: «E' accaduto il contrario di quanto previsto - dicono al quotidiano americano Washington Post i virologi dell'università di Harvard a Boston - chi è stato vaccinato rischia due volte di più di infettarsi di chi ha ricevuto il placebo».
I risultati sono stati presentati lo scorso settembre. E Step e Phambili (cosi si chiamano le due avventure vaccinali partite sull'uomo nel 1998) hanno ricevuto un secco stop. Così come altri sette trial parti-, ti in seguito e progettati con gli stessi crismi dei primi due. Entrambi dovevano arrivare a 3.000 volontari. Lo Step (prevalentemente destinato agli omosessuali) in Sud America, nei Caraibi e in Australia (si era appena arrivati a completare l’arruolamento); il Phambili (che in lingua Xhosa, uno degli idiomi sudafricani, significa «muoversi in avanti») in Sudafrica dove già era stato avviato su 8oi persone. Solo per questi due esperimenti fermati sarebbero stati bruciati 35-4o milioni di dollari, esclusa la ricerca. Degli altri sette test vaccinali nemmeno si parla.
L'ipotesi di questo tipo di vaccino, sviluppato dal colosso, farmaceutico Merck, è stata quella di agganciare su un ceppo del virus del raffreddore (l’adenovirus tipo 5) disattivato un antigene del virus dell'Aids. I vaccinati avrebbero dovuto sviluppare difese specifiche contro l'Hiv in modo da bloccarlo subito.
Che cosa sarebbe successo nella realtà? Per Ronald Desrosiers, genetista molecolare di Harvard, il vaccino avrebbe si stimolato le difese, aumentando quelle cellule deputate a distruggere i nemici. Peccato che «queste cellule sono anche il bersaglio ottimale per l'Hiv». Ecco allora che il «micidiale» virus avrebbe trovato, nei vaccinati, pane per i suoi denti. Cioè un «pascolo» addirittura più ricco. Quindi? Dice Desrosiers sconsolato: «A questo punto non sappiamo come preparare un vaccino efflcace».
Occorre vedere che cosa accadrà ora nei vaccinati. La stranezza è che i test sulle scimmie avevano funzionato: gli esperimenti però sono stati effettuati su pochi esemplari essendo i primati cavie molto costose. E, forse, l'Hiv scimmiesco non reagisce allo stesso modo di quello umano.
La prossima settimana un vertice di scienziati esaminerà il problema. E l’Nih (gli Istituti di salute pubblica americani) di Baltimora già parla di rivedere le strategie: i. 497 milioni di dollari previsti quest'anno per la ricerca sui vaccini potrebbero cambiare destinazione. Nel mondo si stanno portando avanti almeno altre 3o sperimentazioni con vaccini, uno italiano, alcuni impostati in modo diverso da quelli statunitensi. ..
Quanto accaduto, però, offre osservazioni interessanti. Questo è, per esempio, il parere dei ricercatori della Merck. Ed è anche il parere di Anthony Fauci, capo dell'Istituto per le malattie infettive dell'Nih: «Bisogna continuare nei test, facendo ovviamente tesoro di quanto emerso da Step e Phambili».
Mario Pappagallo
LA SCHEDA
I VACCINI Ci Sono due le sperimentazioni di vaccini anti-Aids arrivate alla cosiddetta fase 3, quella condotta su molti soggetti
GLI STUDI Quelli su vasta scala sono due: II primo in Thailandia (2.500 soggetti), il secondo in Usa, Canada, Portorico e Olanda (4.500)
Il SISTEMA Si basa sull'inoculazione di porzioni della proteina Gp120 nell'involucro del virus. Previste 7 iniezioni in 3 anni
I RISULTATI
Non sono buoni. In uno dei due esperimenti, chi é stato vaccinato rischia due volte di più di infettarsi di chi ha ricevuto il placebo

VAIOLO: LA MINACCIA È NEL FREEZER

Il Sole24Ore 20 mar. ’08

VAIOLO: LA MINACCIA È NEL FREEZER

Dichiarato morto nel 1977, il vaiolo è conservato ufficialmente in due
laboratori
DI UMBERTO RAPETTO
Qualche anno fa Richard Preston pubblicò il libro «The Demon in the Freezer», il cui titolo denunciava l'ibernazione di uno scomparso eccellente: il vaiolo. Era il 2002 e il mondo del web era già forte da diffondere e perpetuare una simile informazione. Se qualcuno aveva pensato di regalare una pur inerte immortalità al ferale virus, qualcun altro ha simultaneamente ritenuto di cristallizzare un insieme di dati che rimarcassero la pericolosità di certi "giochi" con ordigni naturali come il "variola maior".
Scomparso ufficialmente nel 1977, "ucciso" dagli studi del dottor Donald Ainslie Henderson e del suo team di ricercatori, il vaiolo è destinato a rappresentare comunque una minaccia. La sua conservazione - motivata da esigenze scientifiche e proiettata alla salvaguardia di una entità altrimenti relegata nelle più dolorose pagine di storia-tiene il mondo con il fiato sospeso: la pietra tombale su cui si leggeva 27 ottobre 1977 (giorno in cui è stato registrato l'ultimo caso di infezione naturale in Somalia, vittima il signor Ali Maow Maalin) è pericolosamente scoperchiata. Quel micidiale virus è tenuto in vita nei laboratori chimici di Atlanta e Kolzovo, dove - oggetto di numerosi esperimenti -sarebbe addirittura stato potenziato artificialmente. La ragione di tali iniziative risiede, secondo tanti microbiologi, nell'esigenza di continuare a studiarlo in prospettiva di una sua eventuale ricomparsa: l'incubo del bioterrorismo incombe e non ci si può far trovare impreparati in caso di aggressione. Accanto a questo timore, a indirizzare a non distruggere tecnicamente il vaiolo, c'è che questo conserva nel proprio patrimonio genetico la chiave di una morbo mortale e, in futuro, potrebbe contribuire a sconfiggere altre malattie tra cui l’Aids.
Oltre a "tramandare" agenti patogeni, il mondo della ricerca scientifica e quello delle istituzioni preposte alla salvaguardia collettiva hanno predisposto piani di informazione estremamente dettagliati, con l'obiettivo di lasciare in eredità - costantemente fruibile -un patrimonio di conoscenze e di esperienze che non può e non deve andare perduto. Negli Stati Uniti, ad esempio, il Center of Diseases Control and Preventioti (www.cdc.gov) e la Federal Emergency Management Agency (www.fema.gov) hanno creato imponenti archivi documentali, parte dei quali - almeno per la porzione divulgabile - sono addirittura consultabili via internet Senza andare poi tanto lontano, anche in Italia ci sono organizzazioni che studiano questi temi come a Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute, istituito presso l'Istituto superiore di sanità (www.epicerltro.iss.it), che custodisce la memoria storica di certi fenomeni e conserva i risultati di ricerche e approfondimenti in materia.
Mentre i laboratori sono presidiati con tanto di vigilanza armata e sofisticate misure di sicurezza,c'è chi teme che non siano altrettanto blindati i sistemi informatici in cui sono stoccate informazioni segrete e qualcun altro ha paura che internet possa consentire terribili sperimentazioni "fai-da-te". Nel 2006 il quotidiano britannico «The guardiarv> ha dimostrato con un'inchiesta giornalistica la possibilità di ordinare via web le sequenze di Dna di affezioni mortali: 33 sterline, 7 di spese di recapito, un nominativo fasullo, un indirizzo di comodo sono bastati per entrare in possesso di una ricetta letale tramite la VH Bio Ltd. Quel pacco portato a domicilio dalla Royal Mail e quella minuscola fiala di gel bianco hanno dimostrato la fragilità del sistema. La lezione si spera sia servita. In caso diverso il problema di eternare qualcosa potrebbe non sussistere per mancanza di eredi...
umberto@rapetto.it

QUANDO GLI ANIMALI ANTICIPANO IL MEDICO

CORRIERE DELLA SERA 15 mar. ’08

QUANDO GLI ANIMALI ANTICIPANO IL MEDICO

Una scoperta in Africa potrebbe aiutare la creazione di un farmaco per combattere la terribile malattia
Così gli scimpanzé curano la malaria
Sono molte le specie in grado di curarsi utilizzando elementi naturali. C'è chi ingurgita intere piante e chi, come una particolare scimmia brasiliana, riesce a regolare le nascite mangiando foglie e frutti particolari
Che gli animali sappiano cavarsela da soli in fatto di medicinali è un fatto oramai assodato. L'etologa Cindy Engel ha raccolto qualche anno fa nel libro «Wild-Health» le testimonianze e le osservazioni sue e di diversi altri scienziati, sulla capacità della fauna di auto curarsi.
COLOBO ROSSO - A Zanzibar, in Tanzania, l'antropologo Thomas Struhsaker ha studiato per sei anni la singolare alimentazione del colobo rosso. Particolare oggetto del desiderio delle dieta di questa scimmia è il carbone nelle sue varie forme: tronchi o rami bruciati o sottratto anche dalle cucine dei locali.
Analisi di laboratorio hanno spiegato il perché di questa predilezione alimentare. Le foglie di piante di mango e di mandorlo indiano, di cui sono particolarmente ghiotti questi primati, sono però particolarmente ricche di fenoli, sostanze che interferiscono con la digestione degli animali. II carbone annulla così l'effetto indesiderato di queste molecole, permettendo invece l'assorbimento delle preziose proteine delle foglie da parte dell'organismo.
BONOBO E GORILLA - In Africa sono circa 30 le piante utilizzate da bonobo, gorilla e scimpanzé, per liberarsi dei fastidiosi parassiti intestinali. Quelle del genere Aspilia vengono ingerite intere; una volta nell'intestino agiscono probabilmente come un velcro, strappando quindi con un'azione meccanica i parassiti, indeboliti dalla tiarubrina A, una molecola contenuta nel vegetale.
L'aspetto curioso è che le popolazioni locali fanno ricorso alle stesse piante, utilizzate dai gorilla e dai loro cugini, per trattare altre diverse patologie come la dissenteria, ulcere, febbri. I gorilla di montagna, che vivono in Uganda sulla catena dei monti Virunga, mangiano la cenere vulcanica per procurarsi i minerali, come il calcio e il potassio, indispensabili per mantenersi in salute.
ELEFANTI - Le caverne alle pendici del monte Elgon, in Kenia, sono frequentate invece da bufali e elefanti, che si procurano così preziosi sali minerali contenuti nelle rocce per integrare la loro dieta, povera di queste sostanze.
Gli animali ricorrono alle piante anche per questioni "ginecologiche". Le femmine di muriqui, una scimmia che vive in Brasile, si nutre delle foglie di Apuleia leiocarpa e di Platypodium elegans che contengono isoflanoidi, per evitare sgradite gravidanze e, all'opposto, dei frutti di Enterlobium contortiliquim per rimanere incinte. Alcune piante della famiglia delle Boraginaceae faciliterebbero invece il parto degli elefanti.
CEBI CAPPUCCINI - Lo storno costruisce il proprio nido inserendo parti di alcune piante, come la carota selvatica (Dauscus carota) che contiene il B-sitosterolo, uno steroide che agisce come repellente e protegge quindi i piccoli dalla sgradita presenza di acari e di altri parassiti. In Costa Rica i cebi cappuccini impastano con la saliva steli, foglie e semi di piante appartenenti ai generi Citrus, Clematis e Iiper. Il prodotto così ottenuto viene spalmato poi sul pelo per trattare le irritazione della pelle o per tenere a bada gli insetti. Non tutti gli animali, poi, scelgono e mangiano certe piante per stare in salute: l'orso labiato mastica i fiori fermentati delle saponacee per provare un piacevole stato di ebbrezza. R.F.

ORSO LABIATO
Mastica i fiori fermentati delle saponacee per provare uno stato di ebbrezza.
Usano allucinogeni anche renne, scimmie ed elefanti.
BUFALO
Va in cerca di caverne per procurarsi (leccando) sali minerali contenuti nelle rocce per integrare la sua dieta, povera di queste sostanze.
STORNO
Lo storno costruisce il proprio nido inserendo parti di alcune piante, come la carota selvatica che protegge piccoli dai parassiti
LA TRICHILIA RUBESCENS è una pianta tropicale delle proprietà antimalariche ma cura altre patologie: dai problemi polmonari, ' alle malattie veneree `

Cabaret a Note Dementi


Dopo l'intervista dei Jalisse e l'amichevole visita di Elisa, a Note Dementi torna di scena la comicità con Angelo Da Re!
Barzellettiere radiofonico di Bella e Monella-Birikina-Sorriso, imitatore e animatore di feste e karaoke di piazza, nonché autore e interprete di alcuni dei nostri spot radiofonici, Angelo torna da noi accompagnato dal giovanissimo ed eclettico aiutante Matthew, provetto batterista.

Angelo - un uomo, mille voci - leggerà l'oroscopo "al contrario" ai nostri ascoltatori, cioè verificandolo a fine giornata. Informiamo gli ascoltatori d'oltreoceano che tra le molteplici situazioni, Angelo si è trovato a collaborare anche con l'Associazione "Trevisani nel Mondo".

Noi siamo lieti di averlo avuto come ospite di passaggio alla Cena Demente 2007 mentre tornava da un impegno televisivo.

Buon divertimento, dunque, venerdì 28 marzo 2008 dalle 20 alle 22.

mercoledì 26 marzo 2008

Morti due soldati e altri 17 ricoverati L’infezione presenta sintomi simili alla Sars

L'UNIONE SARDA DEL 01/08/2003

Morti due soldati e altri 17 ricoverati L’infezione presenta sintomi simili alla Sars

Washington Una strana malattia simile alla Sars sta creando allarme fra le file dei soldati americani in Iraq. Sinora sono stati registrati 19 casi, due con esito letale. Tutti i militari colpiti dalla malattia, che presenta alcuni sintomi simili a quelli della polmonite atipica, sono stati trasferiti all’ospedale Landstuhl, nella grande base aerea di Ramstein, in Germania. Il generale James Peake, comandante del servizio sanità delle forze armate statunitensi, ha disposto che vengano effettuate accurate indagini per ricostruire i movimenti dei militari dal primo momento del loro arrivo in Iraq.

Uno dei due soldati uccisi dalla malattia era originario della zona del Lago degli Ozarks, in Missouri. Si chiavama Josh Neusche, aveva 20 anni e, a quanto riferisce il quotidiano locale “Lake Sun”, è morto il 12 luglio nell’ospedale Landstuhl. Secondo il giornale aveva contratto la malattia, che inizialmente si pensava fosse la Sars, mentre era impegnato in operazioni di bonifica a Baghad con il 203° Battaglione del Genio. Oltre a lui si sarebbero ammalati altri 3-4 militari dello stesso reparto. I genitori del soldato morto, Cindi e Mark Neusche, sarebbero arrivati in Germania il 9 luglio, quando il figlio era ormai in condizioni critiche (la malattia aveva devastato i muscoli, il fegato e i reni del figlio). Il ragazzo si è spento mentre era in un’ambulanza per essere trasferito al reparto per la dialisi. Il giornale del Missouri parla di due morti provocati dalla misteriosa malattia ma non dice chi sia la seconda vittima.
I 19 soldati americani colpiti dal male misteriorso mentre prestavano servizio in Iraq sono stati ricoverati all’ospedale della base Usa di Ramstein. Dei 120 mila soldati americani stazionati in Europa, oltre 70 mila sono dislocati in Germania: 38 mila, compreso il personale civile, fanno parte della base militare di Ramstein, la più importante di quelle al di fuori dei confini degli Stati Uniti, a pochi chilometri da Francoforte, nel Land della Renania-Palatinato. A 5 chilometri dalla base di Ramstein si trova l’ospedale militare americano di Landstuhl, punto di arrivo di tutti i militari americani rimasti feriti nella prima guerra del Golfo e in quella che nell’aprile scorso ha portato alla caduta di Saddam Hussein. In tempo di pace l’ospedale dispone di 150 letti, portati a 300 prima che iniziassero le passate operazioni militari contro l’Iraq. Il personale dell’ospedale comprende 1.800 persone, delle quali 120 sono medici e 400 infermiere.

Nell’ospedale di Landstuhl, che dispone di attrezzature medico-chirurgiche sofisticatissime, vengono eseguite operazioni di ogni tipo, ma una delle specializzazioni principali consiste nel trattamento delle ustioni di ogni genere, in particolare di quelle prodotte in caso di guerra. È in questo ospedale che sono stati curati anche i feriti americani e alleati in Afghanistan: fra le più illustri, la soldatessa Jessica Lynch, 19 anni, che fu liberata grazie all’intervento di un iracheno che la consegnò ai commilitoni dopo che era stata fatta prigioniera dalle truppe di Saddam.

L’unico dato certo sul male misterioso che ha colpito i 19 militari Usa è che non si tratta della sindrome del Golfo che dopo la prima guerra contro Saddam colpì americani e, soprattutto, inglesi mandati al fronte senza poter disporre di particolari protezioni. Nelle famiglie dei reduci sono state registrate anche nascite di bambini con gravi malformazioni.



L'UNIONE SARDA DEL 01/08/2003

L'ombra delle armi chimiche

31/12/2000 - LA REPUBBLICA
L'ombra delle armi chimiche

Mattarella: "Sulle morti dei reduci di Bosnia,indagini a 360 gradi"

di GIOVANNA CASADIO

ROMA - Non è solo l'uranio il killer dei militari italiani utilizzati in missione di pace nell'ex Jugoslavia. I diecimila proiettili radioattivi usati dalla Nato in Bosnia nel '95, i 31 mila sparati in Kosovo nel '99 non sono gli unici responsabili. Il ministro della Difesa italiano, Sergio Mattarella, ha ammesso ieri che "non si trascura alcuna ipotesi sulle ragioni che potrebbero aver portato la presenza di malattie tra i militari che si sono recati nell'area balcanica".
Se è la "sindrome dei Balcani" a uccidere decine di reduci in tutta Europa, evidenti sono le analogie con i "casi" verificatisi dopo la guerra del Golfo nel '91 e ugualmente non è da escludere che a determinare gli effetti devastanti possa essere stato l'uso di armi chimiche. Per i Balcani insomma la stessa ipotesi che si fa già da anni per l' Iraq?
Per il ministro della Difesa italiano è una fine d'anno senza tregua, dopo l'annuncio che un altro carabiniere - il quinto reduce italiano dalla Bosnia - è morto di cancro, e mentre la Procura militare allarga a altri dieci casi l'inchiesta sulla "sindrome dei Balcani": il dossier del pm Antonino Intelisano conterrebbe ora trenta nomi. Si limita ad affermare Mattarella che l'indagine sarà svolta a 360 gradi. E in una nota ricorda la commissione sanitaria da lui insediata due settimane fa, "guidata da uno scienziato di alto profilo come l'ematologo Franco Mandelli alla quale è stato dato mandato pieno per qualunque pista di indagine e di accertamento al fine di appurare la verità e garantire la sicurezza dei militari in Italia e all'estero". Nulla sarà tralasciato. Prima di tutto di individuare se esiste o meno un collegamento tra i vari casi e, in caso affermativo, con la presenza sul terreno di contaminazioni radioattive.
Nè esclude il ministro la possibilità di uno screening tra i militari inviati nei Balcani, una volta che la commissione Mandelli abbia espresso il proprio parere entro la metà di gennaio. Screening già avviato in Portogallo e in Germania. La "sindrome dei Balcani" è diventata infatti un caso politico europeo.
La Nato dichiara che mancano prove di un nesso tra morti e missioni nei Balcani, ma ambienti militari assicurano che in un dossier top-secret si vanno raccogliendo prove sull'uso di armi chimiche in quell'area.
Dal ministro della Difesa belga, Andrè Flahaut, in una lettera inviata al collega svedese Bjorn von Sydow, paese che da domani assume la presidenza di turno della Ue, è partita la proposta di analizzare il delicato problema a livello europeo. Finora nessuna risposta ufficiale. Un portavoce della Commissione Ue ieri non ha voluto commentare l'iniziativa, e il ministero della Difesa svedese si riserva di pronunciarsi dopo aver letto la lettera. Dall'Italia una sostanziale adesione: "Sarà certamente utile la possibilità di confrontare i risultati delle indagini svolte dagli altri paesi in cui ci sono stati casi simili", commenta Matterella.
Intanto cresce l'allarme anche in Italia per la "sindrome dei Balcani". Ieri è arrivata la precisazione del comando dei carabinieri di Varese che nega ci sia un nesso certo tra la morte del carabiniere Rinaldo Colombo e la sua missione in Bosnia. Colombo, 31 anni, due spedizioni di pace nei Balcani è morto per un melanoma, precisano i suoi superiori. "Nessun allarmismo, ma massimo allerta", è l'invito del Cocer dei carabinieri. Però "Unarma", l'associazione che ha diffuso la notizia della morte di Colombo, dichiara che altri quattro carabinieri (tra cui un ufficiale) tornati di recente dai Balcani, potrebbero essere stati contaminati dall'uranio impoverito. Sarebbero almeno venti i militari dell'Arma sottoposti a controlli, anche se la metà a puro titolo precauzionale. Il numero dei casi sospetti continua a crescere.
Alla ripresa dell'attività parlamentare, martedì 9 gennaio, è stato subito convocato l'ufficio di presidenza della commissione Difesa della Camera sulla "sindrome Balcani". Il presidente, Valdo Spini rivendica il ruolo ispetivo del Parlamento e annuncia un'indagine conoscitiva per stabilire a) cosa si sa sulle conseguenze della presenza di uranio impoverito nella guerra del Golfo del 1991; b) chi sapeva dei proiettili a uranio impoverito in Bosnia nel 1995 (i militari sapevano e i politici no?); c) quali precauzioni sono state prese per la spedizione in Kosovo del 1999; d) vanno acquisiti i risultati della commissione Mandelli. Inoltre, il sottosegratario all'Ambiente Valerio Calzolaio partecipa alla task force Unep (l'organizzazione delle Nazioni Unite per l' ambiente) sulla contaminazione radioattiva del Kosovo.

"Non avevamo le maschere ci hanno nascosto la verità"

31/12/2000 LA REPUBBLICA
"Non avevamo le maschere ci hanno nascosto la verità"

Un carabiniere amico di Rinaldo: "I proiettili all'uranio fondevano i carri armati"

dal nostro inviato ANNALISA CAMORANI

SAMARATE (Varese) - "Rinaldo in divisa, perfetto nel suo metro e novanta e Valentina in abito bianco davanti all'altare. Neanche due anni dopo, la bara portata a spalla dai militari. Nella stessa chiesa a San Macario di Samarate". Due immagini troppo vicine nel tempo che Valentino non riesce a togliersi dalla testa. L'uomo, suocero di Rinaldo Colombo, ripete come un automa: "L'8 novembre mi è morto un figlio". Ma quell'accostamento di immagini non se lo scorda neanche don Giancarlo, il parroco di Sant'Anna a Busto Arsizio (Varese) che per quindici anni è stato amico del militare. "Il 12 dicembre 1998 ho celebrato il matrimonio di Rinaldo. L'11 novembre 2000 il suo funerale". Il parroco, ricordando la malattia del giovane, non pronuncia mai la parola "uranio impoverito", ma alle missioni ci pensa: "Qualche dubbio l'ha avuto. Da malato se l'è chiesto se c'era un nesso tra il melanoma che lo divorava e la Bosnia".
Forse anche Rinaldo ha fatto le stesse considerazioni che oggi fa un altro carabiniere reduce delle missioni di pace e che preferisce l'anonimato: "Non avevamo maschere né guanti. Le uniche tute le ho viste addosso ai genieri dell'esercito perché c'erano le televisioni a filmare. C'erano i ponti bombardati con munizioni radioattive e noi lì davanti a fare la guardia. Ho visto gli effetti dei proiettili all'uranio impoverito sui carri armati colpiti: le carni fuse col metallo delle corazze. E noi lì davanti. Nessuno ci ha messo in guardia sui rischi di una contaminazione. Ci hanno presi in giro tutti, dai generali ai carabinieri semplici".
Il militare era stato in missione due volte, in Bosnia-Erzegovina dal dicembre '96 a marzo '97 e in Albania da aprile ad agosto '97. Quasi un anno dopo si era scoperto un'escrescenza sottocutanea al cuoio capelluto. Poi la biopsia e la scoperta della natura maligna. "La seconda operazione alla gola è stata quella che lo ha buttato veramente giù", ricorda il suocero. "Era un ragazzone alto un metro e novanta, lo abbiamo visto precipitare, un po' alla volta. Sono stati due anni di calvario". Rinaldo e Valentina vivevano a San Macario, frazione di Samarate nella stessa casa dei genitori di lei. Al dolore per la perdita, il padre della vedova somma la preoccupazione per la figlia. "Ha 27 anni - si sfoga l'uomo, gli occhi rossi - e ha bisogno di reagire, di trovare una forza che io, anziano come sono, non riesco a trasmetterle. Per Capodanno voleva stare in casa, da sola. Sono stato io a insistere perché partisse per un po' , ha bisogno di stare con gente giovane". E così Valentina si è rifugiata per qualche giorno da alcuni amici conosciuti nei ritrovi di Cl. Ma don Giancarlo è fiducioso: "Valentina è dolce, sembrerebbe fragile. Invece è una donna consistente, forte".
Anche il padre e la madre di Rinaldo non hanno parole: "E' morto l'8 novembre e per noi è ancora come se fosse qui. La ferita della sua scomparsa è ancora troppo recente. Più avanti forse parleremo, ma in questo momento siamo ancora sotto choc".

Uranio - "Attenti ad una nuova Ustica"

03/01/2001 La Repubblica
Uranio - "Attenti ad una nuova Ustica"

Nelle riunioni dei militari con Mattarella il timore di un caso incontrollabile

di VINCENZO NIGRO

ROMA - "Io credo che non possiamo più aspettare, siamo stati cauti, abbiamo riflettuto, abbiamo provato a lavorare secondo legge e secondo coscienza, ma le cose vanno più veloci della verità che stiamo cercando. Io questa storia l'ho già vista, si chiama Ustica... gli elementi ci sono tutti, per creare qualcosa come una nuova Ustica, un nuovo mistero che finirà fuori controllo, in cui nessuno riuscirà a capire più dove sia il giusto".
Sono le nove del mattino, i carabinieri di guardia a Palazzo Baracchini battono i piedi in terra dal freddo. Su, al primo piano, dietro tre dita di vetri blindati che difendono dal pericolo ma a volte separano dal paese, i capi della Difesa sono alla prima riunione di una giornata assai lunga.
Il capo di stato maggiore Mario Arpino, il generale che comanda tutta la Difesa, siede di fronte a Giampaolo Di Paola, l'ammiraglio che guida il Gabinetto del ministro Mattarella. Si preparano all' incontro che stanno per avere con Sergio Mattarella, il primo di una serie che terrà il ministro bloccato per ore alla sua scrivania. É Arpino che per primo lancia l'allarme sulla "sindrome Ustica": "Qualsiasi cosa facciamo, comunque lo facciamo rischia di ritorcersi contro di noi. Ma se non facciamo nulla, se aspettiamo soltanto i tempi della scienza e delle commissioni rischiamo di fare anora peggio". Già, ma cosa fare? "L'allarme uranio impoverito ormai è vicino a livello da psicosi collettiva, incontrollata e purtroppo incontrollabile", dice una fonti della Difesa che parla con Repubblica: "Forse solo Ciampi o Veronesi potrebbero raffreddare per un attimo la situazione. Ma per ora non lo fanno". Gianfranco Astori, ex deputato, consigliere di Mattarella, fa un altro esempio: "Rischia di essere un altro caso Di Bella, e forse come allora, come col caso Di Bella, dovremo attendere che i tecnici ci dicano la verità su cosa è malattia collegata all'uranio, cose è da far risalire al benzene e cosa invece non c'entra nulla con la Bosnia e il Kosovo".
Alle 10 del mattino Arpino e Di Paola si spostano nello studio di Mattarella, iniziano a discutere, pianificano la missione in Bosnia di domani e quella in Kosovo del sottosegretario Minniti. Mattarella ha una preoccupazione: quella di garantire, di rispettare serenità e serietà di lavoro per la Commissione Mandelli. I militari sono preoccupati per quello che accade alla Difesa italiana nella Nato ("da Bruxelles ancora non capiscono che questa per noi è una questione seria"), per gli effetti sui nostri soldati nei Balcani, per la credibilità del sistema-Difesa nel paese.
Mattarella concorda, dobbiamo muoverci. Ma fissa i suoi punti, e li ripete nel pomeriggio in un'intervista che rilascia al Corriere della Sera: nessuna interferenza col lavoro della Commissione Mandelli, nessuna pressione, nessuna interferenza. Il governo deve capire se le malattie che spuntano in questi giorni sono episodi singoli o collegati fra di loro, se sono riconducibili all'uranio impoverito oppure a vaccinazioni che possono aver indebolito il sistema immunologico di alcuni soldati. Mattarella ripete: Mandelli deve lavorare senza sentire addosso l'angoscia, la pressione dell'opinione pubblica. Come dire: evitare un nuovo effetto-Ustica rispettando i tempi di una commissione in stile Di Bella.

Uranio, un altro morto

03/01/2001 - La Repubblica

Uranio, un altro morto

Militare reduce dalla Bosnia ucciso dalla leucemia: è il sesto

dal nostro inviato ROBERTO BIANCHIN

PAVIA - Sorrideva, il soldato Salvatore, quando i suoi amici l'hanno fotografato a Sarajevo, in divisa, vicino a una mitragliatrice. Era andato in Bosnia due volte, per "guadagnare qualche soldo per la famiglia". Non pensava di tornare malato di leucemia. Il male, un male "particolarmente aggressivo, resistente ad ogni cura", ricorda il medico che l'ha curato, lo ha stroncato in un anno e mezzo. Il nome di Salvatore Carbonaro, 24 anni, siciliano di Floridia, vicino a Siracusa, soldato di leva in forza alla Brigata Garibaldi, morto la notte tra il 5 e il 6 novembre scorso all'ospedale San Matteo di Pavia, si va ad aggiungere alla lista dei militari italiani deceduti al ritorno dalle missioni nell'ex Jugoslavia.
Un elenco di morti sospette per leucemie e tumori contratti dai militari che sono stati nei Balcani, che si allunga ogni giorno che passa: Salvatore è la sesta vittima. La prima, poco più di un anno fa, nel settembre del '99, fu il soldato sardo Salvatore Vacca, colpito anche lui, come gli altri, da una leucemia fulminante. Rinaldo Colombo, carabiniere di Samarate, nei pressi di Varese, tornato anch'egli dalla Bosnia, morì invece, l'8 novembre scorso, per un melanoma. Il sospetto è identico per tutti: che ad uccidere sia stato lo stesso killer spietato e silenzioso, l'uranio "impoverito", che i militari americani (18 mila veterani della guerra contro l'Iraq contaminati dalle loro stesse armi) chiamano "metal of dishonor", il metallo del disonore. Un metallo tossico e radioattivo usato per fare i proiettili e per rinforzare le corazze dei carri armati, degli aerei, degli elicotteri, delle navi e persino dei satelliti. Un nemico invisibile, che nessuno conosceva, da cui nessuno aveva i mezzi per difendersi.
Salvatore, che era sano, che era giovane e forte, ci lavorava accanto a quel nemico mortale. Faceva l'armiere in Bosnia, stava tutto il giorno in compagnia di fucili, mitragliatrici, pallottole e carri, e aveva l'incarico di pulire le armi. Le sgrassava, le lucidava, le teneva in ordine. Quando si ammalò all'improvviso, fu il primo a pensare di aver preso la leucemia per colpa di quelle armi che sparavano i micidiali proiettili all'uranio, o per colpa del benzene che adoperava per lavorare, e lo scrisse nel suo diario. Un atto di accusa lucido, preciso. Aveva anche avviato una causa di servizio per sapere se era stata questa la causa del suo male. Nessuno gli ha mai risposto. Quando si è ammalato l'hanno congedato. Congedato e basta, senza occuparsi più di lui, lasciato solo a lottare con la morte.
Salvatore faceva il militare a Persano, vicino a Salerno, quando nell'98, a soli 22 anni, decise di partire per la Bosnia. Una missione di due mesi, filata via liscia, senza problemi, senza malattie. Era addetto al servizio vettovagliamento. Nel dicembre dello stesso anno decise di tornare a Sarajevo. Gli servivano per aiutare la sua famiglia quei soldini in più che danno ai militari quando vanno all'estero in missione. La sua seconda volta in Bosnia dura tre mesi, fino a febbraio del '99, ma stavolta cambia lavoro: non più viveri ma armi. Viene destinato all'armeria. E' lì, mentre pulisce i cannoni, che si fa fotografare dagli altri soldati. Non pensa certo di correre dei rischi. Ma è lì, probabilmente, che si ammala. Perché tre mesi dopo il suo ritorno in Italia, nel maggio '99, mentre sta continuando il suo servizio militare, sempre a Persano, avverte i primi sintomi del male che lo strapperà alla vita. La diagnosi non lascia scampo: leucemia. Lo congedano senza un grazie.
E qui comincia il suo calvario. All'inizio di maggio viene ricoverato una prima volta all'ospedale di Siracusa, poi a metà del mese, vista la gravità della situazione, si rivolge a un ospedale specializzato, il San Matteo di Pavia, dove per diciotto mesi combatte la sua battaglia contro il male, fino ad arrendersi, la notte fra il 5 e il 6 novembre.
"Me lo ricordo bene quel ragazzo - dice il professor Mario Lazzarino, direttore della divisione Ematologia dell'ospedale San Matteo - ha combattuto fino alla fine, come ha potuto. La sua vicenda ci ha colpito molto, e ci ha toccato tutti". Il medico racconta di una leucemia acuta, particolarmente aggressiva e resistente: "Ci siamo trovati di fronte una malattia piuttosto refrattaria alle cure: abbiamo tentato una chemioterapia intensiva, ma dopo una risposta iniziale positiva, c'è stato un aggravarsi delle condizioni, e quindi una ricaduta fatale". Però è cauto, il professore, sulle cause della leucemia: "Non è possibile stabilire a priori un nesso tra la morte del militare e la sua permanenza in Bosnia".
Non l'hanno aiutato, Salvatore, neanche per i funerali. La notte che morì, suo fratello Mauro, che lo assisteva, fu derubato del portafogli. Dentro c'erano tre milioni e mezzo, quelli per le esequie. Per pagargli il funerale hanno dovuto fare una colletta in ospedale.

RAADARISTI A RISCHIO DEL CANCRO!

IL NUOVO - 15/01/2001

RAADARISTI A RISCHIO DEL CANCRO!

BERLINO - Sessantanove malati di cancro, di cui 24 già morti, e forse si tratta solo della punta di un iceberg. Un autentico bollettino di guerra giunge dalla Germania, questa volta però sotto accusa non sono i proiettili all’uranio impoverito, ma normalissimi radar militari. Finora, almeno ufficialmente, ritenuti innocui. A lanciare l’allarme è stata il secondo canale televisivo pubblico “Zdf”: l’emittente cita uno studio - in un primo tempo negato, poi confermato dallo stesso ministro della Difesa Rudolf Scharping - che dimostra scientificamente come nel corso di 25-30 anni i militari addetti ai radar siano stati esposti, senza alcuna protezione, a raggi X, un “sottoprodotto” dei raggi emessi dal radar. I risultati sono gravi danni alla salute dei soldati, i sessantanove casi rintracciati sono soltanto un campione, complessivamente il numero di militari esposti in questi anni alle radiazioni si aggira intorno alle 900 unità. L’età media delle morti di cancro - si parla di leucemia, tumori cerebrali, cancro ai nodi linfatici, carcinomi polmonari - è di soli 40 anni.

Secondo lo studio citato dalla “Zdf”, già alla fine degli anni Cinquanta la Bundeswehr era al corrente dei rischi per i soldati, ma non aveva mai preso alcuna misura di protezione. Ancora negli anni Novanta i valori massimi sono stati superati ad esempio nel sistema di difesa Patriot.

“Con sicurezza - si legge nello studio - si può affermare che le soglie di tolleranza massima sono state ampiamente superate. I soldati non sono stati né informati né protetti”. Secondo la “Zdf” lo studio era già da due anni in possesso delle autorità militari, che però l’avevano tenuto sotto chiave.

Una pesantissima accusa, cominciano a fioccare le denunce degli ex milari danneggiati. Il primo è l’ex sottoufficiale addetto ai radar Peter Rasch, oggi cinquantanovenne, che negli anni Sessanta si ammalò 39 volte in soli quattro anni, i medici non riuscirono mai a trovare le cause. Più tardi al sottoufficiale fu scoperto un tumore al polmone, fortunatamente guarito da una tempestiva chemioterapia. Rasch ha in mano documenti che dimostrano che già nel 1958 il suo posto di lavoro era stato ispezionato dalle autorità locali, raccomandando ai vertici militari di porre protezioni di piombo intorno alle apparecchiature. Ancora nel 1992 una misurazione aveva rivelato valori 15 volte superiori ai livelli di guardia.

Il ministro Scharping ha ammesso l’esistenza dello studio: “Il numero dei casi registrati è davvero drammatico” - ha detto. Scharping ha chiesto che i tempi dei tempi brevi per i risarcimenti, ma ha difeso il suo dicastero: “Già nel 1962 - ha detto - furono diramate istruzioni di protezione, riprese dalla Nato nel 1978 e solo nel 1984 dalle autorità civili”.
Adesso però si pone un dubbio drammatico: gli impianti radar tedeschi sono spesso analoghi a quelli usati in altri paesi della Nato, Italia inclusa. E se anche altrove non fu usata alcuna protezione, il caso tedesco dei radar potrebbe diventare - come già mucca pazza e i proiettili all’uranio - un caso europeo.

martedì 25 marzo 2008

«Acqua pubblica», sindaci in rivolta

«Acqua pubblica», sindaci in rivolta

di Andrea Palladino

Il Manifesto del 15/03/2008

Nonostante la campagna per la moratoria e 400 mila firme raccolte per la legge sulla ripubblicizzazione, il tema non è entrato in nessun programma elettorale. E nessun esponente dei movimenti sarà in parlamento Amministratori di piccoli comuni riuniti a Bassiano (Latina) per organizzare la resistenza alle privatizzazioni

Parlare di acqua è parlare, prima di tutto, di democrazia. Se ne stanno accorgendo i sindaci in Italia, gli amministratori di piccoli paesi che si sono visti sottrarre il controllo della risorsa primaria da aziende con sedi lontane, lontanissime. Oggi Vincenzo Avvisati, sindaco di Bassiano, paese di 1000 abitanti arroccato sulle montagne che circondano la pianura pontina, non sa più a chi rivolgersi se l'acquedotto non funziona. E allora ha aperto le porte del Comune agli altri sindaci che come lui hanno deciso di resistere, di indossare la fascia tricolore e di sfilare in prima fila per la battaglia per l'acqua pubblica. Proprio a Bassiano, divenuto simbolo della resistenza alla gestione della società Acqualatina, controllata dalla francese Veolia, si è così aperta la tre giorni voluta dai comitati di Latina e dal Forum nazionale per l'acqua pubblica. Domenica si concluderà con una manifestazione nazionale ad Aprilia, dove i cittadini riuniti in un comitato spontaneo da tre anni contestano la privatizzazione voluta nel 2003 dall'amministrazione di centrodestra.
Vincenzo Avvisati è forse divenuto un simbolo anche per i suoi modi pacati, sornioni. «La vera Europa nasce da noi piccoli comuni, dalla nostra voglia di democrazia, di rappresentare i bisogni quotidiani dei nostri cittadini», dice con decisione. Bisogni come l'acqua, che un mese fa è stata sottratta d'impero alla gestione comunale. Beni comuni, che riportano l'ago della bilancia politica nel vivere quotidiano, nella difesa dell'essenziale della vita.
La privatizzazione non è solo una questione di tariffe. Il movimento per l'acqua pubblica rilancia la sfida, dopo la moratoria ottenuta dal governo Prodi, fortemente a rischio con l'aria di nuove privatizzazioni che gira. «Se facciamo due conti - racconta Roberto Lessio, di Legambiente Latina - moltiplicando il fatturato di un gestore dell'acqua per i 90 Ato costituiti in Italia, ci rendiamo conto che la cifra in ballo è enorme». Miliardi di euro quelli dell'acqua che, per la logica del mercato, qualcuno ha voluto togliere ai cittadini e ai municipi per affidare alle multinazionali, ai fondi d'investimento, alle banche d'affari. Proprio il sindaco Avvisati mostra una lettera della Banca d'Italia, arrivata al Comune ieri. Acqualatina ha chiesto un mutuo alla banca irlandese Depfa, senza dire nulla ai Comuni, titolari degli impianti idrici. E loro, i sindaci in rivolta, hanno preso carta e penna ed hanno chiesto spiegazioni. La Banca d'Italia avvierà una procedura per «chiedere chiarimenti all'intermediario», ricordando al sindaco di Bassiano che «potrà rivolgersi, se del caso, all'autorità giudiziaria per la tutela degli interessi che ritenga lesi». Una piccola vittoria, ma non basta. Proprio nel giorno del convegno su «Acqua e democrazia» di Bassiano, l'ufficio stampa manda ai giornalisti il documento tecnico di presa in consegna degli impianti. «Rendiamo noto lo stato di completo deterioramento in cui si trovano gli impianti di Bassiano», scrive l'amministratore delegato Morandi, ritornato al suo posto dopo gli arresti domiciliari e accuse pesanti fatte dalla Procura di Latina. Come a dire che ora con i manager francesi l'acqua del Sindaco sarà più buona.
A colpi di project financing, di mutui, di consigli d'amministrazione lontani migliaia di chilometri dai bisogni della gente, l'Italia rischia di fare un outsorcing della democrazia.
La battaglia per ridare dignità al quotidiano dei cittadini, la battaglia dei sindaci sta però lentamente crescendo. Prima Bassiano, poi il Comune di Formia, che a fine 2007 ha deciso di richiedere indietro le chiavi dell'acquedotto ad Acqualatina, poi Pontinia, poi in Campania la città di Nola, che ha deliberato l'uscita dalla Gori Spa gestita dalla multinazionale romana Acea. Tanti altri sindaci che stanno resistendo alla consegna degli impianti alle società per azioni. Un movimento forse inedito nel panorama politico italiano, che parte dalle piccole città, dove il rapporto tra primo cittadino e abitanti è ancora diretto, e quindi politico nel senso più nobile. Fatto di discussioni nelle piazze, di fiducia che non può essere tradita, lontano dai consigli di amministrazione e dai gettoni di presenza.

La multinazionale dell'oro blu rischia di finire a maggioranza privata

La multinazionale dell'oro blu rischia di finire a maggioranza privata

di And. Pal.

Il Manifesto del 15/03/2008

E con le elezioni a Roma si gioca il futuro dell'Acea

Con più di 8 milioni di utenti Acea spa domina oggi il mercato dell'acqua in Italia, preparandosi sempre più a gestire gli altri servizi ambientali. Con un utile che fa volare in borsa le azioni e prospettive di ulteriore espansione (da tempo si parla di fusione con la bolognese Hera), l'ex municipalizzata romana è di fatto oggi una multinazionale che pesa, anche a livello politico.
Quanto valgono i beni comuni infatti lo hanno capito perfettamente da tempo le grandi multinazionali dell'acqua e dell'ambiente, che oggi controllano gran parte del mercato mondiale. Suez fornisce «l'essenziale per la vita», Veolia, più prosaicamente, parla di «industria dell'ambiente». Modelli nati in Francia, ma che hanno un peso sempre più evidente anche per l'Italia delle privatizzazioni e per la città di Roma che deve scegliere ad aprile un sindaco che peserà molto sul futuro dell'intero paese.
In questo contesto il colosso francese Suez, da queste parti, significa il principale partner di Acea, l'ex municipalizzata controllata al 51% dal Comune di Roma. Nel suo Cda siedono manager del calibro di Jean Louis Chaussade, già rappresentante di Suez in Argentina nell'epoca del «saccheggio» - magistralmente raccontato dal regista Solanas - e del crollo dell'economia selvaggiamente liberista dell'ex presidente Menem.
L'alleanza tra Acea e Suez non è semplicemente un accordo industriale. E' lo specchio di una vera e propria spartizione del mercato dell'acqua in Italia, che l'antitrust - proprio a proposito degli accordi delle due società di Parigi e di Roma - ha censurato come contrario alle regole della libera concorrenza. Un'alleanza iniziata dalla Toscana, la madre di tutte le privatizzazioni dell'acqua.
Emanuele Lobina, ricercatore del Psiru presso l'Università di Greenwich, che da molti anni si occupa proprio del modello di gestione dell'acqua in Italia, in Europa e nel mondo parlava di una possibile spartizione del mercato italiano già nel 2003: «Nel caso italiano, anche se i partner locali hanno avuto un ruolo più sostanziale - scriveva in un rapporto per il progetto di ricerca Water Time - è possibile osservare l'emergere di aree d'influenza, con la Toscana che appare essere diventata la riserva di Suez e dei suoi partner (cioè Acea, ndr) e le concessioni del Sud dominate da Veolia e dai suoi soci italiani».
Acea si quota in Borsa nel 1998 e da allora comincia ad affacciarsi sul mercato nazionale. Suez capisce che non può perdere il mercato italiano che gli analisti giudicano estremamente interessante. Le due società si incontrano per la prima volta da concorrenti nella prima gara per la gestione industriale voluta dalla legge Galli, quella di Arezzo, del 1999: «E' un vero spartiacque. Dopo questo affidamento - commenta Lobina - Veolia non presenta più offerte per le altre gare toscane, concentrandosi sul Sud Italia, a partire dall'appalto per la scelta del socio privato a Latina». Ad Arezzo vince la Suez, anche se la tariffa proposta era più alta rispetto ai concorrenti, mentre Acea viene esclusa, perché non avrebbe avuto le dimensioni necessarie richieste dal bando.
Tra il 1999 e l'inizio del 2001 si gioca la partita delle alleanze per la spartizione del mercato idrico italiano. Veolia nel 1999 aveva già individuato nel gruppo Pisante il partner locale indispensabile per entrare in Italia. Nel 2001 comincia una trattativa serrata tra i vertici di Acea e di Suez, che porterà l'anno successivo ad un accordo di ferro. Il 12 novembre del 2001 la direzione di Suez a Parigi manda ad Acea un fax con una bozza d'accordo per partecipare congiuntamente alle gare in Toscana e all'estero. Un accordo che prevedeva l'entrata di Suez nel gruppo degli azionisti privati: «Studiare, di concerto con il management di Acea e con l'assenso del Comune di Roma, l'acquisizione da parte di Ondeo (oggi Suez, ndr) di una partecipazione significativa in Acea, nelle forme, nei tempi e con le modalità che, nel tempo verranno individuate». Un accordo da siglare con il placet politico del Campidoglio, ma che doveva rimanere segreto, come ha evidenziato recentemente l'antitrust. Il 2002 è l'anno della svolta. La crisi argentina - che il consigliere di Acea Chaussade conosce bene - porta Suez a puntare ad una diversificazione, riducendo l'esposizione latinoamericana. I capitali rientrano velocemente, l'Italia diventa la nuova frontiera di conquista.
Oggi gran parte dell'acqua in Toscana è gestita dalla cordata italo-francese e la società guidata da Gérard Mestrallet possiede circa il 9% delle azioni di Acea e nomina due dei nove consiglieri di amministrazione, mentre Fabiano Fabiani, presidente della società romana, siede nel Cda di Suez Environnement.Con le elezioni di aprile si gioca anche la partita del futuro di Acea, che molti vorrebbero ancora più aperta al mercato. Il Pdl e l'Udc parlano chiaramente di ridurre la quota del Comune di Roma, facendola scendere al di sotto del 51%. Rutelli per ora non si esprime. Il suo ruolo, però, potrebbe essere fondamentale, visto che fu lui a guidare la quotazione in Borsa della multinazionale romana.

I predatori di oro nero 5 anni dopo la guerra

I predatori di oro nero 5 anni dopo la guerra

di Sabina Morandi

Liberazione del 23/03/2008

Shell, Chevron, Exxon Mobil, il petrolio iracheno fa gola alle company, ma i contratti sono ancora al palo: troppa insicurezza

Sono almeno due anni che la Royal Dutch Shell collabora con il governo di Baghdad nello stilare piani per lo sfruttamento dei giacimenti iracheni vecchi e nuovi. Eppure nessun funzionario della più grande compagnia petrolifera europea ha mai messo piede in Iraq: ci si parla in teleconferenza e ci si vede una volta al mese ad Amman, in Giordania.
La Shell non è la sola a marcare il petrolio iracheno a distanza: dalla BP alla Chevron passando per ExxonMobil, tutte le grandi firme internazionali tenute lontane da Saddam oggi sono fermamente intenzionate a mettere le mani sul premio più ambito, quei giacimenti a lungo sottosfruttati - per via delle sanzioni - che i geologi considerano l'ultima grande riserva planetaria di oro nero. Nessuno può affermare con sicurezza che nel sottosuolo iracheno si trovino davvero più barili di quanti ne possiede l'Arabia Saudita come sostengono i depliant delle compagnie, ma una cosa è certa: su 80 pozzi scoperti solo 27 sono attivi e, con tecnologie più moderne, potrebbero pompare ben più di quei 2 milioni e mezzo di barili al giorno che sono la produzione odierna.
Il problema è che per sfruttare meglio i giacimenti vecchi, mettere in funzione quelli già individuati e scoprirne di nuovi, ci vogliono parecchi milioni di dollari ma nessuno ha intenzione di investire se non vengono risolti due o tre problemi fondamentali: la sicurezza, innanzitutto, ma anche un vuoto normativo che può essere una grande opportunità per gli investitori senza scrupoli, ma che può facilmente trasformarsi in un boomerang. L'attuale situazione di stallo è dovuta al fallimento di una mossa estremamente ardita e un tantino piratesca, che era stata preparata con cura dalla cricca di Bush - in particolare dal vicepresidente Dick Cheney - parecchi mesi prima della guerra. Con l'istituzione del Gruppo di lavoro sul petrolio e l'energia del Dipartimento di Stato, riunitosi almeno quattro volte fra il 2002 e la primavera del 2003, quando cominciò l'attacco, il vicepresidente aveva avuto la brillante idea di far incontrare i capi dell'industria petrolifera e gli oppositori al regime di Saddam candidati alla sua successione, almeno secondo i piani di Washington.
L'idea era di mettere le mani su una delle più importanti riserve del Medio Oriente - regione da cui proviene il 60 per cento del petrolio mondiale - rispolverando quei contratti di stampo coloniale (i Productions sharing agreement o Psa) che davano alle compagnie la proprietà del greggio - una cosa che, a queste latitudini, non si vedeva dai tempi di Mattei. In un periodo in cui la maggior parte dei paesi sta riprendendo il controllo delle proprie risorse naturali (come sta avvenendo in Russia, in Algeria e in Venezuela) e in una regione dove l'industria petrolifera è saldamente in mani statali (come ad esempio in Arabia Saudita) l'occasione era troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire.
Le cose, però, non sono andate come previsto. I primi tentativi di operare questo colpo di mano legislativo sono stati fatti subito dopo l'invasione, mentre il sacco dei musei di Baghdad era ancora in corso. Le prime stesure della nuova legge petrolifera, confezionate direttamente dagli amministratori delegati delle compagnie, cominciarono a circolare mentre si discuteva la nuova costituzione influenzandola pesantemente.
Visto che sottrarre il petrolio al controllo del governo centrale sarebbe stato troppo sporco, l'Autorità provvisoria di Paul Bremer - per conto delle compagnie - cercò di limitare il danno aprendo degli spiragli a livello dei singoli articoli e lasciando il lavoro sporco alla legge petrolifera di là da venire. Nell'articolo 112, per esempio, anche se viene riaffermato che la gestione del petrolio è a carico del governo federale, si sottolinea che questo riguarda soltanto «i giacimenti presenti» lasciando presagire un altro destino per quelli futuri. L'altro grande problema, com'è noto, riguarda l'annoso conflitto fra le zone ricche di petrolio - il Nord curdo e il Sud sciita - e un centro sunnita che di petrolio ne ha poco o niente ma che è stato, bene o male, l'erogatore dei fondi che hanno consentito lo sviluppo delle necessarie infrastrutture. Come dire: potete pure avere il petrolio ma se non c'è uno Stato centrale a costruire oleodotti e strade, ve ne fate ben poco…
Quando, all'inizio del 2007, la nuova legge petrolifera è stata presentata al Parlamento, i sindacati dei lavoratori petroliferi - che hanno continuato a far funzionare i giacimenti in questi anni - avevano già lanciato una mobilitazione nazionale e denunciato, a livello internazionale, lo scandaloso tentativo di imporre i Psa al paese. Malgrado le forze d'occupazione statunitensi siano state molto chiare nell'includere l'approvazione della nuova legge petrolifera fra le pre-condizioni per cominciare un graduale ritiro, e malgrado dall'ultima stesura fosse sparito ogni riferimento agli accordi di suddivisione dei profitti petroliferi, la legge non è stata approvata.
Al contrario, le pressioni hanno irritato ulteriormente il governo centrale già insofferente per la frenesia con cui il governo regionale curdo si è messo a caccia di nuovi contratti.
Anche il governo di Ibril ha utilizzato l'esca dei Psa ma hanno abboccato solo compagnie minori provenienti dalla Norvegia, dalla Turchia (sic!), dall'Austria e dalla Corea del Sud, tutti paesi che avevano accordi commerciali con il governo centrale che ora minaccia ritorsioni. Infine, nella lunga lista dei conflitti che l'assalto al petrolio iracheno può innescare, c'è anche il problema di Kirkuk, città petrolifera che i curdi reclamano anche se la composizione della popolazione è eterogenea. Per risolvere il contenzioso era stato promesso un referendum che però non si è mai tenuto, e come ben sanno gli esperti, non c'è niente come la promessa di un referendum sull'indipendenza per scatenare la pulizia etnica.

4000 morti inutili, tranne che per Bush

4000 morti inutili, tranne che per Bush

di Matteo Bosco Bortolaso

Il Manifesto del 25/03/2008

Secondo il presidente, i soldati Usa caduti dall'inizio della guerra in Iraq, non sono morti per niente. E le vittime irachene, fra 100 mila e 1 milione?

Quei 4.000 soldati non sono morti per niente. Anzi, «hanno gettato le fondamenta per il futuro delle generazioni a venire». Parola del presidente George W. Bush, che ieri ha espresso «tristezza» per la cifra raggiunta dalle cosiddette casualties, che la domenica di Pasqua hanno superato le quattro migliaia.
Il giro di boa è servito ai candidati democratici alla Casa Bianca per chiedere, ancora una volta, di ritirare le truppe. Hillary Clinton ha ricordato non solo i morti, ma anche le «decine di migliaia di nostri uomini e donne coraggiose che portano ferite visibili e invisibili». «Come presidente - ha detto l'ex first lady - ho intenzione di onorarli, riportando le nostre truppe a casa».
Anche Obama ha reso omaggio alle vittime, sottolineando però che la guerra non sarebbe mai dovuta cominciare e che le truppe devono tornare presto negli Usa.
Da Israele, il vice presidente Dick Cheney ha detto che Bush «porta il peso maggiore» dei 4.000 morti, perché «è lui a decidere di impegnare giovani americani, anche se siamo fortunati ad avere un gruppo di uomini e donne, una forza interamente composta di volontari, che indossano volontariamente l'uniforme». Queste parole di Cheney, pronunciate ai microfoni della Abc, hanno fatto arrabbiare diversi commentatori di sinistra.
La portavoce della Casa Bianca ha detto che il presidente «prova tristezza per questo momento, ma piange ciascina delle vittime». Bush «ha la responsabilità per le decisioni prese - continua la portavoce - così come la reponsabilità per il successo».
Ieri il presidente ha avuto un colloquio in videoconferenza col comandante delle forze Usa in Iraq, il generale David Petraeus, e il suo omologo civile, l'ambasciatore David Crocker, che saranno a Washington l'8 e il 9 aprile per parlare al Congresso. Sarà un momento importante per capire la piega che prenderà la guerra da qui all'ingresso del prossimo presidente alla Casa Bianca, a gennaio 2009.
La quota 4.000 è arrivata pochi giorni dopo il quinto anniversario dell'inizio della guerra. La gran parte delle vittime - 3.863 - è morta dopo il famoso annuncio del presidente del maggio 2003: «Le operazioni di combattimento primarie sono terminate».
Secondo le ultime cifre pubblicate, i militari Usa morti quest'anno in Iraq sono circa un centinaio, meno rispetto agli anni precedenti, visto che su base annua - se la progressione rimane quella attuale - si sarà al di sotto delle 400 vittime.
L'anno più letale è stato il 2007, con 901 morti tra i militari americani. Non era andata molto meglio nel 2004, nel 2005 e nel 2006. Le vittime Usa erano state rispettivamente 849, 846 e 822. È molto elevato il numero dei feriti: ufficialmente appena meno di 30 mila, ma secondo alcune stime circa 100 mila. Molti di loro sarebbero morti nei conflitti precedenti, e devono la vita ai progressi compiuti dalla medicina.
Nelle precedenti guerre combattute dagli Stati Uniti, il numero delle vittime era stato decisamente superiore, come anche il coinvolgimento della popolazione, visto che attraverso la leva obbligatoria tutti o quasi avevano un familiare, un conoscente o un vicino di casa a combattere in Vietnam, a cavallo tra gli anni '60 e '70.
Nella guerra di Corea, tra il 1950 e il 1953, le vittime Usa sono state 12.300 l'anno in media, in quella del Vietnam (1963-75), una media di 4.850 l'anno. In base ai calcoli di Usa Today, tre quarti dei morti sono bianchi non ispanici. In Vietnam la percentuale era del 86%. A frugare tra i dati del Pentagono, si scopre anche che i cosiddetti improvised explosive device - le bombe artigianali - uccidono sempre di più: fino al 2007 avevano ammazzato il 44% dei caduti, ma ora la percentuale è salita al 55%. L'età media dei caduti è 27 anni: quasi la metà dei morti aveva tra i 22 e i 29. Una generazione di giovani mutiliata anche dalle ferite invisibili di cui parla Clinton.
Se i dati sui caduti Usa sono seguiti con attenzione dalla stampa, le cifre sui morti civili iracheni sono incertissime. Sicuramente sono almeno 100 mila, più di venti volte quelle dei soldati a stelle e strisce Ma c'è anche chi parla di un milione.

YouTube - Secondo Giorno Pagano Europeo Della Memoria

YouTube - Secondo Giorno Pagano Europeo Della Memoria

sabato 22 marzo 2008

La Mezzaluna Rossa: un milione le vittime nei cinque anni di guerra in Iraq

l’Unità 22.3.08
La Mezzaluna Rossa: un milione le vittime nei cinque anni di guerra in Iraq

L’Alto commissariato Onu per i rifugiati: 3mila palestinesi allo stremo al confine con la Siria. Il figlio di Tareq Aziz: mio padre sta morendo in un carcere americano a Baghdad

Baghdad. A cinque anni dall’inizio del conflitto l’Iraq è attraversato da nuove ondate di violenza, ieri tre civili sono morti in un attentato avvenuto nella città settentrionale di Mosul, diventata una delle roccaforti di Al Qaeda, mentre nel sud almeno quattro miliziani sciiti sono stati uccisi nel corso di combattimenti con le forze di polizia governative. Da Tunisi, dove si è conclusa l’assemblea dell’organizzazione Araba di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa, arriva un nuovo bilancio delle vittime di cinque anni di guerra in Iraq: sarebbero - secondo i promotori dell’incontro «un milione». La stima è stata fatta raccogliendo i dati forniti da 50mila volontari della Mezzaluna Rossa, una delle poche istituzioni rimaste che ancora operano in Mesopotamia (l’organizzazione ha perso venti operatori nel corso della guerra).
Le agenzie delle Nazioni Unite stanno intanto tentando di sensibilizzare i governi sulla grave situazione dei palestinesi cacciati dall’Iraq. L’Alto commissariato per i rifugiati fa sapere che continuano a peggiorare le condizioni di oltre 2.700 palestinesi bloccati al confine tra Iraq e Siria, «dove vivono in due campi di fortuna in condizioni disumane». L’Alto commissariato negli ultimi 2 anni ha lanciato numerosi appelli per trovare «soluzioni umanitarie urgenti» per i profughi, e garantirne il trasferimento altrove, anche se temporaneo. Alcuni paesi hanno offerto ospitalità ai palestinesi provenienti dall’Iraq, ma al momento non è stata ancora avviata alcuna procedura. Il Cile, per esempio, ha recentemente annunciato che di poter accogliere un primo gruppo di 117 palestinesi rifugiati in Iraq, mentre il Sudan ne ospiterà altri 2000. L’accoglienza in un altro Paese - sottolinea in una nota l’agenzia Onu, non aiuterà però tutti i palestinesi sistemati nei campi «dove la situazione sanitaria diventa sempre più insostenibile, in assenza di cure mediche adeguate e di alternative praticabili». Negli ultimi mesi sono morti almeno dodici rifugiati. L’ultimo, di 25 anni, è deceduto nel campo di al-Waleed per un’intossicazione alimentare; la sua famiglia era stata selezionata dall’Unhcr per il reinsediamento già nel luglio 2007, ma nessuno Stato estero li aveva accolti. Si stima che, dei 34.000 palestinesi presenti in Iraq nel 2003, non ne siano rimasti più di 10-15mila. Il campo di al-Waleed ospita al momento oltre 2000 rifugiati, mentre quello di al-Tanf, tra Iraq e Siria, ce ne sono 710.
I familiari di Tareq Aziz, già ministro degli esteri e vice-premier nell’Iraq di Saddam, tornano intanto a lanciare un allarme sulla situazione del detenuto che - affermano - è in condizioni di salute così gravi che probabilmente morirà prima di subito un qualsiasi processo. Il figlio di Aziz, Ziad, ha dichiarato al britannico The Times di non sapere esattamente la natura della malattia (sembra polmonare, spiega il quotidiano) perché gli avvocati dell’ex numero 2 di Baghdad non hanno avuto il permesso di visitarlo di recente. Gli americani, che confermano che il solo cristiano dell’ex governo iracheno è malato, lo hanno spostato per ragioni di sicurezza in una cella condivisa all’interno della base Usa presso l’aeroporto di Baghdad. Ziad sostiene che suo padre dev’essere rilasciato: «Cinque anni sono una punizione sufficiente per lui. Faceva parte del regime, ma nessuno lo ha accusato di niente. Ha 72 anni, un sacco di problemi di salute. Lasciate che passi gli ultimi anni con i figli e i nipoti». Fedelissimo di Saddam per 20 anni, Tareq Aziz non si pente della sua lealtà: «Ha lavorato con lui per 35 anni - dice il figlio - diceva: è il mio amico, il mio leader, il mio presidente. Ha pianto quando hanno ucciso Saddam». La sua famiglia si trova in Giordania. Aziz si consegnò agli americani il 24 aprile 2003 in cambio di un salvacondotto per i suoi cari.

mercoledì 19 marzo 2008

«Per il consumatore Usa il peggio deve ancora venire»

«Per il consumatore Usa il peggio deve ancora venire»

di Andrea Rocco

Il Manifesto del 14/03/2008

Intervista a Robert Manning, docente e ospite fisso di molte trasmissioni tv che analizzano la crisi immobiliare e creditizia negli Stati uniti

Robert Manning è forse il massimo esperto di debito dei consumatori e di carte di credito negli Stati Uniti. Professore e direttore del Center for Consumer Financial al Rochester Institute of Technology (nello Stato di New York), ha scritto, ormai 8 anni fa, un libro di grande successo, Credit Card Nation, e più recentemente Living with Debt (2005, disponibile dal sito www.LendingTree.com/livingwithdebt/). Sui suoi lavori è basato un ottimo documentario uscito nella scorsa primavera, In Debt We Trust, sottotitolo, «l'America prima dello scoppio della bolla». Ospite frequente dei maggiori talk-show nazionali e testimone in numerose audizioni del Congresso sullo stato del settore del credito statunitense, Bob Manning già nell'ottobre del 2005 aveva previsto il momento del collasso della bolla immobiliare e di una susseguente recessione che collocava nell'estate del 2008. Abbiamo inseguito il prof. Manning tra varie camere di albergo della East Coast per intervistarlo telefonicamente la settimana scorsa.

Come può descrivere in termini generali la situazione del debito dei consumatori americani, alla luce della crisi dei mutui immobiliari e delle restrizioni creditizie?
La cosa più interessante di quest'ultimo decennio è che nel passaggio pieno ad una economia post-industriale globalizzata e ad egemonia americana si è creata una forte pressione sul consumatore americano e sulla sua capacità di assorbire quote del commercio internazionale. Nel corso dell'ultima recessione, nel 2001, il consumo privato statunitense rappresentava un quinto del consumo mondiale. Il consumatore Usa era di fatto il principale motore dell'economia mondiale. Ma allo stesso tempo il modello dominante adottato negli Usa prevedeva una spinta crescente allo smantellamento del welfare per compensare i minori introiti dovuti all'alleggerimento della pressione fiscale sulle corporations. Ciò riduceva le risorse del consumatore e lo spingeva ad indebitarsi. Questo doveva servire da modello per gli altri paesi, ed è successo anche in Italia e in altri Paesi riluttanti ad adottare il sistema basato sulla diffusione delle carte di credito. Il problema-chiave sembra quindi essere la ridefinizione di che cosa è il debito «buono» e quello «cattivo» in un quadro dove la globalizzazione, sia direttamente, attraverso la riduzione dei redditi reali, sia indirettamente, attraverso la demolizione dello stato sociale, ha aumentato a dismisura la tendenza all'indebitamento degli americani.

Come si arriva alla situazione attuale?
Si è verificata quella che definisco «una sospensione della legge di gravità economica». Verso la fine degli anni '90 i salari reali in America erano in crescita, ma l'aumento dei valori immobiliari non si discostava dalla media storica, intorno al 2-3 % annuo. Con la recessione del 2001 redditi e salari declinano, ma nel quinquennio 2001-2005 il valore medio degli immobili nelle aree metropolitane raddoppia. C'è stata un'enorme rottura del ruolo del reddito come motore della crescita economica, le cui conseguenze sono gravi e per ora ancora incalcolabili, così come non è prevedibile il modo di riparare tutto questo. In sostanza abbiamo visto una massiccia redistribuzione della ricchezza dalla classe media ai molto ricchi.

Veniamo alla crisi dei mutui subprime e alla fine della bolla immobiliare...
E' interessante guardare alla fine della bolla dell'hi-tech degli anni '90 e a quella immobiliare che la sostituiva negli anni Duemila. Ci si domanda sempre se gli americani diventano comunque più ricchi o se hanno livelli più elevati di indebitamento. Il debito, soprattutto l'indebitamento immobiliare attraverso i mutui, negli ultimi dieci anni è in praticamente triplicato, e oggi arriva all'incredibile valore di 12 mila miliardi di dollari. Il motivo di questa enorme crescita è che nel mercato immobiliare è stata attirata gente che non aveva le risorse per starci. E poi c'è stata questa operazione concertata per spingere il consumatore indebitato a rifinanziare il debito al consumo accumulato sulle carte attraverso prestiti sul valore della casa che stava crescendo rapidamente. Tutto questo è durato fino alla fine del 2005. Il 2006 ha visto l'inizio del collasso del mercato immobiliare.

E di questo collasso abbiamo già visto il fondo o il peggio deve ancora venire?
Oh no, non abbiamo ancora visto nulla. Ma facciamo un passo indietro. Le carte di credito sono i prodotti più profittevoli dell' «industria del debito». Tenete presente che solo il 40% circa dei possessori di carte di credito pagano il saldo completo alla fine di ogni mese. Il restante 60%, che paga rate e interessi, è comunque un dato tenuto artificialmente basso grazie ai prestiti ottenuti sul valore della casa. Ma anche così il debito al consumo è ormai a livelli di saturazione ed assistiamo ad un'esplosione dei fallimenti personali. Non era mai successo nella storia: prima la gente andava in bancarotta a causa della perdita del lavoro, non quando ce l'aveva. Ma alla fine degli anni '90 i fallimenti personali sono arrivati a quota un milione, in una fase di quasi pieno impiego. Quando è arrivata la crisi del 2001, per non esacerbare la situazione, sono stati eliminati tutti i paletti che limitavano le concessioni di prestiti e mutui, portando nel mercato minoranze urbane, persone sotto-occupate, gente che non aveva davvero mezzi finanziari. Questa era la prima fase della crisi dei mutui subprime e l'ultima coda della bolla immobiliare; mutui concessi nel 2004, 2005 e inizio 2006. Si trattava di prestiti che venivano «impacchettati» da operatori di Wall Street e rivenduti ad investitori istituzionali. I mutui sottostanti erano chiamati mutui 2-28 o 3-27, che vuol dire che prevedevano interessi bassi, al 3-4%, per i primi 2 o 3 anni. Poi gli interessi sono scattati in alto e i titolari dei mutui, di solito senza altre risorse finanziarie da cui attingere, hanno immediatamente perso le loro case. Il fatto poi che queste case avessero un valore molto basso e che quindi le banche si siano trovate con proprietà non rivendibili, ha creato la crisi di liquidità dello scorso autunno, con una destabilizzazione profonda del sistema. Questa, ripeto, è la prima fase, che sta attraversando oggi gli Stati Uniti. La gente pensa, a torto, che siamo vicini al fondo e che una ripresa non è lontana. In realtà è come un uragano, e noi siamo nell'occhio. Arriverà una seconda tempesta che coinvolgerà non più poveracci e minoranze ma un gran numero di persone a reddito medio che vivono in belle casette suburbane, gente che avrebbe dovuto ottenere mutui da 250-300 mila dollari, ma che ne ha avuti da 600 o 800 mila. Questa è gente con un po' di risorse, ma si trovano ad avere mutui da 600 mila dollari su case che ora ne valgono 500 mila. Cercheranno di pagare il mutuo indebitandosi sulle carte di credito, finchè possono, sperando in una ripresa del mercato, che però non arriverà prima di due anni. Questa seconda fase si manifesterà in pieno tra un anno e mezzo. Poi ci sono le illegalità commesse dalle istituzioni finanziarie per vendere questi mutui. Molte cause presto arriveranno in tribunale. Le banche saranno costrette a ricomprare quei mutui, ma non potranno farlo. Citibank tecnicamente è già insolvente e potrebbe non sopravvivere.

Che conseguenze avrà tutto questo sul piano politico ed elettorale?
Prima di tutto c'è la incapacità dell'attuale amministrazione di affrontare la questione per un problema di deficit totale di credibilità. Ho previsto che il peggio della crisi dovrebbe arrivare tra settembre e ottobre, in pien campagna elettorale, alimentata anche dalle prime serie perdite di impiego, che si stanno manifestando a macchie in Michigan, Ohio, Indiana, Florida, parte della California. Nei prossimi mesi la crisi economica si manifesterà in modo molto tangibile. Già ora si vede come i tagli drastici dei tassi di interesse non hanno quasi effetto. Le banche li usano per limitare le perdite delle loro divisioni mutui, ma per i consumatori in debito non ci sarà molta differenza. E infatti tra l'autunno e gennaio si è verificata una progressiva contrazione dei consumi, che colpirà in modo sensibile le compagnie automobilistiche e molte strutture distributive. Ma il peggio, ripeto, deve ancora venire. Non serviranno a molto i programmi di rimborso fiscale passati da Casa Bianca e Congresso. Quando arriveranno gli assegni ci sarà una breve e modesta ripresa, poi si tornerà in recessione.