domenica 30 dicembre 2007

I MITI E LE LEGGENDE DI VENEZIA

I MITI E LE LEGGENDE DI VENEZIA

Roma, 29 dic. - (Adnkronos/Adnkronos Cultura) - E' una delle citta' piu' amate al mondo. Nasconde miti di ogni genere e storie che si perdono nel tempo. La sua struttura urbana la rende unica. E' Venezia, la citta' sull'acqua, visitata ogni anno da milioni di turisti italiani e stranieri. Quali sono gli elementi fondamenti che caratterizzano la sua storia? Quando e' nato il suo mito? Quali sono, d'altra parte, i passaggi storici principali che hanno segnato il suo sviluppo? Sono queste le domande alle quali risponde il bibliotecario veneziano Marcello Brusegan nel saggio ''Miti e leggende di Venezia. Le origini, i simboli, le storie e i personaggi di una citta' sospesa tra l'acqua e il cielo'', pubblicato dalla casa editrice Newton Compton.

L'autore, esperto di storia delle tradizioni storiche ed alimentari della sua citta', chiarisce subito i confini del mito di Venezia. Ricorda, infatti, che gli storici lo fanno al XIX e al XX secolo '' cioe' dopo la caduta della Repubblica, le invasioni straniere e il contemporaneo fiorire del Romanticismo''. Le leggende su Venezia, pero', nascono molti secoli prima. In realta', esse si sviluppano fin dalla fondazione della citta' lagunare.

''Il mito di Venezia - spiega Brusegan - nasce quasi contemporaneamente alla sua stessa fondazione perche' un centro urbano che nasceva, cresceva, si sviluppava non sulla terraferma come succedeva in qualsiasi altra parte del mondo, ma sull'acqua non poteva non nutrire in se stesso quel seme di straordinarieta' che la citta' ha sempre avuto''. Da qui, nel corso dei secoli, sono sorte leggende e vicende ricche di misteri e di enigmi, che hanno contribuito a definire il suo ritratto e la sua dimensione piu' vera e profonda.

I canali di Venezia sono stati attraversati da personaggi unici come Marco Polo, il viaggiatore intrepido che, percorrendo la via della Seta, raggiunse la Cina. Personaggi coraggiosi, ancora, come Giacomo Casanova, l'avventuriero che amo' le donne e la vita e che non si tiro' mai indietro di fronte al pericolo. Nel libro di Brusegan, insomma, risuonano le tante storie, i personaggi e le situazioni diverse grazie alle quali l'immagine e la storia di Venezia si e' costruita nel tempo.

Quando le artiste dovevano pagare dazio

L’Unità 30.12.07
Quando le artiste dovevano pagare dazio
di Renato Barilli

L’ARTE DELLE DONNE documenta quattro secoli di pittura femminile, in un periodo nel quale la discriminazione impediva loro l’attività artistica: da Sofonisba Anguissola fino a Frida Khalo e Tamara De Lempicka

Dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che la condizione umana è unica, dovunque e comunque venga manifestata, al di là delle differenze di sesso, di razza, di religione o altro. Non che sia indifferente recare i propri contributi dallo stato di uomo o di donna, o di ebreo o cristiano o maomettano. infatti sarebbe ugualmente pericoloso pretendere di annullare distinzioni del genere, che fanno tutt’uno con la personalità dei singoli, ma queste pur decisive modalità di essere non costituiscono di per sé il fine, l’oggetto dell’intervento culturale. Valgono in proposito certe similitudini offerteci dalla chimica, si pensi al ruolo enigmatico dei cosiddetti catalizzatori, che devono essere presenti, al compiersi delle grandi sintesi, per accelerarle o ritardarle, ma poi non se ne trova traccia nella composizione finale del prodotto. In parole povere, questo significa che non è indifferente giungere all’opera d’arte attraverso una sensibilità maschile o femminile, cristiana o ebraica, europea o asiatica, ma la si dovrà considerare come un coefficiente che facilita il compiersi di un certo processo; e tuttavia l’esito finale dovrà parlare a tutti, non restare appannaggio delle singole categorie da cui pure è venuto fuori.
Però, è anche vero che i fattori sociali ed economici hanno sempre agito potentemente di freno al darsi di questa ideale par condicio. Veniamo al tema che giustifica queste mie riflessioni di partenza, l’arte delle donne, che non per nulla è proprio il titolo di un’ampia mostra allestita al Palazzo Reale di Milano. Il lungo, secolare discrimine che ha pesato negativamente sulla condizione femminile in ogni aspetto dell’attività pubblica, professionale, si è fatto sentire non certo in misura più leggera per quanto riguarda l’arte, e dunque il numero delle donne artiste emerse, pur in un arco di grande sviluppo com’è stato quello dell’arte in Occidente, appare decisamente esiguo. In tal caso può essere lecito e utile aprire un dossier separato, mettere i paletti di un cordone doganale protettivo, agli sparuti apporti di questo settore di lavori, in modo da dargli un risalto particolare. Ma così come si mettono questi paletti protettivi, bisogna essere pronti a toglierli, non appena le condizioni di inferiorità vengano a cessare. Oggi la donna appare sempre più in grado di combattere ad armi pari con l’altro sesso, e dunque sarebbe fastidioso o addirittura dannoso mantenere le paratie stagne. Opportuno quindi il sottotitolo che delimita la mostra milanese, Dal Rinascimento al Surrealismo, cioè in sostanza dal Cinquecento alla metà del Novecento.
E anche nei quattro secoli circa di storia esaminati dalla rassegna si può notare un’accelerazione, nel senso che in partenza sono ben rari i casi di creatività al femminile coronati da successo, per il tardo Cinquecento non si va molto più in là di Sofonisba Anguissola e congiunte, o di Lavinia Fontana, per la quale scatta oltretutto un fattore che a quei tempi valeva a ridurre il peso discriminante a sfavore delle donne, la presenza di un genitore o di un nucleo familiare affermato. Il caso più alto di queste utili situazioni familiari lo si ha ai primi del Seicento tra un padre, Orazio Gentileschi, e una figlia, Artemisia, dove l’uno solleva l’altra ai migliori livelli. E anche la maturità della Scuola bolognese dà i suoi frutti, con Elisabetta Sirani, degna allieva dei Carracci e di Guido. Ma i casi recuperabili restano comunque rari, pur nel vasto ambito degli splendori dell’Occidente, anche se nel Settecento emergono le punte della Vigée Lebrun in Francia, e di Rosalba Carriera, a complemento della ricca situazione veneziana, mentre la prima delle rivoluzioni estetiche della contemporaneità, la sindrome tra Neoclassicismo e Romanticismo, ha la sua ninfa Egeria in Angelica Kauffmann. Anche nell’Ottocento trova conferma il fatto che solo là dove c’è maturità e ricchezza sociale, si aprono spazi agli apporti femminili, si vedano i casi di Berthe Morisot e di Mary Cassatt che entrano a far parte dell’Impressionismo, mentre nella più arretrata Italia, per tutto quel secolo, non riescono ad imporsi talenti di prim’ordine. La situazione si vivacizza con le avanguardie storiche, che non per niente hanno in genere nei loro programmi una revisione delle condizioni generali di vita, e come sempre è il nostro Futurismo a dare il giusto segnale, si veda il caso svettante di Benedetta, l’estrosa e dotata coniuge del capofila Marinetti. E c’è poi una ricca compagine presso le avanguardie sovietiche, dalla Gonciarova alla Exter. Ma è la larga condizione mentale dell’Espressionismo, a consentire una libera emersione dei talenti delle donne, che non solo pareggiano i conti con la controparte, ma talvolta vincono nei duetti stabiliti con i compagni di vita. La russa Werefkin appare più incisiva del coniuge Jawlenski, altrettanto si dica di Antonietta Raphaël nei confronti di Mario Mafai, la messicana Frida Kalho appare più acuminata e penetrante al confronto con Diego Rivera. Infine, proprio in occasione di una mostra al Palazzo Reale mi era già capitato di dire che Tamara De Lempicka batte ogni collega sul fronte del novecentismo. Man mano che si avanza verso l’oggi, gli apporti al femminile si infittiscono, infine, varcata la soglia del mezzo secolo, il cordone doganale non ha più molte ragioni di essere posto.

sabato 29 dicembre 2007

Ogm, 3 milioni di firme per fermarli "Ora l'Europa deve tenerne conto"

da repubblica.it
Ogm, 3 milioni di firme per fermarli "Ora l'Europa deve tenerne conto"

ROMA - Tre milioni di firme per impedire all'Italia di coltivare e commercializzare prodotti geneticamente modificati. La campagna lanciata due mesi fa dalla "Coalizione Italia-Europa liberi da ogm" si è conclusa oggi a Roma con la presentazione dei risultati ottenuti. L'obiettivo, ha spiegato uno dei principali animatori, l'ex parlamentare di Dp Mario Capanna, è stato raggiunto con "soddisfazione e orgoglio".

Complessivamente i voti raccolti delle 32 organizzazioni che hanno dato vita alla coalizione (sigle del mondo dell'associazionismo come Slow Food, Acli, Avis e Legambiente, associazioni di categoria come la Coldiretti, marchi leader della grande distribuzione come la Coop e anche partiti politici come i Verdi) sono stati 3.086.524, con una percentuale di "no" ferma allo 0,57%.

Un risultato che Capanna, ora alla guida della Fondazione per i diritti genetici, giudica "straordinario" perché frutto "di un referendum propositivo in cui abbiamo chiesto ai cittadini di esprimere una preferenza e metterci la faccia". Ma se il primo successo rivendicato dalla campagna è quello ottenuto sull'opinione pubblica, gli organizzatori sono convinti di aver smosso anche le acque della politica. Le posizioni della Coalizione, ha ricordato ancora Capanna, "hanno investito il governo e il parlamento", visto che "abbiamo varcato le Alpi verso la Commissione Ue", spingendo l'Italia a stringere un alleanza con la Francia sul comune rifiuto degli ogm.

"I cittadini hanno espresso chiaramente la loro opinione sul futuro dell'agroalimentare e della propria qualità della vita - ha commentato il senatore Francesco Ferrante, capogruppo dell'Ulivo in commissione ambiente - Oltre 3 milioni di voti contrari agli ogm in agricoltura non possono essere ignorati. L'Unione Europea ne prenda atto e agisca di conseguenza".

Prima ancora che Bruxelles, a prendere atto del risultato della campagna, non senza un certo allarme, è stata la comunità scientifica italiana, che oggi stesso ha convocato una conferenza stampa per denunciare sul tema degli ogm la mancanza di un'informazione corretta e documentata. La Società Italiana di Genetica Agraria (Siga) e la Società Italiana di Tossicologia (Sitox), raccogliendo l'adesione di scienziati illustri come Edoardo Boncinelli, Silvio Garattini e Piergiorgio Odifreddi, hanno ribadito che "non può esserci democrazia partecipativa senza una corretta informazione" e "sugli ogm è ora di iniziare ad ascoltare la voce della scienza".

"Quanti italiani - hanno sottolineato ancora gli organizzatori - sanno, ad esempio, che a causa delle nostre condizioni climatiche metà del mais italiano ha un contenuto di tossine fungine cancerogene e teratogene superiore alla soglia consentita dalla normativa europea? E che il mais ogm già coltivato in Spagna, Francia e Germania, ma non in Italia, consente di ridurre drasticamente la presenza di queste pericolose sostanze, dette fumonisine?". Dati, hanno lamentato ancora gli scienziati, "che non hanno mai raggiunto l'opinione pubblica e in qualche caso sono stati oggetto di una sorta di cover-up tanto da meritare un'interrogazione parlamentare".

I ricercatori hanno contestato anche i risultati della campagna anti-ogm, richiamando l'attenzione sull'enorme mole di evidenze scientifiche rassicuranti accumulate in due decenni di sperimentazioni e dieci di commercializzazione dei prodotti da essi derivati.

"Quanto può valere - si sono chiesti - una consultazione popolare basata su un quesito tendenzioso, eseguita con modalità come gli sms che non consentono alcuna forma di controllo, per di più accompagnata da una campagna di disinformazione che distorce i dati scientifici per far apparire gli ogm inutili e dannosi mentre ne occulta i vantaggi sanitari, ambientali ed economici?".

(13 novembre 2007)

L'etanolo ubriaca l'America rurale

Marina Forti
L'etanolo ubriaca l'America rurale
Tratto da “il manifesto”, 28 marzo 2007
Quest'anno un quarto della produzione di mais degli Stati uniti d'America sarà inghiottita dalle raffinerie che lo trasformano in etanolo. L'anno scorso (2006) era stato il 16%. E con un'ottantina di distillerie in costruzione, che raddoppiano la capacità di produzione oggi esistente, nel 2008 un terzo del raccolto di mais statunitense sarà convertito in etanolo. È un vero e proprio boom. La produzione di etanolo aumenta perché esplode la domanda di quelli che vengono definiti, con un inganno semantico, “biocarburanti”. L'etanolo, ottenuto dalla distillazione di masse vegetali come canna da zucchero o mais, è uno di questi (un altro è il “biodiesel”, ottenuto da olii vegetali come colza, girasole, o dall'olio di palma). Ma usare masse vegetali su larga scala per produrre carburanti ha ben poco di “ecologico” o di “sostenibile”. L'esempio del mais negli Usa lo spiega. Il boom della domanda di mais per produrre etanolo “sta cambiando l'economia agricola americana”, notava ieri il Financial Times in un lungo articolo che sottolineava però i motivi di preoccupazione. Per i farmers il momento sembra buono: “Con il mais a 4 dollari per bushel \ndr\] e la soia a 8 dollari il bushel”, vale la pena di tornare alla terra; i prezzi di mais, grano e soia hanno cominciato a salire negli anni '90, alimentati da un forte export, ma l'impennata è degli ultimissimi anni ed è dovuta proprio all'etanolo. Perché si preoccupano dunque gli analisti interrogati dal Financial Times? Perché l'agricoltura diventa sempre più legata al settore energetico, spiegano; il reddito dei farmers così resta vulnerabile alle oscillazioni delle forze di mercato. E poi, l'aumento dei prezzi farà piacere ai coltivatori di mais e soia, ma ha effetti a catena: il boom della domanda per l'etanolo ha portato a intaccare le riserve Usa di mais, scese al livello più basso da 25 anni, e fanno prevedere che l'export americano di mais (che l'anno scorso copriva il 70% dell'export mondiale di questa derrata) crollerà nei prossimi tre anni. Tanto più che il presidente George Bush in gennaio ha fissato un obiettivo ambizioso per i “biocarburanti”: 35 miliardi di galloni nel 2017, ben più dei 7,5 miliardi di galloni contemplati dalle legge energetica Usa del 2005. Tra parentesi, anche l'Unione europea si è data l'obiettivo di mettere almeno il 10% di “bio” nei carburanti per i trasporti entro il 2020. Insomma: la domanda è destinata a salire, e per soddisfarla o aumenta la superfice coltivata a mais o altra massa vegetale trasformabile, o aumenta la parte di mais mandata alle raffinerie rispetto a quella destinata ai consumi alimentari, o entrambe le cose. E in ogni caso i prezzi continueranno a crescere. Così, si preoccupa il Financial Times, se i prezzi delle derrate agricole aumentano troppo in fretta saliranno i prezzi degli alimentari, e vedremo una reazione contraria dei consumatori contro i biocarburanti. E il boom rurale potrebbe di nuovo scoppiare come una bolla”. Da un punto di vista diverso, è proprio di questo che si preoccupa Lester Brown, il fondatore del Earth Policy Institute di Washington: il fatto che una quota crescente dei raccolti Usa vada nelle distillerie di etanolo fa salire i prezzi degli alimentari, dice in una nota pubblicata il 21 marzo (www.earth-policy.org); il prezzo del mais è raddoppiato negli ultimi 10 anni, i futures del grano sono a livelli record, rincara il riso. “I paesi colpiti per primi sono quelli dove il mais è un alimento di base”, come il Messico dove abbiamo già visto rivolte sociali contro l'aumento del prezzo della tortilla, ma l'effetto sulla “catena alimentare mondiale” è più generale (il mais è consumato indirettamente come mangime per animali, ad esempio). E tutto questo, nota Brown, per etanolo in quantità che negli Usa equivale ad appena il 3% del consumo di carburante: “Aumentare l'efficenza dei motori del 20% nei prossimi 10 anni farebbe risparmiare più petrolio che convertire l'intera produzione americana di mais in etanolo”.

India e Thailandia contro le “big pharma”

Marina Forti
India e Thailandia contro le “big pharma”
Tratto da “il manifesto”, 14 aprile 2007
Due episodi del braccio di ferro che oppone da tempo alcuni grandi paesi in via di sviluppo (e molte organizzazioni non governative per il diritto alla salute), alle più grandi aziende farmaceutiche mondiali.
Il primo riguarda l'India. Il ministro della sanità Anbumani Ramadoss ha chiesto alla multinazionale svizzera Novartis di ritirare la sua causa legale contro la legge indiana sui brevetti: si è detto “molto preoccupato” da una sfida che potrebbe finire per negare a milioni di persone la disponibilità di farmaci a basso costo per le terapie associate all'Aids.
La sfida legale nasce dal ricorso presentato da Novartis contro le autorità indiane che avevano rifiutato di brevettare un suo farmaco antitumorale, con l'argomento che era solo una formula “migliorata” di un farmaco già in commercio (il Glivec). Il processo cominciato presso l'Alta Corte di giustizia di Chennai (Madras) ha implicazioni che vanno ben oltre il farmaco in questione (vedi terraterra, 31 gennaio): Novartis impugna la legge sui brevetti che New Delhi ha approvato nel 2005 per adeguarsi alle norme dell'Organizzazione mondiale del commercio (fino ad allora l'India non riconosceva brevetti sui medicinali...). Quella legge mantiene delle salvaguardie: una, generale e riconosciuta dal Wto, permette a un paese di sospendere un brevetto e autorizzare la produzione di generici in caso di emergenza sanitaria. L'altra riconosce il brevetto solo ai prodotti davvero innovativi, quindi non solo banali miglioramenti di farmaci già noti - ed è questa che Novartis sfida in tribunale.
Il processo Novartis-India ha mobilitato organizzazioni non governative indiane e internazionali, dal People's Health Network a Médecins sans Frontières, che ora applaudono al ministro Ramadoss: “Riconosce che c'è una minaccia contro la legge indiana sui brevetti e che l'India ha un ruolo chiave nel fornire cure a prezzi accessibili per milioni di persone nel mondo in via di sviluppo”, ha dichiarato Leena Menghaney, di Msf India (Reuter, 10 aprile).
L'altra notizia viene dalla Thailandia. Qui il ministro della sanità Mongkol na Songkhla si dice incoraggiato dai primi successi della campagna per costringere le grandi case farmaceutiche mondiali ad abbassare i prezzi. Bangkok ha fatto scandalo tra le big pharma, nel dicembre scorso, quando ha emesso una “licenza obbligatoria” per importare o produrre un farmaco essenziale per il trattamento di malati di Aids, l'Efavirenz, coperto da brevetto della Merck & Co. Inc, statunitense. Con la “licenza obbligatoria”, che sospende l'effetto del brevetto, la Government Pharmaceutical Organization (Gpo), industria dello stato thailandese, potrà produrre la versione “generica”; conta di metterlo in commercio dal giugno del 2007 (e verserà lo 0,5% del ricavato a Merck); nel frattempo può importare il generico da paesi che lo producano, come l'India (tt, 2 dicembre 2006). Poco dopo è stata la volta di Abbott Laboratories: un'altra “licenza obbligatoria” permette di produrre o comprare generici di un altro farmaco anti-Aids, il Kaletra. “Le licenze obbligatorie sono l'unico modo che abbiamo per portare le aziende farmaceutiche a scendere a patti sui prezzi”, ha fatto notare il ministro Mongkol. Proprio vero: in febbraio Merck ha annunciato un ribasso del 46% del prezzo del Efavirenz (ma non basta, ha detto il ministro, e non revocherà la “livenza obbligatoria). Mentre Abbott ha offerto di vendere il suo Kaletra (ma non la nuova versione che non richiede la conservazione in frigorifero) a prezzo più che dimezzato in 40 paesi in via di sviluppo. Neanche questo metterà fine alla campagna thailandese, ha deto il ministro: “Vogliamo vedere le case farmaceutiche abbassare ulteriormente i loro margini di profitto, per distribuire i farmaci a più persone”. Ma ha ragione: è tutto merito di quelle licenze obblicatorie.

venerdì 28 dicembre 2007

L'Italia saccheggia le foreste del Camerun

Marina Forti
L'Italia saccheggia le foreste del Camerun
Tratto da “il manifesto”, 20 aprile 2007
L'Italia è complice della deforestazione selvaggia del Camerun? È quello che denunciano alcune organizzazioni ambientaliste, e con solide prove. Un rapporto d'inchiesta pubblicato da Friends of the Earth (le sezioni francese e olandese) e da Greenpeace Italia documenta infatti che nel paese dell'Africa occidentale il taglio illegale di alberi è massiccio, benché il Ministero delle Foreste di Douala affermi che l'illegalità ormai conta appena per il 2% dell'industria forestale. Soprattutto, documenta le attività di una certa impresa dal nome camerunese ma capitali italiani, la Fipcam (Fabrique Camerounaise de Parquet), che taglia alla grande nella regione orientale del Camerun ed esporta poi in gran parte in Italia.
Quando si dice “taglio illegale” di legname non bisogna pensare a piccole aziende abusive: l'abuso c'è, ma è su larga scala, macchinari pesanti, intere strade aperte illegalmente nella foresta tropicale. La Fipcam, creata nel 2000, è titolare di tre concessioni (Unité forestière d'aménagement, come sono chiamate in Camerun): due nel sud e una dell'est del paese, attribuita nel 2001. E' questa che ora ci interessa: una zona di foresta presso la cittadina di Mindourou, nei pressi della riserva naturale di Dja; è adiacente alla zona di operazioni di un'altra impresa forestale, Pallisco (filiale di Menuiseries Parquet), che negli anni '70 si era resa famosa per una serie di conflitti con gli abitanti locali; infatti era specializzata nell'estrazione di un certo albero di nome moabi, sacro per i nativa baka e importante per i bantu come fonte di olio e medicinali naturali. Nel 2002 Fipcam comincia a sfruttare la sua concessione orientale aprendo una pista nella foresta comunitaria del villaggio di Bapilé. Gli abitanti protestano perché gli addetti dell'azienda si portano via molti alberi di pregio, poi si rendono conto che a rimuovere i tronchi abbattuti non è gente della Fipcam bensì della Pallisco. Il peggio però viene dopo: in un sopralluogo nella zona, i ricercatori di Friends of the Earth nel 2004 trovano parecchi tronchi non marcati con il logo dell'azienda; i lavoratori locali confermano che è pratica corrente.
Nel 2006 l'Osservatorio indipendente (istituito presso il governo camerunese) ha compilato un suo rapporto sulle pratiche della Fipcam: parla di parecchio legname portato via “non registrato nella documentazione di cantiere” e “non rintracciabile al fisco”. Non solo: nel settembre 2006, cioè all'inizio della stagione secca e di un nuovo anno di attività forestale, gli abitanti locali vedono tornare i bulldozer e le motoseghe della Fipcam sulla parcella già sfruttata l'anno prima (l'area della concessione è divisa in “parcelle” che di solito sono tagliate a rotazione). Secondo la foresteria “sostenibile”, e le leggi del Camerun, l'impresa non dovrebbe tornare sulla stessa parcella per i successivi trent'anni, per permettere alla foresta di rigenerarsi - anche questo hanno constatato i ricercatori dell'organizzazione ambientalista. Nel dossier diffuso ieri ci sono foto, cordinate Gps.. Fin qui è una “normale” storia di deforestazione illegale. Il punto è che si tratta di un'azienda con capitali italiani e di legno che approderà in gran parte in Italia.. Per la precisione, l'Italia è il primo importatore di legno dal Camerun (ogni anno importa circa 146mila metricubi di trunchi segati, 32600 metricubi di tronchi e quasi 50mila metricubi di sfogliati). La Fipcam è solo una delle imprese forestali che operano in Camerun e hanno capitale italiano; insieme alla Fip (Fabrique ivorienne de parquet) della costa d'Avorio è partner commerciale della “Bruno pavimenti in Legno, ditta con sede a Mondovì (provincia di Cuneo). Sul suo sito la “Bruno” assicura che le sue partner sono impegnate nella “gestione durevole delle foreste”, ma ora sappiamo che non è vero. E secondo Greenpeace, “il governo italiano è il vero responsabile”, perché “continua ad aprire le sue frontiere, e quelle europee, a imprese coinvolte nel taglio illegale”.

Teatro greco. Gli attori erano selezionati per la forte voce

Eva Cantarella
Teatro greco. Gli attori erano selezionati per la forte voce
Tratto da “Corriere della Sera”, 10 aprile 2007
“Grazie allo studio dei teatri secondo la scienza dell’armonia, gli antichi aumentavano il potere della voce” scriveva l’architetto romano Marcus Vitruvius Pollio descrivendo le meraviglie greche. Certo, era veramente perfetta l’acustica dei teatri greci: ancora oggi, o quantomeno sino a pochi anni fa, il turista che raggiungeva l’ultima fila del teatro di Epidauro sentiva perfettamente il rumore fatto da un foglio di carta, stracciato sulla scena a suo beneficio dalla guida. Ma il teatro di Epidauro (come tutti quelli ancora esistenti) è in pietra. Inevitabile chiedersi se raggiungeva questo livello di perfezione anche il teatro ateniese dell’età di Pericle, composto da scranni in legno sistemati in un primo momento nell’agora, e nei primi decenni del V secolo spostati nel recinto sacro di Dioniso, sulla pendice Sud dell’Acropoli (la sistemazione in pietra avvenne solo nel IV secolo, epoca cui risale il teatro di Epidauro). Le fonti antiche, peraltro, fanno pensare che il livello fosse già eccellente: nei poeti comici non vi è alcuna allusione a proteste da parte del pubblico delle ultime file. Ma il merito, questo va detto, non era solo dell’acustica; era anche degli attori. Non era facile essere degli attori, ad Atene: un tempo si pensava che a far sentire a tutti la loro voce concorresse l’uso delle maschere che coprivano i loro volti. Bianche per le donne (o meglio, per i personaggi femminili, rappresentati da attori maschi), più scure per gli uomini, con fessure per gli occhi, le maschere (fatte di lino, sughero o legno, ragion per cui sono andate perdute) agivano, si pensava, da cassa di risonanza. Ma oggi sappiamo che così non era, e questo - se da un lato conferma che l’acustica era ottima - dall’altro aumenta il merito degli attori. La potenza dello voce era uno dei requisiti in base ai quali essi venivano scelti, e raggiungere e mantenere il livello di potenza necessario era cosa che imponeva uno stile di vita, autodisciplina, diete speciali, esercizi fisici. Nel rendere omaggio alla straordinaria capacità degli architetti greci, non dimentichiamo gli attori. Meritano anche loro qualche parola di elogio.

Agricoltura industriale e crisi idrica

recensione, dal libro

Vandana Shiva, Le guerre dell'acqua, Feltrinelli


Agricoltura industriale e crisi idrica

L’agricoltura industriale ha spinto la produzione alimentare a usare metodi che hanno determinato una riduzione della ritenzione idrica del suolo e un aumento della domanda d’acqua. Non riconoscendo all’acqua il suo carattere di fattore limitante nella produzione alimentare, l’agricoltura industriale ha promosso lo spreco. Il passaggio dai fertilizzanti organici a quelli chimici e la sostituzione di colture idricamente poco esigenti con altre che abbisognano di grandi quantità d’acqua hanno rappresentato una ricetta sicura per carestie d’acqua, desertificazione, ristagni e salinizzazione.
Le siccità possono essere aggravate dal mutamento climatico e dalla riduzione dell’umidità nel suolo. La siccità provocata dal mutamento climatico – fenomeno che prende il nome di siccità meteorologica – è collegata alla carenza di precipitazioni. Ma anche quando la quantità di pioggia rientra nella norma, la produzione alimentare può risentirne se la capacità di ritenzione idrica del suolo è stata erosa. Nelle zone aride, dove foreste e fattorie dipendono totalmente dalla capacità del suolo di mantenersi umido, l’unica soluzione è l’aggiunta di materia organica. La siccità dovuta a scarsa umidità del suolo si presenta quando manca la materia organica che serve a trattenere l’acqua nel terreno. Prima della Rivoluzione verde la conservazione dell’acqua era parte integrante dell’agricoltura indigena. Nel Deccan, in India meridionale, il sorgo veniva associato a leguminose e semi oleosi per ridurre l’evaporazione. La Rivoluzione verde ha scalzato l’agricoltura indigena a favore di monocolture in cui le varietà nane hanno sostituito quelle alte, i fertilizzanti chimici quelli organici e l’irrigazione artificiale le colture da pioggia. Il risultato è che i suoli si sono impoveriti di materiale organico indispensabile e le siccità provocate da scarsa umidità del terreno sono diventate un fenomeno ricorrente.
Nelle regioni esposte alla siccità, un sistema agricolo ecologicamente solido è l’unica via per una produzione alimentare sostenibile. Tre acri di sorgo utilizzano la stessa quantità d’acqua di un solo acro di risaia. Tanto il riso quanto il sorgo rendono 4500 chilogrammi di cereale. Con la stessa quantità di acqua, il sorgo fornisce una dose di proteine 4,5 volte superiore, quattro volte più minerali, 7,5 volte più calcio e 5,6 volte più ferro, e può fornire una quantità di alimento 3 volte maggiore del riso. Se lo sviluppo agricolo avesse tenuto conto della conservazione dell’acqua, il miglio non sarebbe stato definito un prodotto agricolo marginale o inferiore.
L’avvento della Rivoluzione verde ha spinto l’agricoltura del Terzo mondo verso la produzione di frumento e riso. Le nuove colture richiedevano più acqua del miglio e consumavano 3 volte più acqua delle varietà indigene di frumento e riso. L’introduzione di queste coltivazioni ha avuto anche forti costi sociali ed ecologici. Il drastico aumento della quantità d’acqua utilizzata ha determinato l’instabilità degli equilibri idrici regionali. I massicci progetti di irrigazione e l’agricoltura a uso intensivo d’acqua, scaricando sull’ecosistema una quantità d’acqua superiore a quella sopportabile dal suo sistema naturale di deflusso, hanno portato a ristagni, salinizzazione e desertificazione. I ristagni si verificano quando la profondità della superficie freatica si riduce di una misura compresa tra 1,5 e 2,1 metri. Se in un bacino si aggiunge acqua più in fretta di quanto questo possa drenarne, la falda sale. Circa il 25% delle terre irrigate degli Stati Uniti soffre di salinizzazione e ristagni. In India, 10 milioni di ettari di terra irrigata con i canali è intrisa d’acqua e altri 25 milioni di ettari sono a rischio di salinizzazione. […]

Come difendersi dal cambiamento del clima

Marina Forti
Come difendersi dal cambiamento del clima
Tratto da “il manifesto”, 5 maggio 2007
E' un documento scientifico, ma per calibrarne il linguaggio sono serviti diversi giorni di intenso dibattito. Infine ieri a Bangkok il Comitato intergovernativo sul cambiamento del clima (Intergovermental Panel on Climate Change, o Ipcc) ha diffuso il suo ultimo documento su come combattere il progressivo riscaldamento dell'atmosfera terrestre.
Gli scienziati del Ipcc (una rete di 2.500 esperti di 130 paesi) non analizzano qui i trend del clima: l'hanno già fatto in due rapporti, diffusi in febbraio e aprile, in cui sintetizzano le conoscenze acquisite. Sappiamo già, dunque, che nella situazione attuale la temperatura terrestre aumenterà tra 1,1 e 6,4 gradi centigradi entro il 2095, e che questo farà sciogliere più in fretta i ghiacci polari e alzare il liverro dei mari, oltre ad aumentare la frequenza di alluvioni, uragani, siccità.
Il terzo rapporto della serie (Mitigating climate change, “mitigare il cambiamento del clima”) parte da un dato accettato: per evitare una catastrofe maggiore bisogna contenere il riscaldamento dell'atmosfera terrestre entro i 2 gradi centigradi di media. Ovvero, dobbiamo tagliare le emissioni di gas di serra (come anidride carbonica o metano) tra il 50 e l'85% entro la metà del secolo. Il punto è come, e a quali costi economici. Il Ipcc risponde che abbiamo le tecnologie, e i costi sono sostenibili: certo, a patto che non si rinvii troppo. “E' un documento molto forte, dice che i drastici tagli di emissioni necessari sono economicamente e tecnicamente fattibili”, ha fatto notare ieri Bill Hare, consulente di Greenpeace e co-autore del rapporto.
Più in dettaglio. Il Ipcc fa notare che le emissioni globali di gas di serra sono aumentate del 70% tra il 1970 e il 2004, e aumenteranno entro il 2030 tra il 25 e il 90%: dipende da cosa il mondo farà per limitarne la crescita. I paesi industrializzati producono il 46% delle emissioni, anche se hanno un quinto della popolazione mondiale. Per contro, tre quarti della crescita futura delle emissioni sarà dovuta ai consumi di energia dei paesi in via di sviluppo.
I costi: tagliare le emissioni significa diminuire il consumo di combustibili fossili (carbone, petrolio, metano), dunque aumentare l'efficenza energetica e passare a energie rinnovabili. Secondo la stima del Ipcc questo potrebbe rallentare la crescita del Prodotto interno lordo (Pil) mondiale di 3 punti percentiali, ma potrebbe anche costare meno o addirittura permettere uno 0,2% di crescita: dipende in parte da quanto vorremo tagliare le emissioni. Se cominciamo subito, il costo potrebbe saldarsi in uno 0,12% della crescita annua. Cominciare subito la transizione verso tecnologie meno energivore e energie rinnovabili costerà meno; più si rinvia l'azione, più far fronte al cambiamento del clima costerà caro in termini economici (e ancor più in termini umani e sociali: malattie, disastri, migrazioni di massa in cerca di sopravvivenza...).
Questo porta a una delle questioni rimaste controverse fino all'ultimo, le responsabilità relative e l'accesso alle tecnologie. I paesi industrializzati devono decidersi a condividere con gli altri le tecnologie meno energivore e più avanzate, ha fatto notare Zhou Dadi, direttore del Energy Research Institute cinese (e coautore del rapporto): “I paesi in via di sviluppo lo chiedono da anni ma non è mai successa”, ha detto. I dirigenti cinesi prendono sul serio il problema, ha aggiunto, ma servono alternative: il paese più popoloso del pianeta trae il 70% dell'energia che consuma dal carbone, la fonte più inquinante: “Se volete che la Cina usi meno carbone deve trovare fonti alternative, e sostituirlo con il petrolio farebbe un miliardo di barili supplementari all'anno: il mercato mondiale è pronto?”.
L'altra questione controversa è l'energia nucleare. l documento parla di progressi tecnologici, in particolare nel produrre e usare energia in modo più efficente; parla delle tecnologie per catturare le emissioni dalle centrali termiche, e infine elenca le energia rinnovabili alternative ai combustibili fossili: solare, eolico e nucleare. Oggi il 16% dell'energia elettrica mondiale è fornito dal nucleare e potrebbe diventare il 18% entro il 2030, dice il documento: ma aggiunge che “sicurezza, proliferazione degli armamenti e trattamento degli scarti restano problemi”. E' una frase ambigua: gli industriali del nucleare ci leggono una legittimazione e applaudono, organizzazioni ambientaliste come Greenpeace fanno notare che una centrale nucleare non emette gas di serra ma comporta altri problemi di sicurezza e inquinamento. E che in ogni caso investire in energie rinnovabili e in efficenza è più efficace e immediato.
Il messaggio del Ipcc in ogni caso è chiaro: i prossimi due decenni sono cruciali, per evitare una catastrofe globale bisogna cominciare subito. La palla passa ai governi.

La bio-economy avanza, e fa disastri

Marina Forti
La bio-economy avanza, e fa disastri
Tratto da “il manifesto”, 11 maggio 2007
Se davvero il mondo vorrà fare un uso massiccio di «biocarburanti», sarà un disastro. Così avverte un rapporto di Un Energy, organismo dell'Onu che coordina 30 organismi in qualche modo legati all'energia e allo sviluppo sostenibile (dalla Banca mondiale alla Fao). Il rapporto, diffuso mercoledì, è forse il più completo studio finora realizzato sui carburanti tratti dalle piante, a cui il prefisso «bio» da un'immagine tutta positiva. La realtà è che la corsa globale a passare dal petrolio ai carburanti vegetali (agrocarburanti è il nome più appropriato) porterà ad aumentare il tasso di deforestazione, all'espulsione dei piccoli contadini dalla terra, e all'aumento dei prezzi degli alimentari e dunque della povertà, dice Un Energy: a meno che siano gestiti con molta attenzione, dice il rapporto a cui ha contribuito una trentina di organismi dell'Onu.
Riassumiamo i dati di fatto: gli agrocarburanti sono visti dai paesi industrializzati come un modo per ridurre le emissioni di gas «di serra» dovute all'uso di combustibili fossili per i trasporti (anche se a conti fatti è discutibile che le riducano davvero), e forse soprattutto un modo per calmierare il prezzo della benzina, visti i rialzi del petrolio. È inoltre un modo per espandere il mercato di alcune derrate agricole - palma da olio, mais, canna da zucchero, soya, quelle più usate per trasformarle in benzine (per agrocarburanti si intende l'etanolo, ottenuto di solito da mais o canna da zucchero, o i «biodiesel», più spesso da olii come quello di palma).
Ma è proprio qui che cominciano i «contro». L'industria degli agrocarburanti sta emergendo come un settore economico multimiliardario e in crescita rapidissima, che punta a fornire entro vent'anni un quarto dei carburanti usati gobalmente (l'Unione europea si è data l'obiettivo di portare al 10% la parte di queste benzine entro il 2020). Questo significa che la domanda di certe derrate cresce in modo vertiginoso: l'anno scorso oltre un terzo del raccolto di mais negli Stati uniti è stato convertito in etanolo, cioè il 48% più dell'anno prima, e si prevede che molti più farmers sceglieranno di seminare mais negli anni a venire per beneficiare del boom. Il Brasile usa da tempo gli scarti di canna da zucchero per produrre etanolo e progetta di espandere il settore - di recente ha firmato accordi in questo senso sia con gli Usa, sia con paesi europei come l'Italia. La Cina segue a ruota. In Indonesia o Malaysia le piantagioni di palma da olio, derrata già molto richiesta dalle industrie alimentare, dei detergenti e cosmetica, si espandono per diventare «biodiesel». Il rapporto delle Nazioni unite riconosce ciò che molti ambientalisti vanno dicendo da qualche tempo: questa corsa agli agrocarburanti si salda in una nuova pressione a tagliare foreste. «Dove queste derrate sono coltivate a scopo di produrre energia, la coltivazione su larga scala porterà a una significativa perdita di biodiversità, erosione dei suoli, perdita di nutrienti nei suoli. Anche colture variate avranno un impatto negativo se sostituiranno foreste vergini e praterie». Il documento discute poi se coltivare per produrre carburanti aiuti la «lotta alla povertà», enunciata sempre come primo obiettivo di ogni politica dell'Onu. Il documento osserva che l'aumento dei prezzi andrà a beneficio di alcuni coltivatori e a detrimento di altri; ma farà rincarare anche gli alimentari «con conseguenze negative per la sicurezza alimentare» dei poveri, rurali e urbani. Inoltre, le colture su larga scala «possono risultare in una concentrazione della proprietà terriera che espellerà i contadini più poveri dalla terra». Non solo: «Grandi investimenti segnalano già l'emergere di una nuova bio-economy, con la possibilità che azuiende ancora più grandi entrino nell'economia rurale, mettendo sotto pressione gli agricoltori controllando il prezzo pagato per i loro prodotti».
Il risultato sarà pesante per gli ecosistemi, devastante per le società umane e catastrofico per il clima: altroché tagliare emissioni di gas di serra!

Usa. Salta un'altra diga, e un fiume “rinasce”

Marina Forti
Usa. Salta un'altra diga, e un fiume “rinasce”
Tratto da “il manifesto”, 27 luglio 2007
Sono cominciati grandi lavori nel bacino del fiume Sandy, in Oregon, stato nordoccidentale degli Usa. Martedì squadre di operai hanno fatto brillare circa 2.000 chili di esplosivo, per far saltare la parte alta della diga di Marmot, e i lavori proseguiranno tutta l'estate: entro l'autunno la diga che per quasi un secolo ha dato energia elettrica alla città di Portland sarà demolita. “Comincerà un nuovo capitolo nella vita della fauna selvatica del fiume Sandy”, si legge nelle note di stampa diffuse da Portland General Electric (Pge), l'azienda che ha in proprietà l'annessa centrale idroelettrica. Pge fa notare che Marmot dam, alta poco meno di 15 metri, sarà la diga più grande mai “decommissionata” in Oregon, e la più grande demolita in tutto il nord-ovest americano negli ultimi 40 anni. Un lavoro impegnativo: per demolire Marmot Dam è stata prima costruito uno sbarramento di terra provvisorio a monte, in modo da creare una zona di lavoro asciutta. Pge spenderà 17 milioni di dollari per demolire Marmot e la “sorella” Little Sandy Dam, sull'omonimo fiume Little Sandy. Del resto, la centrale idroelettrica (chiamata Bull Run) era inattiva ormai dal 1999. Era capace di produrre abbastanza energia da alimentare oltre 10mila abitazioni, ma ormai ammodernare l'impianto sarebbe stato costoso: la stessa energia sarà prodotta in modo più conveniente da impianti eolici. Così Pge ha deciso che “era tempo di restituire la zona alla sua vita naturale”. Rimosse le due dighe (e poi un tunnel che trasferiva acqua da un reservoir all'altro), per la prima volta da 100 anni i salmoni e altri pesci avranno libero passaggio per tutto il corso del Sandy river (i salmoni hanno un ciclo di vita migratorio); la zona passerà allo stato dell'Oregon e diventerà il centro di una zona di “conservazione e ricreazione”. La demolizione della diga di Marmot è un passo notevole, applaudito dalle organizzazioni ambientaliste Usa. Ma non è certo la prima diga “decommissionata” sui fiumi degli Stati uniti. Nel solo anno 2005 ben 56 dighe in 11 stati sono state demolite, apprendiamo dagli archivi del International Rivers Network, rete ambientalista che si batte contro le dighe e per la salvaguardia degli ecosistemi fluviali: dal '99 sono state smontate oltre 185 dighe. Opere obsolete, che ormai provocavano più costi - finanziari ed ecologici - che benefici: meglio demolirle. E questo dovrebbe far pensare. Le dighe sono state uno dei miti dello sviluppo del diciannovesimo e del ventesimo secolo, nato nella vecchia Europa ma dispiegato in tutta la sua potenza proprio negli Stati Uniti, dove hanno accompagnato la colonizzazione del “lontano Ovest”. Negli anni ' 30 del 1900 le dighe sono state un elemento chiave del New Deal, la strategia di grandi opere (e di redistribuzione del reddito) che ha rimesso in moto l'economia americana - dalla Tennessee Valley al fiume Columbia. Il binomio dighe-sviluppo è rotto ormai da tempo - almeno nei nostri paesi. Nel dopo Seconda guerra mondiale però è stato trasferito ai paesi “poveri”, prescritto come ricetta per uscire dal sottosviluppo. L'idea di sfruttare i fiumi per produrre energia è attraente e logica, si capisce che vi abbiano pensato i dirigenti di grandi nazioni povere che cercavano uno sviluppo autocentrato. La macchina degli “aiuti allo sviluppo” dei governi occidentali ci si è buttata (voleva dire finanziare gigantesche commesse per imprese europee e americane), e negli anni '50 è cominciato un boom, cresciuto fino agli anni '70 (quando sono state commissionate oltre 5.000 dighe), solo in flessione negli '80. Nell'ultimo decennio del secolo il ritmo è rallentato, ma restano in cantiere alcuni grandi progetti, sempre più contestati. Ormai è chiaro che i benefici economici sono stati sovrastimati, e sottovalutati invece i costi ambientali, sociali e umani. Ma non importa: mentre gli Usa demoliscono le proprie dighe, gli organismi finanziari emanati da Washington continuano a finanziare grandi dighe dove possono...

I falsari di Wikipedia

Marco D'Eramo
I falsari di Wikipedia
Tratto da “il manifesto”, 22 agosto 2007
In tutta la ricca storia delle grandi enciclopedie, Wikipedia su Internet è quella più democratica e collaborativa, aperta a tutti i contributi e a tutte le correzioni. Ma il prezzo della totale apertura è la totale manipolabilità. Da tempo si sospettava che molte voci di quest'enciclopedia digitale fossero deformate ad arte, ma ora un motore di ricerca lanciato il 13 agosto negli Stati uniti, Wikiscanner, permette d'identificare gli autori delle modifiche apportate da anonimi contributori non sempre mossi a seguir “virtute e conoscenza”, come riferisce il quotidiano francese Le monde. Creato dallo studente in informatica Virgil Griffith, Wikiscanner ha così scoperto che dipendenti di giganti capitalisti come Fox News, CocaCola, Dell, o persino di colossi dei diritti umani come Amnesty International avevano epurato tutti i passaggi che contenevano critiche ai loro datori di lavoro. Mentre Apple e Micrtosoft avevano tentato di alterarsi reciprocamente le voci. Ma le manipolazioni sono ben più pesanti quando a effettuarle sono persone dei “servizi pubblici”. Un membro dell'Fbi ha cancellato le foto aeree della prigione di Guantanamo. Un funzionario del governo israeliano ha definito “razzista” la condanna che il Tribunale dell'Aia ha pronunciato contro il muro di sicurezza. Secondo il magazine Digital Trends calcolatori della Cia hanno “editato” la voce sul presidente iraniano Mahumd Ahmadinejad, mentre computer del Vaticano hanno espunto dalla voce che riguarda Gerry Adams del Sinn Fein il brano in cui si parla di sue impronte digitali che sarebbero state trovate su un'auto usata per un duplice omicidio nel 1971. Anche la versione francese di Wikipedia è stata alterata dai soggetti più disparati per rimuovere, cancellare, aggiungere, abbellire. Sarebbe istruttivo far girare Wikiscanner sulla versione italiana. Chissà quante voci avrà curato Pio Pompa, consulente personale dell'ex direttore del Sismi?

Sui cieli Usa un aereo carico di testate nucleari

Vittorio Zucconi
Sui cieli Usa un aereo carico di testate nucleari
Tratto da “la Repubblica”, 6 settembre 2007
L´angelo dell´olocausto nucleare è tornato a battere le ali, per qualche ora, nel cielo degli Stati Uniti. Chissà se Bush ha pianto di nuovo, la sera del 30 agosto scorso, quando l´attendente di servizio alla Casa Bianca gli ha dovuto annunciare che, ehm, scusi, mi permetta, signor Presidente, un bombardiere strategico sta svolazzando senza autorizzazione nei cieli americani con, ehm, sei testate nucleari a bordo. Al Qaeda? No, signor presidente, la US Air Force. Avrebbe avuto ragione di piangere, Bush, perché “la gaffe”, come l´hanno chiamata pudicamente al Pentagono, è qualcosa che regolamenti, addestramento, comandi e addirittura trattati internazionali avrebbero dovuto impedire per sempre. Ci era stato garantito che mai più un B52, la superfortezza volante immortalata da Stanley Kubrick nel suo Dottor Stranamore, potesse decollare da una base americana e volare per ore portando nella pancia sei missili da crociera armati di ogive all´idrogeno. Gli ordigni chiamati W80, da 150 kilotoni ciascuno, circa dieci Hiroshima a testata. Invece è accaduto, appunto giovedì 30 agosto, quando dalla base di Minot, nel territorio del Nord Dakota, uno degli 85 B52 ancora in servizio attivo per lo Air and Space Command si è alzato in volo per un trasferimento di routine verso la base di Barksdale, in Louisiana, un volo di tre ore, e qualcuno si è dimenticato - forse - di smontare le testate termonucleari dai sei missili Cruise nella pancia. Nessuno, ci rassicurano, ha corso alcun pericolo, perché quelle sei ogive non erano innescate e soltanto il comandante supremo, il Presidente stesso, possiede i codici per il lancio e l´attivazione, custoditi nel “football”, nella valigetta che l´attendente porta, incatenata al polso. Il dottor Stranamore, ci garantiscono, non lavora più alla Casa Bianca, neppure nell´ufficio del vice Presidente Cheney che sogna di bombardare l´Iran. Ma delle rassicurazioni ufficiali è sempre lecito dubitare e il fatto che il Presidente stesso sia stato informato del problemino, e che la Air Force, sempre contraria ad ammettere che uno di propri aerei o missili portino armi nucleari, abbia dovuto ammetterle pubblicamente uno di quegli eventi dei quali non veniamo a sapere mai nulla, sembra suggerire che in quelle tre ore di volo, molti ufficiali superiori e dirigenti di governo abbiano conosciuto momenti di vivo nervosismo e masticato molti sigari spenti. Probabilmente, mai nervosi quanto l´equipaggio del B52 stesso, che è stato informato soltanto quando era ormai in quota di volo, che i sei Cruise nella loro pancia contenevano abbastanza esplosivo termonucleare per radere al suolo sessanta Hiroshima. E dunque avrebbero dovuto guidare quell´autobus, come si dice nel gergo dell´aviazione, pilotare il “Buff”, il vecchio grosso brutto fottuto volante, il soprannome dei B52, con particolare prudenza. Una bomba termonucleare all´idrogeno, come quelle trasportate “per errore” sui cieli americani non può esplodere se non è innescata. Ma gli incidenti accaduti proprio ai B52, un aereo che nella sua prima seria entrò in servizio oltre mezzo secolo fa, nel 1952, dimostrano che sganciare, o precipitare, con testate atomiche, non è senza conseguenze. Quando un B52 precipitò a Palomares, in Spagna, nel 1966 dopo una collisione con una cisterna volante, radiazioni mortali inquinarono 1.400 tonnellate di terreno prelevato dal fondo marino, trasportate poi negli Stati Uniti e ancora lo scorso anno, nel 2006, i governi di Madrid e di Washington firmarono un accordo per la decontaminazione definitiva, 40 anni dopo. E furono necessari sei mesi per ripulire e rendere sicura la base di Thule, in Groenlandia, dove un altro B52 si era schiantato con quattro bombe a bordo. Il comandante della base di Minot è già stato destituito e vari ufficiali e sottufficiali “decertificati”, cioè esclusi dal personale che si occupa di armi nucleari. La solita inchiesta ufficiale è cominciata, per ordine del generale Raaberg, capo del Comando Aerospaziale, che garantisce, soprattutto ai russi con il quali fu concluso l´accordo che vietava il trasporto di ogive nucleari sui bombardieri. E´ stata una semplice “gaffe”, un errore, una distrazione, ci dicono, e possiamo stare tranquilli, Ma che sarebbe accaduto, è stato chiesto a un generale in pensione dell´Air Force, Don Shepperd, se per caso, per errore, per una impossibile coincidenza, quei sei Cruise fossero stati lanciati con le bombe attivate? “Che un terzo degli Stati Uniti sarebbero divenuti inabitabili”, ha risposto. Su, coraggio, non pianga, presidente.

Crisi ambientale nell'Afghanistan in guerra

Marina Forti: Crisi ambientale nell'Afghanistan in guerra
Tratto da “il manifesto”, 29 agosto 2007
L'Afghanistan si troverà in una grave crisi ambientale, con terribili conseguenze per i suoi circa 27 milioni di abitanti, se il governo e le organizzazioni umanitarie internazionali continueranno a ignorare il degrado crescente dell'ambiente naturale del paese. E' l'allarme lanciato da alcuni esperti ed ecologi, autori di uno studio diffuso di recente dal ministero afghano per l'agricoltura e l'alimentazione.
Un allarme grave: “Oltre l'80% del territorio è esposto all'erosione dei suoli, la fertilità della terra sta declinando, la salinizzazione è in aumento, le falde acquifere si stanno abbassando in modo significativo, la perdita di copertura verde è estesa e l'erosione dovuta all'acqua e al vento è diffusa”, dicono gli autori del rapporto, Sustainable Land Management 2007 (“gestione sostenibile del territorio”).
Non si può dire che il rapporto abbia fatto parlare di sé, fuori dallo stretto ambito degli operatopri umanitari (noi ne abbiamo trovato notizia su Irin news, notiziario on-line dell'ufficio dell'Onu per gli affari umanitari, in un dispaccio del 30 luglio). Eppure, è così chiaro che i conflitti armati infieriscono sugli ambienti naturali, e che questo significa spesso privare le popolazioni dell'indispensabile per vivere - terra da coltivare, acqua, foreste - finché la competizione per risorse naturali scarse e degradate diventa un elemento del conflitto stesso.
Un circolo vizioso ben esemplificato dall'Afghanistan. Abdul Rahman Hotaky, presidente dell'Organizzazione afghana per i diritti umani e la protezione ambientale (Aohrep), organizzazione non governativa, spiega che il futuro dell'ambiente del paese è grigio e questo si deve a parecchie cause: più di 25 anni di conflitto armato, continui spostamenti di popolazione, e poi la siccità prolungata degli ultimi anni insieme all'abuso di risorse naturali, la mancanza di un'autorità in grado di applicare le leggi di protezione ambientale, la mancanza di adeguate politiche ambientali. “Negli ultimi decenni, abbiamo perso oltre il 70% delle nostre foreste in tutto il paese”, ha detto Hotaki a Irin. E la deforestazione, aggiunge, ha molte implicazioni sociali, ambientali ed economiche per milioni di afghani. Una delle implicazioni più immediate e visibili è la crescente vulnerabilità del paese a vari disastri naturali. “Di recente abbiamo visto un numero crescente di inondazioni, valanghe e frane e questo è una conseguenza della deforestazione”, dice Hazrat Hussain Khaurin, direttore del dipartimento per le foreste presso il ministero dell'agricoltura di Kabul (citiamo sempre dal dispaccio di Irin news). Le statistiche sono sempre incerte in Afghanistan, vista la difficoltà di raccogliere dati aggiornati: i dati più accreditati però dicono che fino ai primi anni '80 circa 19mila chilometri quadrati di territorio afghano (su un tutale di 652mila kmq) erano coperti di foreste, che davano una fonte di reddito sostenibile al governo e ai cittadini. Dopo tanti anni di guerra di quelle foreste è rimasto molto poco.
Il rapporto citato da Irin fa notare inoltre che l'agricoltura e l'allevamento sono la base dell'economia afghana: ma almeno metà delle terre arabili non sono state coltivate negli ultimi vent'anni a causa di vari fattori naturali (siccità o altro) e umani (i combattimenti, o la fuga di intere comunità). Anche per questo, le terre desertiche si stanno rapidamente espandendo nelle regioni meridionali, orientali e settentrionali del paese. “Migliaia di ettari di terre agricole sono stati coperti dalle sabbie in almeno sette province meridionali e sud-orientali”, dice Khaurin. Cespugli e altre piante che una volta creavano barriere naturali alla sabbia o alle alluvioni sono state usate come legna da ardere. Molti sono tornati alle loro terre dopo la caduta dei Taleban, ma le hanno trovare aride e improduttive. “La desertificazione ha esacerbato la povertà così diffusa nell'Afghanistan rurale”, dice Hotaky, della Ong per i diritti umani e l'ambiente. Il fatto è che la crisi ambientale, l'agricoltura o la povertà non sono nelle priorità di governo...

giovedì 27 dicembre 2007

Scoperto il tesoro dei galli irriducibili «amici» di Asterix

Scoperto il tesoro dei galli irriducibili «amici» di Asterix

da "Il Giornale", giovedì 27 dicembre 2007

Un tesoro di 545 monete risalente alla cultura celtica dei Galli e coniate in una lega naturale di elettro, composta da oro e argento, risalenti al 75-50 a.C., è stato scoperto in Bretagna.
Il tesoro è stato ritrovato durante uno scavo nel sito di Laniscat, vicino alla costa, da un gruppo di archeologi dell’Istituto nazionale francese delle ricerche. Le 545 monete sono rimaste sepolte, per oltre duemila anni, sotto 25 centimetri di terra, in un luogo nel sud-ovest della costa bretone dell’Armor che gli archeologi ipotizzano fosse abitato già dal IV secolo a.C. Su un lato delle monete è raffigurato un cavaliere che monta un destriero armato con lancia e scudo, mentre sull’altro lato è ritratta una testa umana con sembianze grottesche che si avvicinano a quelle di cinghiale. Le monete, secondo quanto ipotizzano gli archeologi francesi, furono utilizzate dal popolo degli Osismi, stabilitosi in Bretagna nel IV secolo a.C., dove rimasero fino alla conquista romana. Le 545 monete furono disperse, per motivi ignoti, su 200 metri quadrati di terreno poco più di duemila anni fa e da allora rimasero per sempre sotterrate.
Secondo la missione archeologica si tratta della più importante scoperta di un tesoro gallico realizzata in Armorica, il nome che nell’antichità era dato all’odierna Bretagna e ai territori compresi tra la Senna e la Loira. Una regione nota a tutti gli appassionati di fumetti.
È infatti proprio in un villaggio dell’Armorica, abitato da irriducibili Galli, che resistono sempre all’invasore romano, sono ambientate le avventure a disegni di Asterix e Obelix.

I gendarmi del papa

I gendarmi del papa

Il Manifesto del 8 dicembre 2006, pag. 1

di Gianni Rossi Barilli

Come mai quando i cattolici minacciano di spaccare la maggioranza «per ragioni di coscienza» li si accontenta sempre? E come mai invece nessuno gli dice mai che c'è un limite a tutto e che se intendono far cadere Prodi si devono assumere la responsabilità storica di riconsegnare l'Italia nelle mani di Berlusconi? È uno dei tanti misteri insoluti della politica italiana. Un «fatterello» successo ieri in sena­to conferma in compenso la regola: quando i teodem (cioè gli esponenti della lobby vaticana eletti nel centrosi­nistra) fanno la voce grossa bisogna dargliela vinta sempre e comunque. L'oggetto del contendere, nel caso specifico, era un emendamento di maggioranza alla legge Finanziaria che avrebbe dato la possibilità ai con­viventi che ereditano per testamento i beni del loro partner di pagare la tassa di successione alla stessa aliquota prevista per i coniugi e per i parenti più stretti. Si noti che la tassa di successio­ne si paga sui patrimoni superiori al milione di euro e si immagini a quale percentuale della popolazione am­montino i conviventi che ogni anno ereditano tali fortune.



Il problema, come pare ovvio, era di principio: i gendarmi parlamentari del papa non possono accettare nep­pure in caso di morte una qualsiasi forma di equiparazione tra le coppie di fatto e quelle unite in matrimonio. Costi quel che costi. Sull'altare dei lo­ro dogmi sono pronti, oltre che a lotta­re a mani nude con i leoni, perfino a far saltare la Finanziaria, ovvero la più sacra tra le leggi per un leader medio del centrosinistra.



Per scongiurare l'orrida eventuali­tà, gli strateghi dell'Unione si sono messi al lavoro e hanno prodotto, per dirla con la capogruppo dell'Ulivo in senato Anna Finocchiaro, «un grande fatto politico». Mettendola così viene l'acquolina in bocca: ci si rimane quin­di anche male scoprendo che la mira­bolante trovata è solo l'ennesimo cedi­mento ai teodem. L'Unione si è infatti ricompattata intorno a santa Finanzia­ria grazie al ritiro dell'emendamento sulle successioni, in teoria compensa­to da un ordine del giorno che impegna il governo a preparare entro gen­naio un disegno di legge sulle unioni di fatto come da programma.



Ora, che in una qualunque sede po­litica gli ordini del giorno siano pura fuffa non è un segreto per nessuno. Così come non lo è il fatto che la sola cosa di cui c'è abbondanza in materia di disciplina delle convivenze sono le proposte legislative. D problema caso­mai è discuterle e approvarle, ma di questo il grande evento a cui si riferi­va Anna Finocchiaro non parla.



Non ci vuole la sfera di cristallo nep­pure per prevedere che non appena si comincerà a discutere di diritti effet­tivi per le persone che convivono i teo­dem e i loro amici (vedi il ministro Ma­stella) alzeranno nuove barricate e ri­metteranno a repentaglio il destino della coalizione. Sarebbe dunque bel­lo sapere perché perfino il capogrup­po del Prc al senato Giovanni Russo Spena parla dell'odg di ieri come di «un atto politico che non potrà essere aggirato in nessun modo».



Alla fine, forse, la domanda che ci ponevamo all'inizio ha una risposta. I cattolici ce l'hanno sempre vinta per­ché, giusta o sbagliata che sia, un'idea chiara in testa ce l'hanno. Che dire invece dei laici del centrosinistra? C'è un orizzonte oltre la Finanziaria di Padoa Schioppa?




Come Clinton favorì la new economy

Come Clinton favorì la new economy

Il Riformista del 11 dicembre 2006, pag. 3

di Fabrizio Spagna

Gli Stati Uniti rappresentano senza dubbio il motore dell'eco­nomica mondiale. In molti casi i modelli di sviluppo nati negli Usa sono stati rapidamente esportati tanto da diventare fenomeni glo­bali. Un esempio su tutti è rap­presentato di sicuro dall'econo­mia della conoscenza meglio no­ta come «new economy». Gli Stati Uniti, proprio grazie all'e­nergia sprigionata da questo modello di sviluppo, hanno potuto godere di un decennio di forte crescita senza mai evidenziare al­cun segnale di rallentamento. Un fenomeno senza pre­cedenti che è coinciso con gli anni in cui Bill Clinton era alla Casa Bianca assieme al suo vice Al Gore.



Le domande che legittimamente si pongono sono: qual è il motore che gene­ra queste innovazioni di pensie­ro, prima ancora che tecnologi­che e di processo, e qual è il ruo­lo della politica in quest'ambi­to? Queste domande appaiono quanto mai di attualità se si con­sidera che i Democratici hanno appena vinto le elezioni di me­dio termine negli Stati Uniti e si apprestano, secondo i più auto­revoli sondaggi, a riconquistare tra due anni la Casa Bianca.



Va detto che le opinioni su questo argomento sono contra­stanti. In Silicon Valley, proprio l'epicentro da cui si è propagato in tutto il pianeta il fenomeno della new economy, si tende in generale a minimizzare. Le scelte di politica economica rappresen­tano le regole del gioco all'inter­no delle quali è l'imprenditore che con le sue quattro C (creati­vità, competenza, caparbietà e coraggio) crea il vero sviluppo economico. Un ragionamento formalmente corretto che però sottovaluta l'importanza delle regole nel definire il quadro delle conve­nienze per quell'imprenditore che, comunque, deve poter con­tare su delle qualità superiori al­la media per emergere.



Per tentare un ragionamento organico bisogna partire dai dati oggettivi. Per quanto attiene la ri­cerca e lo sviluppo, si stima che gli Stati Uniti coprano circa il 45 per cento delle spese totali nel mondo. Va considerato che il pe­so del Pil americano rispetto al Pil mondiale è di circa il 28 per­cento e, dunque, il primo elemen­to è che gli Stati Uniti spendono più degli altri Paesi in proporzio­ne al loro peso economico in R&S attribuendo al comparto un valore determinante per lo svi­luppo della loro economia. Per completare la statistica, si può notare come le spese Usa in R&S risultino superiori a quelle dei sei Paesi più industrializzati messi insieme: Giappone, Cana­da, Francia, Germania, Italia e Gran Bretagna. Queste spese in R&S ammontano a circa il 3 per­cento del Pil statunitense mentre la media Ue si assesta al circa il 2 per cento. Fin qui sono cose note. Ma c'è di più.



Gli Stati Uniti indirizzano in­genti investimenti pubblici nel campo del R&S per realizzare una vera e propria politica eco­nomica a vantaggio delle indu­strie nazionali. In questi ultimi sei anni gli investimenti pubblici in R&S si sono indirizzati quasi esclusivamente al settore milita­re. Facendo il confronto con l'Eu­ropa, ad esempio, si può notare come i Paesi dell'Ue si muovano quasi sempre autonomamente. I fondi europei in R&S rappresen­tano il 5 per cento delle spese totali dei Paesi Ue mentre il 95 per cento delle risorse in R&S è erogato dai singoli Stati e allocato in base alle politiche di ciascun Paese dell'Ue.



Un altro fattore competitivo nel campo dell'innovazione, negli Stati Uniti, è rappresentato dal sistema delle università e dalla loro apertura verso quello che viene chiamato il meticciato cul­turale. Le università rappresenta­no una parte fondamentale della forza dell'economia Usa. Secon­do il rapporto dell'Oecd sull'edu­cazione, gli Stati Uniti spendono il 2,7 per cento del loro Pii per le università, contro l'I per cento di Francia, Germania e Gran Breta­gna. Negli Usa, poi, il finanzia­mento universitario è privato al 50 per cento mentre in Europa i finanziamenti sono quasi esclusi­vamente pubblici. Grazie a que­sto sistema di incentivi e di finan­ziamenti, il 30 percento degli stu­denti delle università americane è straniero e oltre il 50 per cento dei dottorati di ricerca è dedicato a cittadini di origine non ameri­cana. Più della metà degli studen­ti iscritti alle facoltà scientifiche americane è straniera e come lo­gica conseguenza più della metà delle start-up di Silicon Valley è guidata da neo-imprenditori stra­nieri, principalmente asiatici.



Sebbene i dati riportati rap­presentino soltanto una piccola parte di quanto gli Stati Uniti hanno fatto e stanno facendo per mantenere alto il loro livello di competitività sui set­tori più strategici ad alta intensità di cono­scenza, si può già tentare di tirare alcune conclusioni. Nono­stante le regole del mercato, la disponi­bilità di capitali e un sistema più efficiente rappresentino sicuramente ele­menti chiave del successo eco­nomico Usa, il ruolo della politi­ca, inteso come capacità di pre­vedere i grandi cambiamenti a livello mondiale e predisporre un sistema Paese in grado di af­frontare le sfide della competiti­vità con gli strumenti adeguati, è altrettanto importante per il successo di un grande Paese co­me gli Stati Uniti.



Nel 1993 quando Bill Clinton arrivò per la prima volta alla Ca­sa Bianca, il presidente iniziò a sostenere un progetto, noto come National information infrastructure (Infrastruttura nazionale informativa), che si collocava al­l'interno di un più generale piano per la costruzione di una infra­struttura mondiale dell'informa­zione. I punti cardine di questo piano erano: promuovere gli in­vestimenti nel settore privato, estendere il concetto di servizio universale al fine di assicurare che le risorse informative siano disponibili a tutti a prezzi abbor­dabili, agire come catalizzatore per la promozione dell'innovazione tec­nologica e delle nuo­ve applicazioni, assi­curare la sicurezza delle informazioni e l'affidabilità della re­ti, offrire accesso al­l'informazione go­vernativa, tutelare i diritti di proprietà intellettuale. Tutti elementi che hanno contri­buito in modo determinante al successo di quella che tutti ormai chiamano economia della cono­scenza. Ora, a distanza di tredici anni, i Democratici tornano ad avere un ruolo fondamentale nelle scelte economiche degli Stati Uniti e la mente economica è ancora la stessa, Robert Rubin, colui che allora fu il ministro del­l'Economia americano. Il rilancio sembra assicurato.

L'ultima moda negli Usa: aziende senza dipendenti

L'ultima moda negli Usa: aziende senza dipendenti

Corriere della Sera del 14 dicembre 2006, pag. 31

di Massimo Gaggi

«Piccolo è bello» è uno slogan non più di moda in Italia, da quan­do è emerso che le imprese minori sono redditizie, ma non hanno le risorse per presidiare i grandi mercati internazionali e per sostenere investimenti in ricerca e sviluppo. Negli Stati Uniti, invece, «picco­lo» va di moda: non solo in libreria, dove è appena uscito «Small is the new Big», di Seth Godin, un imprenditore diventato il guru del «microbusiness», ma anche nella realtà del tessuto aziendale. Le microa­ziende senza dipendenti sono, infatti, più di 20 milioni, secondo un'analisi della Small Business Administration, l'Agen­zia federale per le piccole imprese, con­dotta in collaborazione col quotidiano Usa Today. Parliamo di una situazione di­versa: all'America non mancano certo i grandi gruppi che spendono miliardi di dollari per la ricerca. A fianco di questo tèssuto — che rimane vitale, ma sta per­dendo occupati — negli ultimi anni sono però cresciute mille attività autonome: non solo professionisti e artigiani, ma an­che commercianti la cui vetrina è un per­sonal computer, gente che ha imparato a vendere on Une e consegnare la mercé usando spedizionieri come FedEx o Ups.



LA NUOVA FORMULA — Ma il fenomeno più in crescita riguarda le imprese che riesco­no a concepire, produrre e consegnare un prodotto senza avere dipendenti: il trion­fo dell’outsourcing. Cominciò tutto molti anni con industrie come quella automobi­listica che affidavano a imprese esterne la produzione di componenti. Oggi le grandi Case mondiali dell'auto fanno qua­si solo progettazione, assemblaggio fina­le e commercializzazione del prodotto.



Molti imprenditori che hanno scelto il «working solo» (una filosofia divenuta or­mai marchio, coi suoi giornali, i centri di orientamento, i blog) stanno battendo la stessa strada, aiutati dalle nuove tecnolo­gie della «rete». A spingerli è anche il desi­derio di evitare gli oneri (finanziari e buro­cratici) legati alla gestione di una forza-la­voro. Zero dipendenti significa delegare le principali funzioni aziendali a speciali­sti secondo il «modello Hollywood». Chi produce un film in genere mette insieme una squadra di attori, sceneggiatori, tec­nici, che si scioglie quando la pellicola è pronta per le sale cinematografiche. Qual­cosa di simile avviene anche in queste microimprese: chi ha l'idea di un prodotto o di un servizio innovativo trova, attraver­so i siti specializzati, i professionisti ne­cessari. E, sempre attraverso il web, rag­giunge i potenziali acquirenti.



PUBBLICITÀ' E VIDEO — È il caso di John Whiteside, un esperto di marketing di Houston che ha creato una ditta specializza­ta in campagne di lancio di nuovi prodot­ti. Non ha dipendenti, ma con lui collaborano altri tre esperti con base ad Alexandria, non lontano da Washington, a Bo­ston e a Syracuse. Poi c'è Nicolas Vantomme, regista globetrotter di video, che pro­duce programmi televisivi per il mercato Usa dal suo loft in Belgio, usando tecnici americani. É ancora «Billable Hour», so­cietà che produce oggetti «personalizza­ti», dagli orologi ai biglietti d'auguri, col lavoro di due persone. Il resto lo fanno un tecnico web di Buffalo, un grafico dello Utah, un designer di San Diego. Gli ogget­ti vengono importati o prodotti da forni­tori sempre diversi. In questo, come in al­tri casi, una delle chiavi principali sta nei programmi di editing disponibili su Inter­net, spesso gratuiti. Un settore che sta crescendo anche grazie allo sviluppo delle cosiddette «reti sociali», fenomeno che ha creato una disputa accademica: per Yochai Benkler, professore di Yale, la produzione di beni che hanno un contenuto di informazioni sta evolvendo da un mo­dello industriale basato sul capitale a una produzione «orizzontale» guidata dalla logica dello scambio di conoscenze: un modello imprenditoriale «collaborati­vo» perfino più produttivo di quello delle imprese tradizionali. Secondo Nicholas Carr, ex direttore della Harvard Business Review, invece, quello che sta nascendo dalle «reti sociali» non è un nuovo genere di lavoro, slegato dal sistema dei prezzi: ben presto anche per queste prestazioni volontarie verrà individuato il giusto com­penso e nascerà una nuova area di mercato.



POTENZA DELLA «RETE» — Intanto le grandi imprese da tempo beneficiano dei contri­buti della «rete» nella forma del cosiddet­to crowdsourcing: l'«intelligenza colletti­va» disponibile su Internet che aiuta a sviluppare nuovi prodotti o a risolvere un problema. Ma, man mano che questa intelligen­za matura, il rapporto cambia fi­no a capovolgersi. Lo sanno bene gruppi come Cisco e Microsoft: l'azienda di Bill Gates, con le sue tecnologie è stata all'origine del­la «polverizzazione democratica» delle conoscenze, ma ora si ritro­va attaccata da microaziende figlie di questa nuova cultura che, usando sistemi operativi ormai gratuiti e programmi «open source», riescono a sottrarre lembi di mercato ai giganti in alcuni settori come la distri­buzione delle e-mail o dei «pacchetti» di dati sulle reti telefoniche. Le imprese in questione, ad esempio Vyatta e Zimbra, sono piccole, ma qualche dipendente ce l'hanno. Un fenomeno che affianca quello delle imprese individuali che crescono al ritmo del 7%: quest'anno supereranno i mille miliardi di dollari di giro d'affari.

Verdetto storico: ai boscimani le loro terre

Verdetto storico: ai boscimani le loro terre

Corriere della Sera del 14 dicembre 2006, pag. 19

di Cecilia Zecchinelli

«My heart today is nice», il mio cuore oggi è bello, ha gri­dato felice in inglese Roy Sesana, leader dei boscimani del Botswana. «Abbiamo pianto così a lungo ma ora versiamo lacrime di gioia. Torneremo subito a casa: i nostri antenati hanno bisogno di noi laggiù, ci aspettano», ha aggiunto nella sua. lingua, danzando in uno strano mix di vestiti — pelli di animali selvatici sopra giacca e cravatta, acconciatura di corna — alla fine di una lunga, disperata battaglia legale.



È stata la Corte Suprema del Botswana, lo Stato del­l'Africa meridionale primo pro­duttore al mondo di diamanti e tra i più ricchi e stabili del Continente, a decretare che il popolo dei San o Basarwa, chiamati anche boscimani (dall'inglese bushmen, uomini della boscaglia), ha diritto di tornare nelle terre dove ha vis­suto per 20 mila anni. Che lo sfratto totale dalla Riserva del Kalahari centrale, messo in at­to dal governo del Botswana nel 2002, è «illegale e anticostituzionale». Che i discendenti dai primi abitanti dell'Africa australe non avranno bisogno di permessi per cacciare nel lo­ro deserto, grande come la Svizzera e uno dei luoghi più inospitali del mondo, ricchissi­mo però di minerali e soprat­tutto diamanti.



L'accusa di Sesana, che due anni fa aveva sfidato legalmen­te il governo, vedeva proprio nei diamanti una delle ragioni di quello sfratto dal Kalahari. Il governo e il colosso minera­rio De Beers volevano avere il deserto tutto per loro. E molti sostenitori stranieri, dall'attri­ce inglese Julie Christie al ve­scovo e Nobel per la pace De­smond Tutu, avevano appoggiato la causa anche per quel sospetto. Perfino Leonardo Di Caprio era stato tirato in ballo più di recente: l'attore prota­gonista di Blood Diamond, il film che uscirà a giorni sui «diamanti di sangue» usati per finanziare guerre civili in Africa, era stato oggetto di un appello dei boscimani. La sen­tenza è arrivata prima di una sua risposta.



II processo, il primo a essere stato trasmesso in diretta dal­la tv e dalla radio nazionali nonché il più lungo e costoso nella storia del piccolo Botswana, sembrava de­stinato a chiudersi con una sconfitta di Sesana e , del suo popo­lo. Un primo verdetto (2 giudici su 3) aveva di­spensato ie­ri mattina il governo dal fornire acqua ed elettricità nelle regioni desertiche e que­sto sembrava preludere a una sconfitta più ampia. Ma poi, quando nessuno sembrava più sperare, era arrivato il verdetto: anco­ra una volta 2 su 3 giu­dici, questa volta a favore dei San.


«Non ci sono rela­zioni tra diamanti e allontanamento dei boscimani», ha deliberato il tribunale : sostenendo in questo il governo, che ha sei settimane per appellarsi e giu­dica «falsamente romantica» la visione degli attivisti inter­nazionali: i boscimani, ormai, hanno abbandonato la loro vi­ta primitiva e sono stati spo­stati per completarne l'inte­grazione sociale. Ma contami­nati o puri che siano questi ul­timi «cacciatori-raccoglitori» d'Africa, la loro vittoria resta un evento storico, un caso che diventerà un precedente. Per il direttore di Survival, Stephen Corry, quel verdetto «rappresenta un successo non solo per i boscimani ma per tutti i popoli indigeni dell'Afri­ca». E perfino al di là dell'Afri­ca: in un mondo globalizzato, anche le tribù dell'Australia, delle Americhe e dell'Asia ieri di certo hanno gioito.

«Mose, quel via libera va sospeso”

«Mose, quel via libera va sospeso”
Roberta Brunetti
Il Gazzettino 16/11/2007

Ca' Farsetti ha depositato il ricorso contro il cantiere di Pellestrina: «Fu autorizzato sulla fiducia»

II ricorso al Tar del Veneto contro i cantieri del Mose a Pellestrina è pronto. Il Comune lo sta notificando in questi giorni a tutte le parti interessate: oltre alla Commissione di salvaguardia e alla Regione, il Magistrato alle acque, il Consorzio Venezia Nuova, i ministeri alle Infrastrutture e all'Ambiente. Un malloppo da una cinquantina di pagine - a firma del professor Federico Sorrentino e degli avvocati Nicolo Paoletti e Giulio Gidoni - che si chiude con la richiesta di sospensiva della delibera del 31 luglio scorso con cui la Commissione di salvaguardia diede il via libera al contestato cantiere sorto sulla spiaggia di Santa Maria del Mare. E il Tar, ancora prima di entrare nel merito, dovrà esaminare innanzitutto quest'istanza (in genere l'udienza viene fissata nel giro di una decina di giorni). Ma su che cosa si fonda il nuovo ricorso al Tar? Tanti gli argomenti noti: l'autorizzazione paesaggistica contestata, l'illegittimità di un parere che di fatto è una sanatoria, la mancanza di una Via statale (c'è solo quella regionale). I legali del Comune, poi, sollevano anche un' eccezione di costituzionalità perché la norma attuale non prevede il potere di veto per il rappresentante in commissione del ministero dell'Ambiente.
Tutto, ovviamente, ruota attorno a questo enorme cantiere le cui dimensione vengono ribadite, a più riprese, nel ricorso: 15 ettari di estensione per una «piattaforma situata sopra la spiaggia e costituita da una sovrastruttura (alta 2,60 metri, con bordi alti 3 metri) che si protende in mare per altri 450 metri, con ulteriore struttura in avanzamento verso il mare per l'alaggio dei cassoni di circa 200 metri», dove per realizzare i cassoni «ci sarà un movimento di materiali pari a un milione di metri cubi». Ebbene, per quest'opera che inizialmente doveva sorgere altrove (Cagliari, Ravenna o Brindisi) e realizzata invece in un'area soggetta a plurimi vincoli come Pellestrina non c'è stata una «preventiva autorizzazione paesaggistica». Il via libera della salvaguardia, in particolare, è arrivato a lavori già ampiamente realizzati: una sorta di "sanatoria" espressamente vietata - sottolinea il ricorso - in materia paesaggistica dal Codice dei beni culturali. Così la commissione non ha nemmeno potuto esaminare i dati tecnici sull'area prima dell'intervento. Il ricorso, a questo proposito, cita vari stralci della seduta: la battuta del rappresentante dell'ambiente, Stefano Boato ("Manca la relazione paesaggistica, la chiediamo perfino per altane e finestre"); ma soprattutto alcune dichiarazioni della soprintendente Renata Codello ("Non possiamo avere la sfera di cristallo per dire con certezza oggi se quei luoghi torneranno a essere paesaggisticamente e morfologicamente analoghi a quelli liberi", "Non possiamo fare un processo né ai fatti, né ai tempi, né ai materiali, perché nessuno di noi sa di preciso quale sia il modo di smaltirli, il modo di smontarli, cosa resti sotto"). Per il Comune «è evidente la gravità di tali affermazioni»: «in definitiva la commissione ha autorizzato un cantiere sulla fiducia, ossia facendo affidamento sull'impegno del Consorzio Venezia Nuova di ripristinare lo stato dei luoghi, non avendo però accertato né l'effettiva possibilità di tale operazione, né le modalità, né i tempi».
Ma il ricorso ipotizza anche altre violazioni: per la composizione della commissione di quel 31 luglio a cui parteciparono 3 rappresentanti della Soprintendenza (anziché 2 o 1) e 2 delle Ulss (anziché 1); per la mancata Via statale per un'opera contro cui si era espresso sia il ministero dell'ambiente che la commissione europea (per le direttive Habitat e Uccelli). Infine c'è la questione dell'illegittimità costituzionale di una commissione in cui rappresentante del ministero dell'ambiente (che sul Mose votò contro) non ha il potere di veto per le materie di propria competenza, a differenza di soprintendenza, Ulss, vigili del fuoco (che votarono a favore). Su questo i legali del Comune chiedono che si esprimi la Consulta. Ma la decisione spetta al Tar.

Allarme sul Garda. «Stop all'ecomostro»

Allarme sul Garda. «Stop all'ecomostro»
Luca Angelini
Corriere della Sera – Milano 17/11/2007

Un hangar di cemento sul porto di Moniga
Le associazioni ambientaliste chiedono l'abbattimento del nuovo edificio lungo 70 metri


MONIGA DEL GARDA (Brescia) - Quell'hangar non s'aveva da fare. La Soprintendenza ai beni architettonici e del paesaggio l'aveva detto non una, non due, bensì tre volte. Eppure, quel parallelepipedo di cemento di 60 metri per 70 e alto sei (anche se in parte interrato), è lì da vedere, dirimpetto al porto di Moniga. Con i suoi 350 posti barca sotto e i 136 posti auto sopra, nel parcheggio ricavato sul tetto e di proprietà del Comune. Alla faccia della Soprintendenza secondo cui la costruzione «altera le lente ondulazioni della collina che scende a lago».
Per gli ambientalisti di Italia Nostra, Legambiente, circolo Roverella Padenghe e Comitato per il parco delle colline del Garda, che hanno sollevato il caso, è uno scandalo. Di più, un male estremo che richiede un estremo rimedio: l'abbattimento.
Lo dice Rossana Bettinelli, presidente della sezione bresciana e vicepresidente nazionale di Italia Nostra: «Non ci si può limitare a una multa, altrimenti tutti penseranno che sul Garda si può costruire tutto quel che si vuole, anche contro il parere della Soprintendenza, tanto poi si sistema tutto con qualche soldo e dei buoni avvocati».
Non si sa se il soprintendente Luca Rinaldi arriverà a far usare esplosivi o caterpillar. Ma, di sicuro, usa parole pesanti («vien da pensare che le stesse amministrazioni incoraggino l'abusivismo») ed ha scelto la linea dura. «Quell’hangar va sequestrato — dice —. Se non provvederà il sindaco, come ha promesso, lo chiederemo noi alla magistratura».
Ieri pomeriggio, a dire il vero, sigilli alla struttura non ce n'erano e i dipendenti del porto (22 in tutto) erano regolarmente al lavoro. Quanto al sindaco, Lorella Lavo, si è trincerata nel silenzio: «Su questa vicenda non ho nulla da dire». Proprio lei, che un mese fa aveva scritto una lettera aperta ai concittadini per lamentarsi dell'eccesso di autorizzazioni rilasciate dalla precedente amministrazione (scaduta nel 2006). Eppure di cose da spiegare ce ne sarebbero parecchie. Perché un intervento presentato una prima volta alla Soprintendenza nel settembre 2005 e bocciato il dicembre successivo, poi ripresentato a dicembre 2006 e ribocciato a febbraio 2007 infine ritrasmesso come sanatoria a maggio 2007 e cassato a luglio è stato comunque realizzato? E come mai la Dichiarazione di inizio attività presentata dall'impresa costruttrice a dicembre 2005 e approvata dagli esperti ambientali del Comune non è stata poi, come prescrive la legge, trasmessa alla Soprintendenza? Proprio questo è uno dei punti ai quali si attacca Adriano Bortolotti, progettista e proprietario dell'hangar: «Tutto l'intervento sul porto è stato fatto in project financing con il Comune. Abbiamo avuto innumerevoli riunioni e ispezioni. Se ci fosse stato qualcosa che non andava, penso che ce l'avrebbero detto. Per questo siamo andati avanti con i lavori, iniziati ad aprile 2006 e consegnati nel giugno scorso, con un investimento di 2,8 milioni di euro. E poi, siamo sinceri: io sono d'accordo nell'evitare le brutture di cui il Garda è pieno. Ma qui parliamo di una struttura in pratica tutta interrata». Anche per questo Bortolotti ha fatto ricorso al Tar.
In attesa della battaglia legale, sia Rinaldi che gli ambientalisti indicano già un colpevole: la legge che ha affidato ai Comuni e ai loro esperti ambientali le autorizzazioni paesistiche. Quella legge dovrebbe essere cambiata entro maggio 2008. Ma, nel paese delle proroghe, chissà.

COMITATO ANTI-TRAFORO Il tracciato presentato in Comune è uguale al progetto della Serenissima

COMITATO ANTI-TRAFORO
Il tracciato presentato in Comune è uguale al progetto della Serenissima
ALBERTO SPEROTTO
Domenica 18 Novembre 2007, L'Arena


PROTESTA. Alle 14.30 davanti alle piscine Santini si ritroveranno quanti sono contrari al collegamento autostradale sotto le Torricelle che unirebbe Quinto al Saval
Contro il traforo una catena umana
«Le modifiche al progetto? Era e resta un’autostrada in città». Il comitato conferma la manifestazione di oggi





Al comitato contro il traforo e agli ambientalisti il progetto di tunnel delle Torricelle continua a non piacere. Nonostante le «correzioni» spiegate ieri a Palazzo Barbieri dal sindaco Flavio Tosi e dagli assessori Enrico Corsi (mobilità) e Vito Giacino (urbanistica). «Un’opera che toglierà gran parte del traffico dai quartieri», aveva affermato fiducioso Giacino, «non potrà non essere apprezzata da cittadini e ambientalisti».
Ma i nemici del traforo, o meglio, del «collegamento autostradale delle Torricelle» non si sono affatto ricreduti e confermano l’appuntamento di oggi alle 14.30 alle piscine Santini per la catena umana di protesta. «Sul nostro sito», informa il presidente del comitato Alberto Sperotto, «siamo arrivati a 1.500 metri di mani. Ne servono 2.120 e non avremo difficoltà a coprirli».
Nessuna apertura di credito, quindi, nei confronti della giunta Tosi. «Il tracciato presentato in municipio», commenta Sperotto, «è lo stesso contenuto nel vecchio progetto dell’autostrada Serenissima, con l’aggiunta di alcuni accorgimenti estetici, come la copertura parziale della strada che resta però scoperta dal Saval a Boscomantico dove sarà costruito un viadotto sull’Adige di 300 metri e alto 30. Una correzione estetica», secondo Sperotto, «che non cambia nulla: essa rimane un’autostrada in città. E poi rimane il problema dei gas di scarico prodotti dai mezzi pesanti in transito. Anche in galleria ci sarà pur bisogno di camini di aspirazione. In realtà, quindi, è solo un intervento per nascondere una grande devastazione». Ma così, dicono a Palazzo Barbieri, il territorio sarà maggiormente tutelato. «È evidente», esclama Sperotto, «che su una strada non si può costruire, ci mancherebbe altro. Ma quel territorio era tutelato da 50 anni ed è incredibile che ora vi si costruisca un’autostrada».
Neppure Michele Bertucco, presidente provinciale di Legambiente, cambia idea: «Era e rimane un progetto sciagurato che non risolve i problemi di traffico perché nessuno per raggiungere l’ospedale di Borgo Trento prenderà mai una strada a pagamento a Poiano per uscire al Saval. Quindi, è un progetto inutile». E rincara la dose: «Nella maggioranza c’è un atteggiamento schizofrenico poiché da una parte Alleanza nazionale dice che le autostrade inquinano, dall’altra se ne vuole costruire un’altra addirittura all’interno della città. Qui non si parla di questioni estetiche ma ambientali e di salute pubblica».
L’architetto urbanista Tullo Galletti, da parte sua, pur dicendo che «è difficile esprimere valutazioni sulla base di uno schema», saluta con favore il fatto che «con il tratto coperto si è colto il problema della delicatezza» dell’area urbana interessata. Non altrettanto bene, sostiene, «si affronta la soluzione dell’attraversamento dell’Adige». E spiega: «Lo vedrei bene non a monte di via Ca’ di Cozzi, in zona pedecollinare, ma a sud, dietro l’Abital e davanti all’Isap per collegarsi alla strada di gronda a nord. L’impatto ambientale e paesaggistico sarebbe minore». E.S.

mercoledì 26 dicembre 2007

Australia, la grande sete

Australia, la grande sete
La Stampa.it del 4 gennaio 2007

di Gaelle Dupont
Minuziosamente, segnano sul calendario ogni goccia d’acqua che cade dal cielo. L’ultima pioggia risale al 16 novembre: ha piovuto 2 millimetri. Prima il 3 novembre: 3 millimetri. Ottobre: niente. Settembre: 11 millimetri in un mese. Agosto: 4 millimetri scarsi. Clem e Cheryle Hodges lavorano da 38 anni alla fattoria di Toongarah, a sei ore di strada da Sydney, ma non hanno mai visto un simile disastro. Né i loro genitori, né i loro nonni hanno mai visto prosciugare così le loro terre. In Australia esiste anche la campagna, non è tutto di deserto rosso. E’ un mosaico di campi di cereali, pascoli, frutteti e vigneti, una volta erano verdi e fertili. Ma da cinque anni, tutto va di male in peggio. Il 2006 ha battuto tutti i record. I flussi dei fiumi Murray e Darling, che alimentano tutta la regione, raggiungono appena il 10% del livello medio. I ruscelli si sono prosciugati. Nelle praterie, l’erba sempre più rada è color paglia. Il grano e l’orzo non crescono, o crescono male, sulla terra screpolata. Grandi eucalipti morti tendono i loro rami nudi verso il cielo di un blu impietoso. Il più piccolo passo solleva una nuvola di polvere rossastra. Le mosche, avide d’acqua, si attaccano agli occhi e alla bocca di uomini e animali. La famiglia Hodges sta finendo il raccolto. Non ci vuole molto: è crollato del 90%. «Non vale più nemmeno la pena di raccogliere, l’orzo non spunta dalla terra», dice Clem, mentre guida il suo vecchio camion. Mentre i maschi sono nei campi, le femmine conducono la loro battaglia nel giardino. I prati abbrustoliti fanno disperare Cheryle, che cerca accanitamente di tenere in vita due cespugli di rose dagli steli molli, e qualche legume piantato dentro vecchi pneumatici per trattenere l’umidità. Per bere e lavarsi basta ancora l’acqua piovana raccolta nelle cisterne, ma per quanto durerà? L’estate è appena iniziata. Il pozzo della fattoria, troppo salato, serve solo per abbeverare il bestiame.

«Quest’anno sarà il peggiore della nostra storia», dice Clem. «Con la nostra carne, i legumi, la vendita delle pecore e l’aiuto governativo, riusciamo appena a sopravvivere». Ma come la maggioranza dei contadini australiani, i Hodges preferiscono tagliare corto quando gli si chiede delle loro disgrazie, e parlare d’altro, scoppiando a ridere per qualunque battuta. «Bisogna uscire, fare sport, altrimenti si esce pazzi», spiegano. Il venerdì sera tutti vanno al villaggio di Bogan Gate. Questo paesello sperduto sulla linea ferroviaria tra Sydney e Perth, ha tre silos alti 30 metri, ciascuno con una capacità di 38 mila tonnellate, qualche casetta, una pompa di benzina abbandonata, un negozio di articoli per la casa. Tutto il vicinato si dà appuntamento al pub del Railway Hotel, con un bicchiere di birra in mano, «tutti nella stessa barca», dice Kerry Morrisey. Le riserve d’acqua sono completamente a secco anche nella fattoria di Kerry e Wayne, suo marito. «E’ la prima volta nella vita che mi tocca portare l’acqua ai campi con un camion, per riempire gli abbeveratoi. Ma le pecore continuano ad andare ai bacini vuoti, e muoiono». L’aiuto del governo permette di «mettere il cibo sul tavolo, ma non paga i debiti».

Al pub, qualcuno comincia a non farsi più vedere. «La gente non vuole dare a vedere quello che prova», dice Colin McKay, un amico degli Hodges. «Se vanno al pub e si mettono a discutere, finisce che si deprimono. Ma si deprimono anche a vedere che la gente non viene più». Circola la voce che ogni quattro giorni un contadino si suicida. Gli «assistenti siccità» - nuova categoria di funzionari del ministero dell’Agricoltura - non confermano, ma dicono che «il problema è serio». Nella parrocchia di Gunning, il reverendo Vicky Cullen ha sepolto quest’anno tre giovani contadini. Ma non vuole parlare di suicidio perché «sembravano incidenti d’auto». Depressa, stanca, indebitata fino al collo, l’Australia rurale aspetta la pioggia. Nessuno dubita che tornerà, e tutti azzardano previsioni. Salvo Clem. «Un mese, sei pesi, non so più. Andrà meglio l’anno prossimo, ma lo dicevano l’anno scorso, e anche quello prima».

La siccità è conseguenza del riscaldamento del clima? E’ un’anticipazione del nostro futuro? I contadini australiani si rifiutano di crederlo. Si fanno coraggio citando un poema, «Il mio paese», sorta di inno nazionale scritto da Dorothea McKellar nel 1904, che recita: «Amo un paese bruciato dal sole/ con pianure maestose/ montagne dai contorni irregolari/ con siccità e piogge torrenziali...». L’Australia è abituata agli estremi climatici, e si ricorda la «siccità della Federazione», alla fine del XIX secolo. Ma questa è più grave. A causa della siccità e della calura gli incendi forestali hanno raggiunto dimensioni senza precedenti: rinfocolati dal vento, hanno già distrutto 850 mila ettari in tre stati. «Preferisco pensare che tutto questo fa parte di un grande ciclo che si ripete ogni cento anni e che non rivedrò mai più in vita mia», dice Gary, uno dei giovani Hodges. Ciascuno trova speranze leggendo la storia delle precipitazioni, che parlano del ritorno della pioggia dopo periodi di siccità. «Coltivare la terra in Australia è come giocare alla lotteria», afferma Jack Munro, di Rankins Springs. «No worries», non ti preoccupare, è l’espressione preferita degli australiani. Ma l’angoscia si percepisce lo stesso. Cheryle dice di essere «sempre stata scettica sul riscaldamento climatico. Ma è evidente che sta accadendo qualcosa di nuovo. Succedeva di avere due anni di siccità di fila, ma non cinque. E non è mai accaduto in tutto il Paese contemporaneamente».

«La maggior parte degli agricoltori sono grandi ottimisti, convinti che le piogge torneranno», dice Peter Cullen, professore onorario all’università di Canberra, specialista in risorse d’acqua. «Io invece penso che il Paese vada verso la siccità, le temperature sono aumentate in media di 0,8 gradi dal 1960», replica Bryson Bates, direttore dell’unità clima del Csiro (Organizzazione scientifica e industriale del Commonwealth). «Il regime delle piogge è cambiato, il clima è più secco, non ci sono più grandi alluvioni. I modelli prevedono un clima più caldo e secco nella parte meridionale del Paese, mentre il quadro resta incerto al Nord». Ma è nel Sud che si concentra la popolazione e la produzione agricola. Il geografo Jared Diamond giudica l’Australia una delle società più vulnerabili del pianeta, a causa del sovrasfruttamento sistematico delle terre e delle acque.

Ma i diretti interessati non sono pronti a mollare la presa. «Siamo elastici, ci adatteremo», replica David Sykes, allevatore di Temora, «useremo specie adatte al clima, cambieremo tecniche». In questo Paese, dove le imprese nascono e muoiono nell’indifferenza generale e ogni sovvenzione è oggetto di pubblico dibattito, il governo spende miliardi in aiuti alle aree rurali. «E’ la prima volta che godiamo di tale sostegno», dice felice Jack Munro. «Il governo ha capito di dover mantenere una massa critica di agricoltori nelle campagne, altrimenti si svuoteranno». Il settore agricolo ha un ruolo importante: il 64% della produzione viene esportato. La siccità ha già contribuito all’esplosione del prezzo mondiale del grano. «La nostra agricoltura non sparirà, cambierà», dice Peter Cullen. Gli australiani dicono che «il mercato deciderà chi dovrà sopravvivere». Tutti sostengono che in futuro parte del territorio non sarà più coltivabile. Ma resta da sapere dove passerà il confine.

NOTE

c Le Monde

Ombre sul filantropo Bill Gates «Finanzia società che inquinano»

Ombre sul filantropo Bill Gates «Finanzia società che inquinano»

Corriere della Sera del 8 gennaio 2007, pag. 23

di Alessandra Farkas

La macchia d'inchiostro sul pollice di Justice Eta, 14 mesi, certifica che il piccolo africano è stato immunizzato contro la polio e il morbillo, grazie alla costosissima campagna di vaccinazioni sponsorizzata dalla Bill & Melinda Gates Foundation. Ma sin dalla nascita, Eta deve fare i conti con un disturbo respiratorio cronico ed altrettanto grave. «I suoi vicini di casa la chiamano "la tosse"», scrive il Los Angeles Times in un articolo apparso ieri in prima pagina. «I medici locali l'attribuiscono ai fumi e alla fuliggine vomitati ogni giorno dalla torre di un impianto dell'Eni, le cui fiamme illuminano giorno e notte Ebocha. E che, tra gli investitori, annovera la Bill & Melinda Gates Foundation». In una lunga e dettagliata inchiesta intitolata «Una nuvola nera oscura il buon lavoro della Fondazione Gates», il Los Angeles Times giunge a una conclusione sconcertante. Da una parte Bill Gates aiuta i poveri, i malati e l'infanzia di tutto il mondo; dall'altra investe in società che contribuiscono, con l'inquinamento e con i costi proibitivi dei farmaci, alle loro disgrazie. Ben tre giornalisti del Times — Charles Piller, Edmund Sanders e Robyn Dixon — hanno condotto oltre 90 interviste, consultando centinaia di documenti. Tra cui migliaia di pagine dei rapporti ufficiali della Bill & Melinda Gates Foundation. Il colosso della beneficenza mondiale che alla fine del 2005 ha ricevuto 35 miliardi di patrimonio dal fondatore della Microsoft. E nel giugno 2006 accolse altri 31 miliardi da Warren Buffett, il secondo uomo più ricco del mondo, potendo contare, oggi, su un patrimonio superiore al Prodotto interno lordo del 70% dei Paesi del Pianeta. Ma dietro al blitz pubblicitario per le sue attività benefiche si nasconde un'altra realtà. Secondo l'inchiesta, la fondazione ha erogato, ad esempio, 218 milioni di dollari in vaccini contro la polio e il morbillo in varie parti del mondo, compreso il Delta del Niger.



Nello stesso tempo ha investito 423 milioni di dollari in società quali Royal Dutch Shell, Eni, Exxon Mobil, Chevron e Total, accusati di essere tra i maggiori responsabili delle malattie respiratorie che affliggono la regione. «Queste compagnie sono responsabili delle emissioni che saturano il Delta con un inquinamento che va ben oltre i limiti consentiti dalla legge in Europa e Stati Uniti», punta il dito il Times. Il dottor Elekwachi Okey, medico di Ebocha, dove vive il piccolo Justice, parla di «vera e propria epidemia di asma, bronchite e tumori ai polmoni che tormenta tutti, grandi e piccoli». «Qui siamo tutti fumatori», spiega il dottore, «ma non di sigarette». Dall'inchiesta emerge inoltre che la Fondazione ha finanziato società che figurano nelle liste nere dei peggiori inquinatori del pianeta, come Dow Chemical e Tyco International, i maggiori enti petroliferi al mondo. Oltre ai colossi farmaceutici che continuano a rendere inaccessibili ai malati del Terzo mondo le costose cure contro l'Aids. Come la maggior parte delle associazioni di filantropia, la Melinda & Bill Gates Foundation dona almeno il 5% del suo capitale ogni anno, per evitare eccessi di tassazione. Nel 2005 ha destinato circa 1,4 miliardi di dollari a progetti benefici. Il restante 95% viene quindi investito e la compagnia creata dai Gates prevede ampia autonomia per i manager degli investimenti, che operano in una realtà separata rispetto a chi si occupa di distribuire i fondi. Secondo l'inchiesta, la Gates Foundation ha scelto di fare investimenti «alla cieca», senza cioè partecipare a decisioni e strategie delle società nelle quali immette centinaia di milioni di dollari. Il risultato è che la fondazione ha molti dei suoi soldi investiti in società che non superano il test di responsabilità sociale, ambientale, sindacale e sanitaria.

La superbomba di Bush

La superbomba di Bush

La Stampa del 8 gennaio 2007, pag. 11

di Paolo Mastrolilli
Il governo americano sta per compiere un passo decisivo per tornare a costruire testate nucleari. Nei prossimi giorni il presidente Bush dovrà scegliere quale progetto adottare per realizzare le prime bombe nuove in circa vent’anni. Lo ha rivelato il New York Times, sottolineando come questo sia un momento molto delicato per compiere un passo del genere, perché Washington sta premendo sull'Iran e sulla Corea del Nord affinché abbandonino i loro programmi atomici. La questione riguarda l'ammodernamento dell'arsenale.

Le circa 6000 testate presenti nei depositi americani risalgono tutte all'epoca della Guerra Fredda, e da circa vent'anni gli Stati Uniti rispettano una moratoria sugli esperimenti sotterranei, utilizzando solo i test di laboratorio per verificare l'efficienza delle armi. Varie ragioni, ora, stanno spingendo l'amministrazione a rivedere la situazione. Secondo alcuni scienziati il nucleo di plutonio delle vecchie bombe potrebbe non funzionare più bene, anche se un recente studio ha smentito questo rischio. Il governo comunque vuole procedere all'ammodernamento, perché intende adottare una tecnologia più affidabile e più difficile da usare, se cadesse nelle mani dei nemici. L'obiettivo è creare la «Reliable Replacement Warhead», una testata più piccola ed efficace che non si andrebbe a sommare a quelle esistenti, ma le sostituirebbe, consentendo anche una riduzione dell'arsenale da 6000 a 2000 bombe nel lungo periodo. Lo studio di questa nuova arma era stato affidato a due laboratori in competizione: quello di Los Alamos e quello di Livermore. Il primo ha proposto un progetto molto all'avanguardia, che impiega componenti di altre testate, ma non è mai stato sottoposto ad esperimenti. Il secondo invece ha puntato su un design meno innovativo, ma più collaudato. Il Pentagono avrebbe dovuto scegliere uno dei due a novembre, ma ha rimandato la decisione perché erano entrambi molto buoni. Ora quindi la mano passa al presidente Bush, che secondo le indiscrezioni potrebbe adottare la linea di un compromesso salomonico: la nuova bomba nascerebbe da una fusione dei due progetti. Questa soluzione, secondo alcuni, è dettata dall'esigenza pragmatica di unire l'innovazione alla sicurezza. Per altri, invece, è solo una trovata che serve a distribuire le risorse a metà, evitando la chiusura del laboratorio che non ottenesse la commessa. Infatti si tratta di un investimento da circa cento miliardi di dollari, che dovrebbe tenere tutti impegnati almeno fino al 2012, quando comincerebbe la produzione. Alcuni esperti hanno criticato questo approccio, sottolineando che rischia di generare una testata poco affidabile. Ciò potrebbe costringere i futuri presidenti a condurre test per provarla, violando la moratoria.

Una simile decisione avrebbe un impatto molto negativo, perché a quel punto anche la Russia o la Cina si sentirebbero autorizzate a riprendere gli esperimenti. La decisione di Bush, però, ha anche un peso immediato, considerando la situazione internazionale. Nelle settimane scorse il Consiglio di Sicurezza dell'Onu ha imposto all'unanimità sanzioni economiche alla Corea del Nord, perché il 9 ottobre aveva condotto il suo primo test nucleare. Alla fine dell'anno, poi, il massimo organismo del Palazzo di Vetro ha compiuto lo stesso passo nei confronti dell'Iran, per spingerlo a rinunciare ai suoi programmi atomici sospettati di essere finalizzati alla costruzione di armi.

In questo quadro, decidendo di avviare la realizzazione della prima testata nuova in circa vent'anni, Washington si esporrebbe all'accusa di adottare una politica ipocrita di due pesi e due misure. Il Trattato di non proliferazione, in teoria, impegnerebbe tutti i Paesi firmatari a liberarsi delle proprie bombe nucleari. Questo forse non è un obiettivo realistico, ma almeno negli ultimi anni si è fermata la corsa a costruirne di nuove. Se gli Stati Uniti rimetteranno mano al loro arsenale, la tendenza potrebbe invertirsi in tutto il mondo, spingendo anche altri Paesi ad imitare il cattivo esempio di Pyongyang e Teheran.