domenica 2 marzo 2008

CLIMA QUEI TRABOCCHETTI DI KYOTO

Il Sole24Ore 6 Mag. ‘07

CLIMA QUEI TRABOCCHETTI DI KYOTO

Lawrence Summers
Professore Alla Harvard University

Il mercato dei diritti di emissione si dimostra poco vincolante per gli Stati La Borsa di settore rischia di favorire i sussidi alle imprese su larga scala Con l'accumularsi delle prove scientifiche, presentate all’opinione pubblica con argomenti ,convincenti, il dibattito sul riscaldamento globale è entrato in una nuova fase. Chi si ostina a negare che siano le attività dell'uomo a portare la responsabilità del riscaldamento del pianeta, o a sostenere che si possa continuare a tempo indefinito a condurre le nostre attività come le conduciamo adesso senza dover fronteggiare conseguenze troppo gravi, viene considerato ormai quasi sullo stesso piano di quelli che negano che il tabacco possa avere conseguenze negative per la salute umana.
In certi ambienti, probabilmente, si eccede in euforia rispetto ai potenziali benefici economici delle politiche ecologiche, ma è ormai indiscutibile che esistano opportunità straordinarie per arrivare a ridurre le emissioni,
ottenendo benefici economici o affrontando costi economici trascurabili. È stato calcolato che i sussidi all'energia, a livello mondiale, ammontano a circa 250 miliardi di dollari.
Il vero nodo al centro del dibattito non è se si debba o meno intervenire (questo ormai sarebbe un discorso insensato): l'interrogativo cruciale, adesso, è che cosa si debba fare per lasciare ai nostri discendenti la miglior qualità di vita possibile. Visionarietà e ambizione sono i due ingredienti necessari per dare una risposta a questa domanda: ma come ci insegna tristemente il caso della Lega delle Nazioni di Woodrow Wilson, visioni e ambizioni utopistiche disancorate dalla realtà politica, economica e sociale rischiano di essere controproducenti.
Esiste un pericolo molto concreto, e cioè che il mercato dei diritti di emissione,il meccanismo previsto dal Protocollo di Kyoto per arrivare a una rapida riduzione delle emissioni (sistema che al momento è quello privilegiato da quasi tutti i Governi europei) finisca col risultare inefficace, se non addirittura controproducente in quanto impedirebbe l'emergere di altri approcci, più realistici, al problema. Kyoto al momento è l'unico strumento a disposizione per tutti quelli che non vogliono adottare la politica dello struzzo rispetto ai cambiamenti climatici globali, e quindi non sì può far altro che sperare nel suo successo. Può senz'altro essere utile, però, cercare di individuare i potenziali trabocchetti di Kyoto e prendere in considerazione, come misura prudenziale, approcci alternativi qualora il Protocollo di Kyoto dovesse fallire.
Il primo problema dell'approccio scelto dal Protocollo di Kyoto è il fatto che
si basa su un discutibile presupposto, e cioè che i traguardi fissati o le penali previste in caso di mancato raggiungimento di questi traguardi possano realmente avere effetti vincolanti per gli Stati. È istruttivo a questo proposito l'esempio del Trattato di Maastricht, che stabiliva degli obiettivi di spesa pubblica sottoposti al controllo diretto dei Governi, su un arco di tempo relativamente breve e nell'ambito di un gruppo di Paesi che avevano già raggiunto un elevato livello di coesione. Il patto si è rotto quasi subito, quando è sembrato che gli obiettivi fissati non fossero vincolanti per i grandi Paesi, con l'abbandono di questi obiettivi e nessuna penale, neanche modesta, pagata dai trasgressori.
Niente lascia presumere, a tutt'oggi, che Kyoto stia stimolando comportamenti responsabili. I risultati migliori sul fronte della riduzione delle emissioni vengono da Paesi come il Regno Unito, la Germania é gli ex Paesi comunisti, dove il carbone sta progressivamente uscendo di scena come fonte energetica, ma per altre ragioni, non legate al Protocollo. L'impatto limitato del Protocollo di Kyoto è dimostrato dal fatto che i diritti di emissione al momento raggiungono quotazioni trascurabili, intorno a un euro per tonnellata.
Il secondo problema è che la Borsa delle emissioni rappresenta un invito a lanciarsi in politiche do ut des di sussidi alle imprese su ampia scala. Se le emissioni di gas a effetto serra calassero in modo sostanziale, com'è l'obiettivo, il valore dei diritti di emissione sarebbe di decine di miliardi di dollari. Se in teoria i diritti di emissione possono essere messi all'asta, nella pratica vengono sempre assegnati per via amministrativa. Più che naturale
dunque che quelle aziende che hanno la possibilità di scaricare i costi delle
emissioni sui loro consumatori siano entusiaste di questi meccanismi che
consentono di compensare tali costi assegnando loro diritti di emissione
collegati ai loro attuali livelli di emissioni. II Cdm (il meccanismo di
sviluppo pulito; il sistema previsto dal Protocollo di Kyoto che consente alle
aziende dei Paesi industrializzati di ottemperare ai propri impegni di riduzione
realizzando progetti per la riduzione delle emissioni in Paesi in via di
sviluppo, senza vincoli di emissione, ndt) ha prodotto come risultato grossi esborsi per riduzioni di emissioni che sarebbero avvenute comunque, oche si sarebbero potute ottenere con costi minimi. C'è addirittura ragione di pensare che in certi casi le emissioni siano state incrementate per poi poter rivendicare il merito del loro successivo abbattimento.
Il terzo problema, quello più serio, é che il sistema di Kyoto difficilmente riuscirà a incidere in modo significativo sulle politiche nazionali dei Paesi in via dì sviluppo. Come mi hanno spiegato degli indiani che ml hanno recentemente ospitato, i politici dei Paesi in via di sviluppo difficilmente accetteranno traguardi vincolanti, in materia di utilizzo dell'energia o emissioni di gas a effetto serra, troppo lontani dai livelli di emissioni pro capite fissati per il mondo industrializzato.
Né è ragionevole attendersi, sulla base di vaghe proiezioni di tendenze economiche e sviluppi tecnologici futuri, che questi Paesi si impegnino su obiettivi dì utilizzo energetico che si discostino dai modelli osservati nei Paesi ricchi.
La verità sui cambiamenti climatici è che sono i Paesi in via di sviluppo quelli i su cui bisogna intervenire di più, perché nei prossimi 25 anni saranno responsabili dei tre quarti degli incrementi delle emissioni e perché stanno effettuando adesso gli investimenti che disegneranno il volto futuro delle loro economie. Dirò di più: qualsiasi meccanismo internazionale per il controllo delle emissioni che non includa questi Paesi non avrà speranze di successo, perché le riduzioni delle emissioni nel mondo industrializzato saranno compensate dal trasferimento di attività ad ' alta intensità energetica nei Paesi del Terzo Mondo. La votazione compatta dei senatori democratici americani nel j 1997 è un segnale che qualsiasi approccio al problema che non coinvolga i Paesi invia di sviluppo verrà probabilmente rigettato da una parte (almeno) del mondo industrializzato.
Forse questi e altri problemi, come la difficoltà di fissare traguardi in materia di emissioni, considerata la portata delle incertezze economiche, possono essere superati con buona volontà e molta riflessione e mi ripropongo di suggerire approcci alternativi che pur essendo meno eclatanti sul piano dei risultati immediati possono garantire, nel corso del tempo, basi più solide per un progresso di cui il mondo non può fare a meno.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
REALISMO
I Paesi in via di sviluppò saranno responsabili dei tre quarti degli incrementi
dei gas-serra: qualsiasi politica non può non tenerne conto

1 commento:

Atmosforests ha detto...

Il trattato di Kyoto, è indispensabile per salvare i polmoni dell'umanità; le foreste primarie sono indispensabili per salvare i polmoni e l'equilibrio del pianeta. Atmosforests.org divulga la teoria secondo cui; negli ultimi 60 anni, Il deterioramento climatico ed atmosferico e lo scioglimento dei ghiacciai e delle calotte polari; camminano di pari passo e sono direttamente proporzionali alla sparizione delle Foreste Vergini.