venerdì 11 aprile 2008

Per salvare il culo alle banche e al modello economico Usa il Fondo si scopre statalista

Per salvare il culo alle banche e al modello economico Usa il Fondo si scopre statalista

di Sabina Morandi

Liberazione del 09/04/2008

Senza interventi governativi non si esce dalla crisi del credito che rischia di penalizzare la crescita globale. A dirlo è il capo del Fondo Monetario Internazionale Dominique Strauss-Kahn che aggiunge: «la necessità di un intervento pubblico sta diventando sempre più evidente». In occasione degli incontri di primavera, le due istituzioni che più hanno fatto per diffondere il neo-liberismo rampante - Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale - hanno perso la fede nelle capacità taumaturgiche del mercato e consigliano una terza linea difensiva da aggiungere a quella monetaria e a quella fiscale perchè, come dice Strauss-Kahn, se la liquidità delle banche «non può essere ripristinata abbastanza rapidamente dal settore privato, bisogna considerare l'impiego dei soldi pubblici». E, tanto per mostrare che fa sul serio, il Fondo mette sul mercato le sue riserve di oro il cui valore si aggira sui 6 miliardi di dollari.
La doppia morale del libero mercato non è una novità: se i soldi pubblici servono per salvare le banche non c'è niente di male, ma se a qualcuno viene in mente di utilizzarli per dare un tetto ai cittadini vittime dei mutui o per finanziare la sanità pubblica, finisce immediatamente all'indice per sospette nostalgie stataliste. Del resto, anche il ruolo che il Fondo recita per conto del Tesoro americano non è affatto nuovo, anche se stavolta le sue stime di crescita, chiaramente confezionate per arginare la fuga dei capitali verso l'eurozona, sono state apertamente criticate da esponenti di rilievo dell'establishment europeo come il ministro tedesco Junker, il commissario europeo Almunia e il governatore di Bankitalia Draghi. Quello che non si era mai visto, però, è un'inversione di tendenza così netta da parte di un'istituzione che ha mostrato un'intransigenza criminale nel difendere la purezza del suo assunto ideologico anche di fronte a crisi ben più devastanti di quella di oggi.
Nel corso di tutti gli anni Novanta, com'è noto, l'ideologia del mercato über alles ha indotto buona parte dei paesi a rinunciare a ogni controllo sugli investimenti esteri, aprendo così la strada alle scorribande del capitale speculativo e alle annesse crisi ricorrenti. Una delle più gravi, la crisi asiatica del 1997, fu il prodotto di una manovra speculativa alimentata dal panico che, in pochi mesi, mise in fuga tutti i capitali dalla regione malgrado le economie delle Tigri fossero più che solide. Il risultato, come scrisse l'Economist, fu «una distruzione di risparmi di proporzioni generalmente associate a una guerra totale». Per invertire la tendenza e calmare il panico finanziario sarebbe bastato un prestito rapido e deciso come fece il Tesoro statunitense per salvare il Messico nel '94, tanto per dimostrare al mercato che le istituzioni internazionali consideravano quelle economie solide. Nel '97, invece, la parola d'ordine era lasciar fare al mercato e anzi approfittare della crisi per finire di smantellare «i residui di un sistema fortemente condizionato da investimenti gestiti dal governo» come dichiarò Alan Greenspan.
Mentre l'Asia veniva sconquassata da un'epidemia di suicidi, assalti ai negozi e bancarotte, l'allora capo del Fondo Monetario, Michel Camdessus, si adeguò al verbo di Wall Street: dopo mesi di criminale inattività - durante i quali si sarebbero potuti autorizzare dei prestiti tampone per arginare il panico - il Fondo preparò dei pacchetti di aiuti da discutere con i paesi in crisi. Le discussioni, che si protrassero per parecchi preziosi mesi, erano necessarie perché gli aiuti, in realtà dei prestiti, erano condizionati alla disponibilità di smantellare l'odioso "intervento governativo" nell'economia. In sostanza, a paesi rovinati proprio per avere rinunciato a ogni controllo sui movimenti di capitali, vennero "consigliate" ulteriori deregulation.
La Malesia, che non ritenne ragionevole «distruggere la propria economia per farla migliorare» - come dichiarò il primo ministro di allora - rifiutò gli aiuti del Fondo e per questo finì all'indice ma si salvò. Gli altri, Indonesia, Thailandia, Filippine e Corea del Sud, dovettero aprire ogni settore alle corporation e, soprattutto, s'impegnarono a non interferire in alcun modo con la falce darwiniana del mercato. Mentre le imprese fallivano una dietro l'altra, ai governi di quei paesi venne tassativamente vietato di finanziare cuscinetti sociali per salvare le masse immiserite e anzi venne imposto loro di abbandonare anche i normali strumenti di controllo, come per esempio calmierare i prezzi dei generi di prima necessità. A differenza di oggi, allora il Fondo Monetario non ritenne necessario «valutare l'impiego di soldi pubblici» per dar da mangiare a un esercito di disoccupati anche se, secondo dati raccolti dalla Banca mondiale, in seguito alla crisi asiatica almeno 20 milioni di persone precipitarono sotto la soglia della povertà. Fu quell'intransigenza a spingere molti paesi - soprattutto quelli latino-americani - a sganciarsi dal sistema dei prestiti provocando quella crisi di liquidità che adesso costringe il Fondo a mettere in vendita le sue riserve auree per trovare i soldi con cui salvare le banche statunitensi.

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