venerdì 11 gennaio 2008

Washington e Gerusalemme: 60 anni di relazioni speciali e contraddittorie

Washington e Gerusalemme: 60 anni di relazioni speciali e contraddittorie

Il Riformista del 10 gennaio 2008, pag. 5

di Claudio Vercelli

Si può senz'altro parlare di Special Relationship tra Stati Uniti e Israele a patto, tuttavia, che si precisino i termini e le mo­dalità attraverso le quali tale legame si è articolato nel corso del tempo. Poiché se esiste un tema che è stato fatto oggetto di fraintendimenti ripetuti, di equivoci reite­rati se non di pregiudizi totali, è proprio ciò che riguarda la qualità e la natura del lega­me che intercorre tra questi due paesi.



L'ampia diffusione del fortunato libro di Edward Said, Orientalism, divenuto il te­sto di riferimento per la critica all'imperia­lismo" culturale ed economico occidentale, ha contribuito a rafforzare quelle posizioni che riducono l'ampiezza e la complessità della politica statunitense a po­chi, netti e costantemente ripe­tuti calcoli d'interesse.



In realtà le scelte praticate da Washington, dalla nascita d'I­sraele ad oggi, sono state spesso così diversificate, di amministra­zione in amministrazione, da ri­sultare tra di loro spesso contraddittorie. Inoltre, ogni azione era e rimane il risultato della mediazione al­l'interno delle diverse componenti della bu­rocrazia amministrativa e politica. Una policrazia, un complesso di apparati decisionali, si contende l'ultima parola sul cosa fare e sul come realizzarlo. Fondamentale, da questo punto di vista, è il trattamento delle informa­zioni, ovvero cosa si ritiene sia importante (e chi sia chiamato a stabilire l'ordine delle priorità). Poiché è solo sulla scorta di ciò che si assumono le decisioni che, di volta in volta, vengono poi trasformate in atti concreti.



Storicamente, negli ultimi cinquant'anni, gli Usa hanno costruito una serie di robusti rapporti bilaterali con alcuni paesi della regio­ne, soprattutto l'Egitto e l'Arabia Saudita (prima del 1979 anche l'Iran della dinastia Pahlevi), sostituendosi negli anni Cinquanta alla Gran Bretagna e istituendo relazioni pri­vilegiate con le élite politiche locali, nell'ottica della cooperazione per la sicurezza più che della innovazione socioeconomica.



Per due decenni, tra il 1950 e la fine degli anni Sessanta, è l'Egitto ad essere al centro delle preoccupazioni statunitensi e a determinare i passi compiuti dalle di­verse amministrazioni succedutesi, da quella Truman a Johnson. Fino ad una certa data i protettori d'Israele nel consesso internazionale erano da cercarsi nella Gran Bretagna e nella Francia.



Se Harry Truman non aveva mai fatto mistero della sua simpatia per la causa sioni­sta, buona parte dell'amministrazione statu­nitense riteneva inderogabile il prosegui­mento della politica di appeasement verso gli arabi. Si ingenerò così una duplice con­dotta politica, dove alle aperture della Presi­denza verso Gerusalemme facevano segui­to le calcolate chiusure del Dipartimento.



La Special Relationship con Gerusa­lemme data quindi ad anni recenti e ruota su alcuni elementi che dal 1967 fanno premio riguardo ad altri aspetti, fino ad allora invece prevalenti. La guerra dei Sei giorni è l'evento periodizzante, nella misura in cui introduce un ulteriore fattore di tensione tra Est ed Ovest - quindi di divisione e allinea­mento tra fronti contrapposti - che era in parte mancato nei lustri precedenti.



Più per necessità che per una qualche virtù, quindi, è in questo scenario che l'opzio­ne cade su Gerusalemme, per impedire che il nazionalismo arabo, nella sua versione più militante e radicale, quella nasseriana, abbia la meglio e con esso i suoi patrocinatori mo­scoviti. In realtà la scelta degli Usa, è di man­tenere l'equilibrio militare tra Israele e i vicini arabi, essendo questi foraggiati abbondantemente dall'Urss. In altre parole, il sostegno al paese ha più una valenza contenitiva delle spinte altrui che non una sua promozione come interlocu­tore privilegiato. Si tratta, nella logica americana, di un atto di "realismo" più che di idealismo. Gli Stati Uniti inaugurano così una politica di "grand design", basata sul bilanciamento dei poteri con l'Urss, marcandola strettamente in ogni suo pas­so compiuto nella regione.

Il maggiore promotore della svolta che si compie negli anni Settanta è Henry Kissinger, la cui linea interventista (in so­stanza, maggiore sostegno ad Israele) si confronta con la cautela di non poca parte delle Amministrazioni Nixon e Ford.



Negli anni Ottanta che il quadro muta ancora. Sulla scena campeggia l'Iran della "rivoluzione islamica". Non di meno il rin­novato attivismo del regime sovietico di­venta fonte di nuova preoccupazione. Il conflitto arabo-israeliano perde tempora­neamente la sua centralità regionale, sosti­tuendosi ad esso il Golfo Persico e l'Afgha­nistan (invaso dai sovietici nel dicembre del 1979). E in questo contesto, ancora una vol­ta fortemente polarizzato, che il rapporto tra Usa e Israele si intensifica. L'Ammini­strazione Reagan, sia pure accordando un rapporto di partnership militare anche a Arabia Saudita, Egitto e Giordania, stabili­sce e sottoscrive nel novembre del 1981 un memorandum di intesa strategica con Israe­le. La politica di Strategie Cooperativa si tra­duce così in un rapporto di mutua assisten­za su tutti gli ambiti legati alla sicurezza.


I successivi sviluppi del quadro geo­politico, dominati dal declino dell'Unione Sovietica, porteranno gli americani a su­perare la politica kissingeriana dei "picco­li passi" per optare verso un disegno di più ampio respiro, dove l'obiettivo di una de­stinazione finale dei Tenitori palestinesi si accompagni alla contemporanea transi­zione verso l'autonomia palestinese.

NOTE

Tratto da Israele. Storia dello Stato. Dal sogno alla realtà (1881-3307), Editice La Giuntina

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