sabato 16 febbraio 2008

Biocarburante, quanto ci costi

Biocarburante, quanto ci costi

Il Sole 24 Ore del 15 febbraio 2008, pag. 1

di Leonardo Maugeri

Non stiamo vivendo soltanto uno shock petroli­fero. In modo più subdolo e meno appariscente, nel mon­do sta montando uno shock da biocarburanti. È solo me­no visibile, perché è ancora ai suoi albori e i suoi primi ef­fetti colpiscono soprattutto le popolazioni più povere della Terra.



Figlia della ricerca di alternati­ve al petrolio, la corsa alla produ­zione di biocarburanti sta intaccando i fondamentali del merca­to mondiale di alcuni prodotti es­senziali per la catena alimentare umana - principalmente cereali e oli vegetali. Anche quando molti di questi beni non entrano direttamente nella nostra dieta lo fanno indirettamente, poiché sono essenziali come mangimi per animali: per cui, se aumenta il costo dell'alimentazione ani­male, aumenta necessariamente il prezzo della carne che finirà sulle nostre tavole.



Il problema è relativamente semplice. Molti coltivatori prefe­riscono destinare i loro terreni alla coltivazione di colture in gra­do di produrre etanolo (sostitu­to della benzina, che si può otte­nere da canna da zucchero, mais, barbabietola) o biodiesel (sostituito del gasolio, che si ot­tiene da oli vegetali come l'olio di palma, soia, colza). Data la cre­scente domanda di biocarburan­ti e i forti sussidi pubblici garanti­ti da molti Governi - primo fra tutti quello degli Stati Uniti - per quei coltivatori risulta molto più conveniente abbandonare il mercato alimentare e buttarsi su quello dell'energia. Così facen­do, tuttavia, sottraggono le loro produzioni al primo, in cui la domanda di quegli stessi beni è pu­re in forte crescita.



Gran parte del mondo in via di sviluppo richiede più proteine e calorie, segno inequivocabile di un'espansione economica che migliora il tenore di vita: un cine­se consumava 20 kg di carne l'an­no nel 1985, ma nel 2007 il consu­mo pro-capite del Paese ha supe­rato i 50 kg. L'effetto combinato di questa doppia domanda sui prezzi è immediato, anche per­ché un chilo di carne di manzo ri­chiede otto chili di cereali (in fa­se di alimentazione dell'animale) ma rilascia un numero di calorie uguale a quello del semplice chi­lo di cereali. Molti analisti hanno rintuzzato gli avvertimenti preoccupati sulla potenziale compe­tizione tra usi alimentari e ener­getici di molte produzioni agrico­le. Per loro la crescita dei prezzi dell'ultimo biennio è dovuta sol­tanto a un balzo inatteso della do­manda alimentare che si è scon­trato con una produzione insufficiente, basse scorte e eventi cli­matici sfavorevoli - oltre che a fe­nomeni speculativi. Ma le cose stanno così solo in parte.



I picchi dei prezzi di cereali e oli vegetali nel 2007 sono arriva­ti in una fase di produzione record. Per i cereali, per esempio, la produzione del 2007 si è atte­stata su circa 1,7 miliardi di ton­nellate, un livello mai raggiunto nella storia. Record analoghi so­no stati toccati da olio di palma e soia. Eppure questo non è basta­to, tanto che le scorte di cereali sono calate di oltre 50 milioni di tonnellate - segno della pressio­ne fortissima di una domanda in crescita. Ma domanda di che? Bene, solo negli Usa 30 milioni di tonnellate di mais in più rispetto al 2006 sono andate alla produ­zione di biocarburanti, cui si ag­giungono altri 10 milioni di ton­nellate spostate su quel tipo di produzioni in altre parti del mondo. In sostanza, gran parte del drenaggio di scorte di cereali ha avuto per responsabile la produ­zione di energia alternativa.



Anche molti oli vegetali han­no subito la stessa sorte. In Occi­dente la cosa passa quasi sotto silenzio, ma non va dimenticato che l'olio di palma e soia è essen­ziale della dieta di centinaia di mi­lioni di persone in Asia e in Afri­ca, poiché senza di essi non si può cucinare. E questo è quanto si sta verificando in Indonesia, Malaysia e India, a causa di un'impenna­ta nei prezzi dell'olio di palma e soia. È pur vero che i rincari dice­reali e oli vegetali, nonché di molti altri beni alimentari, hanno ri­sentito di forti fenomeni specula­tivi - simili a quelli che si stanno osservando nel settore petrolife­ro - alimentati da meccanismi di finanza derivata. Ed è anche vero che le capacità produttive di beni agricoli di intere aree del mondo - a partire dalla Cina - sono sotto­sfruttate e basate su tecnologie e metodologie obsolete. Ma è pur vero che i vasti programmi di sus­sidi e altri incentivi pubblici che in molte parti del mondo si stan­no indirizzando verso le produ­zioni di biocarburanti tenderan­no a determinare uno spiazza­mento che sarà difficile recupera­re nei prossimi dieci anni, poiché il recupero tecnologico e produt­tivo dei Paesi meno avanzati ri­chiederà tempi molto lunghi.



Nel frattempo, secondo la Fao rivolte per l'aumento del prezzo degli oli vegetali sono già esplose negli ultimi mesi in Guinea, Mauritania, Messico, Marocco, Senegal, Uzbekistan e Yemen. E questo è ancor più preoccupante, perché la produzione di biocarbu­ranti è ancora a uno stato fetale ma si svilupperà drasticamente nei prossimi anni a causa di incen­tivi e obiettivi stringenti imposti dalle autorità di mezzo mondo. E quello sviluppo sottrarrà immen­se porzioni di territorio alle pro­duzioni agricole, poiché - è bene ricordarlo - servono enormi produzioni di cereali e oli vegetali per ottenere modeste quantità di carburanti, dato che il contenuto energetico di questi ultimi è mol­to basso. Questo senza considera­re le ambiguità che ancora circon­dano l'effettivo bilancio energeti­co dei biocarburanti (cioè l'ener­gia effettivamente resa al netto di quella consumata per produrli) e quello ambientale.



A questo proposito, l'ultimo numero di Science riporta i risul­tati degli studi compiuti da due università statunitensi, secondo cui i gas serra prodotti dall'etanolo produrrebbero un tasso di surriscaldamento globale due volte superiore a quello prodot­to da benzina e gasolio. Ma in tema ambientale molti altri proble­mi rimangono aperti sui carburanti biologici, a partire da quel­lo dell'enorme consumo di ac­qua (la cui disponibilità rappre­senterà un fattore critico del nostro secolo), dell'impoverimen­to dei suoli, dell'uso massiccio di fertilizzanti richiesti dalla coltivazione di immense quantità di materie prime da destinare al­la produzione di energia.



Forse il rimedio (i biocarburan­ti) è peggiore del male (il petro­lio), come ha sentenziato un recente rapporto della Fao. E, so­prattutto, non è comunque un ri­medio, perché a causa del bassis­simo contenuto di energia ricavabile dalla colture agricole i biocar­buranti non potranno mai essere un candidato credibile a sostitui­re i carburanti tradizionali. La strada difficile per sostituire in parte (e solo in parte) i derivati del petrolio nel trasporto passa dalla ricerca di frontiera applicata a colture non tradizionali (dal­le alghe, ai batteri, ai funghi) e a scarti ligneo-cellulosici. Ma è una strada complementare alla via maestra, che richiede un ab­battimento dei consumi di petro­lio incentrato su vasti piani di efficienza energetica. Fortunatamen­te, negli ultimi tempi si sono leva­te più voci critiche sulla produ­zione di biocarburanti da colture tradizionali (dall'Onu alla Fao). Ma questo non è bastato a frena­re la corsa alla loro produzione.

Sviluppare le produzioni agri­cole è certamente una prospetti­va fondamentale per molte popolazioni della Terra. In alcuni casi specifici, parte di quelle produ­zioni - in futuro - potrebbero an­che andare alla produzione di bio­carburanti, se le condizioni di mercato e la convenienza per i Pa­esi lo consentiranno. Ma vincola­re quei raccolti alla produzione di energia attraverso incentivi e sussidi è qualcosa che potremo pagare a caro prezzo in futuro.

Nessun commento: