l'Unità 3.2.08
Dei diritti e dei malati
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi
Che ci sia nuovamente in agenda una “questione laica”, nel nostro Paese, è cosa evidente a tutti. L’espressione, ancorché in uso da tempo, dunque facilmente intelligibile, non ci convince: descrive solo parzialmente quella relazione - tra religione e sfera pubblica, tra identità confessionale e partecipazione alla vita associata - che oggi è al centro di conflitti e tensioni crescenti. Essa evoca, soprattutto, l’aspirazione all’indipendenza e alla sovranità delle istituzioni democratiche dai condizionamenti che possono venire dalle autorità ecclesiastiche; rappresenta, dunque, una tradizione politica che, particolarmente in Italia, poggia su ragioni storiche complesse e mai definitivamente risolte. Tuttavia, intendere il rapporto tra sfera religiosa e sfera civile, oggi, alla sola luce di un’istanza di difesa della laicità, rischia di lasciare in ombra questioni importanti: che sono leggibili anche nel dibattito iniziato da Giuliano Ferrara, per una moratoria internazionale sull’aborto; e i cui riflessi investono la vicenda della rinuncia di Benedetto XVI a partecipare all’inaugurazione dell’anno accademico alla Sapienza di Roma. Chiariamolo subito: siamo sostanzialmente d’accordo con Adriano Sofri, quando scrive che la Chiesa dovrebbe «chiedersi quanto le tentazioni di censura o di proibizionismi anticlericali debbano al suo proprio oltranzismo». Il Vaticano mostra da anni una tentazione “mondana”, una vocazione a tradurre il suo magistero morale in un primato sull’etica pubblica, che mal si concilia con il carattere liberale della nostra vita associata. Si registra, da parte delle gerarchie cattoliche, un interventismo nella vicenda politica intenso come non accadeva da molti lustri. Le motivazioni di questa spinta meritano di essere rinvenute e interpretate: esse sono soggettive (appartengono alla Chiesa), ma sono rese possibili (e, per alcuni, legittimate) da questioni di ordine culturale e sistemico: che hanno a che fare con la storia della scienza, con la crisi della filosofia, con la secolarizzazione della politica; e con la debolezza delle nostre istituzioni e con l’incerta tenuta del repubblicanesimo, qui inteso come etica civile condivisa. Qualora tutte questioni fossero di agevole lettura e interpretazione, rimarrebbe ancora incerto uno dei punti sui quali insistono molte delle polemiche quotidianamente sollevate, che pure stenta a essere formalizzato con chiarezza: qual è il confine che si prevede per la partecipazione dei credenti (e di chi li rappresenta in sede di dottrina e magistero) alla vita pubblica, affinché sia rispettata la laicità dello stato? La risposta rimanda alla qualità liberale della nostra democrazia: e alla tenuta (e al vigore) di quella fa direttamente riferimento. Va da sé, dunque, che tale risposta possa risultare chiara per molti; e, tuttavia, essa rischia di non essere univoca, rischia di apparire scomposta in una molteplicità di punti di vista e soluzioni. Dunque di essere problematica, fonte di ulteriori incomprensioni e conflitti. Molti di questi si vanno addensando sui quei temi scelleratamente definiti “eticamente sensibili”. Uno in particolare, quello del Testamento biologico, risulta per molti versi paradigmatico: perché è questione “aperta”, sulla quale non gravano ostracismi contrapposti irresolubili. La Chiesa ha a più riprese condannato le pratiche di accanimento terapeutico e si è espressa con favore verso le prerogative di libertà di cura del malato. Ancor più: essa ha espresso il suo consenso verso quelle pratiche sedative di accompagnamento alla morte (ampiamente diffuse nei nostri ospedali e tutt’altro che clandestine, tanto da essere registrate, in genere, nelle cartelle cliniche), che oggi taluni arrivano a definire “eutanasia”: interventi medici che, nell’imminenza e nell’ineluttabilità del decesso, servono solamente ad alleviare la sofferenza. Interventi non dissimili da quelli che Pio XII prese in considerazione nel suo Discorso intorno a tre quesiti religiosi e morali concernenti l’analgesia. Uno degli interrogativi era esattamente questo: «la soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei narcotici (quando è richiesta da un indicazione medica), è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente (anche all'avvicinarsi della morte e se si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita)?». Ecco la risposta: «Se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali: sì». Correva l’anno 1957. Merita di essere ricordato anche quanto espresso dalla Pontificia Accademia per la Vita: «Nell’immediatezza di una morte che appare ormai inevitabile e imminente è lecito, in coscienza, prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, poiché vi è grande differenza etica tra procurare la morte e permettere la morte: il primo atteggiamento rifiuta e nega, il secondo accetta il naturale compimento di essa». Si tratta di una delle espressioni più lucide della distinzione corrente tra sospensione di cure futili ed eutanasia. Correva l’anno 2000; e a capo di quella Accademia vi era l’allora cardinale Joseph Ratzinger. All’opposto, gli argomenti che a più riprese sono stati agitati dal Vaticano contro la libertà terapeutica sono noti. Sono parte consistente di quel novero di polemiche che alimenta la “questione laica” di cui si diceva: l’atteggiamento deplorevole tenuto dalle gerarchie vaticane nel caso della battaglia e della morte di Piergiorgio Welby è memoria problematica e dolorosa per larga parte dell’opinione pubblica (cattolici inclusi). Tuttavia, proprio come i cattolici intendono convocare i laici a discutere di politiche sulla maternità, noi vorremmo convocare loro per ragionare delle libertà della persona; e, in questo caso, dei diritti di libertà del malato. Nella speranza che la buona volontà della ragione attenui le divisioni di schieramento, appartenenza, cultura.
Dei diritti e dei malati
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi
Che ci sia nuovamente in agenda una “questione laica”, nel nostro Paese, è cosa evidente a tutti. L’espressione, ancorché in uso da tempo, dunque facilmente intelligibile, non ci convince: descrive solo parzialmente quella relazione - tra religione e sfera pubblica, tra identità confessionale e partecipazione alla vita associata - che oggi è al centro di conflitti e tensioni crescenti. Essa evoca, soprattutto, l’aspirazione all’indipendenza e alla sovranità delle istituzioni democratiche dai condizionamenti che possono venire dalle autorità ecclesiastiche; rappresenta, dunque, una tradizione politica che, particolarmente in Italia, poggia su ragioni storiche complesse e mai definitivamente risolte. Tuttavia, intendere il rapporto tra sfera religiosa e sfera civile, oggi, alla sola luce di un’istanza di difesa della laicità, rischia di lasciare in ombra questioni importanti: che sono leggibili anche nel dibattito iniziato da Giuliano Ferrara, per una moratoria internazionale sull’aborto; e i cui riflessi investono la vicenda della rinuncia di Benedetto XVI a partecipare all’inaugurazione dell’anno accademico alla Sapienza di Roma. Chiariamolo subito: siamo sostanzialmente d’accordo con Adriano Sofri, quando scrive che la Chiesa dovrebbe «chiedersi quanto le tentazioni di censura o di proibizionismi anticlericali debbano al suo proprio oltranzismo». Il Vaticano mostra da anni una tentazione “mondana”, una vocazione a tradurre il suo magistero morale in un primato sull’etica pubblica, che mal si concilia con il carattere liberale della nostra vita associata. Si registra, da parte delle gerarchie cattoliche, un interventismo nella vicenda politica intenso come non accadeva da molti lustri. Le motivazioni di questa spinta meritano di essere rinvenute e interpretate: esse sono soggettive (appartengono alla Chiesa), ma sono rese possibili (e, per alcuni, legittimate) da questioni di ordine culturale e sistemico: che hanno a che fare con la storia della scienza, con la crisi della filosofia, con la secolarizzazione della politica; e con la debolezza delle nostre istituzioni e con l’incerta tenuta del repubblicanesimo, qui inteso come etica civile condivisa. Qualora tutte questioni fossero di agevole lettura e interpretazione, rimarrebbe ancora incerto uno dei punti sui quali insistono molte delle polemiche quotidianamente sollevate, che pure stenta a essere formalizzato con chiarezza: qual è il confine che si prevede per la partecipazione dei credenti (e di chi li rappresenta in sede di dottrina e magistero) alla vita pubblica, affinché sia rispettata la laicità dello stato? La risposta rimanda alla qualità liberale della nostra democrazia: e alla tenuta (e al vigore) di quella fa direttamente riferimento. Va da sé, dunque, che tale risposta possa risultare chiara per molti; e, tuttavia, essa rischia di non essere univoca, rischia di apparire scomposta in una molteplicità di punti di vista e soluzioni. Dunque di essere problematica, fonte di ulteriori incomprensioni e conflitti. Molti di questi si vanno addensando sui quei temi scelleratamente definiti “eticamente sensibili”. Uno in particolare, quello del Testamento biologico, risulta per molti versi paradigmatico: perché è questione “aperta”, sulla quale non gravano ostracismi contrapposti irresolubili. La Chiesa ha a più riprese condannato le pratiche di accanimento terapeutico e si è espressa con favore verso le prerogative di libertà di cura del malato. Ancor più: essa ha espresso il suo consenso verso quelle pratiche sedative di accompagnamento alla morte (ampiamente diffuse nei nostri ospedali e tutt’altro che clandestine, tanto da essere registrate, in genere, nelle cartelle cliniche), che oggi taluni arrivano a definire “eutanasia”: interventi medici che, nell’imminenza e nell’ineluttabilità del decesso, servono solamente ad alleviare la sofferenza. Interventi non dissimili da quelli che Pio XII prese in considerazione nel suo Discorso intorno a tre quesiti religiosi e morali concernenti l’analgesia. Uno degli interrogativi era esattamente questo: «la soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei narcotici (quando è richiesta da un indicazione medica), è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente (anche all'avvicinarsi della morte e se si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita)?». Ecco la risposta: «Se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali: sì». Correva l’anno 1957. Merita di essere ricordato anche quanto espresso dalla Pontificia Accademia per la Vita: «Nell’immediatezza di una morte che appare ormai inevitabile e imminente è lecito, in coscienza, prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, poiché vi è grande differenza etica tra procurare la morte e permettere la morte: il primo atteggiamento rifiuta e nega, il secondo accetta il naturale compimento di essa». Si tratta di una delle espressioni più lucide della distinzione corrente tra sospensione di cure futili ed eutanasia. Correva l’anno 2000; e a capo di quella Accademia vi era l’allora cardinale Joseph Ratzinger. All’opposto, gli argomenti che a più riprese sono stati agitati dal Vaticano contro la libertà terapeutica sono noti. Sono parte consistente di quel novero di polemiche che alimenta la “questione laica” di cui si diceva: l’atteggiamento deplorevole tenuto dalle gerarchie vaticane nel caso della battaglia e della morte di Piergiorgio Welby è memoria problematica e dolorosa per larga parte dell’opinione pubblica (cattolici inclusi). Tuttavia, proprio come i cattolici intendono convocare i laici a discutere di politiche sulla maternità, noi vorremmo convocare loro per ragionare delle libertà della persona; e, in questo caso, dei diritti di libertà del malato. Nella speranza che la buona volontà della ragione attenui le divisioni di schieramento, appartenenza, cultura.
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