Hedge fund in rovina, comincia il Carlyle
di Francesco Piccioni
Il Manifesto del 14/03/2008
Un crack da 16,6 miliardi di dollari. Aveva preso in prestito ben 22 miliardi per investirli in mutui «garantiti» con la «tripla A»; ma non è riuscito a restituirli. In pochi giorni altri sette hedge fund hanno preferito «congelare» le richieste di riscatto degli investimenti da parte dei clienti
«Cadranno come birilli», spiegava qualche giorno fa un analista serio parlando degli hedge fund e tutti gli altri fondi che avevano scommesso sulle scartoffie «garantite» da mutui immobiliari. Certo non poteva pensare che tra i primi a cadere ci sarebbe stato un fondo molto «titolato», specie sul versante politico, come il Carlyle Capital Corp (Ccc). Un ramo - e non secondario - di quel Carlyle Group (vedi l'articolo di fianco) da qualche anno punta di lancia dei corsari del partito repubblicano Usa.
Insediato legalmente nell'isola di Guernsey (uno dei paradisi fiscali europei), aveva fatto il suo esordio sulla scena europea solo nel luglio scorso, alla borsa di Amsterdam, con la quotazione di ingresso a 20 euro per azione. Ieri ha di fatto dichiarato fallimento, dopo che il titolo era stato già sospeso (aveva perso il 77% in un giorno solo) quando valeva solo pochi centesimi. Posseduto al 15% dal Carlyle Group, questo fondo disponeva di un capitale di appena 670 milioni; ma alla fine di dicembre ha ottenuto da 12 banche - tra cui Deutsche Bank e Citigroup - ben 22 miliardi per investire in debito a «tripla A» garantito da mutui immobiliari emessi da Freddie Mac e Fannie Mae, società semipubbliche Usa. Risultato: non sono riusciti a restituire i debiti per un ammontare di 16,6 miliardi e si attendono, perciò, il sequestro degli asset residui ancora posseduti. La società madre, che gestisce ben 75 miliardi di dollari, avrebbe dovuto sacrificare oltre il 20% del patrimonio per riparare al guaio combinato; e ha preferito rovinarsi l'immagine, piuttosto che il portafoglio.
Non è l'unico caso. Pur senza arrivare al default finale, sono ben sette gli hedge funds che negli ultimi giorni hanno fatto ricorso a una misura strangola-clienti: il blocco della restituzione degli investimenti. Il fondo olandese CO Capital ha adottato ieri una simile decisione in via «temporanea» (per tutto l'anno in corso), visto che non riusciva più a piazzare i propri asset a un prezzo «ragionevole». Ma nei giorni precedenti altri sei fondi con le stesse caratteristiche si sono mosse nello stesso senso. La conseguenza è ovviamente un domino: chiunque abbia soldi investiti in strumenti finanziari dello stesso genere verrà a questo punto invogliato a riscattarli il prima possibile. Contribuendo così a svalutare -a catena - fondi di investimento magari sanissimi o con «asset» molto più solidi dei subprime o dei «collaterali». Una spinta notevole a intensificare quel credit crunch che le banche centrali stanno cercando di evitare iniettando denaro liquido nei mercati, a tassi inferiori a quelli di interesse. Una società miliardaria ma dal fatturato ignoto; un fondo di private equity fondato oltre 20 anni fa da tre repubblicani di chiara fama (William Conway, Daniel D'Aniello e David Rubenstein) con solide amicizie nell'establishment di Washington. Il nome venne preso direttamente dall'albergo sede della prima riunione formale. Il Carlyle Group si è presto guadagnato il soprannome di «società degli ex presidenti». Nei ruoli chiave, infatti (dai senior advisor fino agli «uomini immagine»), venne chiamata la crème de la crème del conservatorismo atlantico. L'ex presidente-padre George Herbert Bush, l'ex premier inglese John Major, l'ex segretario di stato ed ex ministro del tesoro James Baker III, l'ex capo della Cia Frank Carlucci (presidente del Carlyle dal '99 al 2003, poi «presidente emerito»). E poi una pletora di ex ministri e presidenti di tutti e cinque i continenti. Un gruppo a vocazione globale e con un'attitudine speciale per gli affari fatti a cavallo della faglia tra potere politico e business. Tra gli italiani ammessi al gotha continentale del gruppo si possono registrare invitati rigorosamente bipartisan, come l'ex ministro dell'istruzione e ora sindaco di Milano, Letizia Moratti, o l'ex star emergente dell'ambientalismo, Chicco Testa; ma anche imprenditori di buona famiglia come Marco De Benedetti. Meno presentabili, specie dopo le Twin Towers, alcuni soci non americani del fondo. Tipo il Bin Laden Group, che fu invitato a «uscire» per ovvie ragioni mediatiche.
Una società con una attenzione privilegiata per le industrie aerospaziali e militari, come si conviene a dei conservatori duri e puri che le armi le hanno usate spesso. Attualmente il gruppo vanta partecipazioni rilevanti in ben 23 industrie del settore; la più nota dalle nostre parti è l'ex Fiat Avio, controllata al 70% (il resto è di Finmeccanica, ancora controllata dallo stato italiano). Tutte le altre sono in maggioranza statunitensi, con diverse puntate in Europa.
Ma non poteva mancare una robustissima presenza nel pianeta dell'energia (molti dei patron vengono direttamente dalle società petrolifere, del resto), sia nella versione «hard» degli idrocarburi, sia in quella «soft» delle rinnovabili (la Green Earth Fuel e altri produttori di etanolo). E siccome i media hanno la loro importanza strategica al pari delle armi, ecco una lunga lista di partecipazioni nella comunicazione (il marchio più noto è l'icona dei conservatori francesi, Le Figaro). Rigorosamente in tutti i continenti (ma soprattutto in Europa e Asia, oltre gli Stati uniti).
Infinita anche la lista delle presenze nell'hi tech, dove spicca la Toshiba Ceramics (semiconduttori), così come quella nella sanità (soprattutto statunitense). Tra queste, è diventata famosa per qualche settimana la Intervac, che controllava la Bioport, produttrice di un vaccino anti-antrace che l'esercito degli Stati uniti non voleva adottare perché considerato pericoloso. A un certo punto, dopo l'11 settembre, qualcuno cominciò a spedire lettere con la polverina bianca a diversi giornali e deputati; e l'esercito fu obbligato prendersi - a caro prezzo - il disprezzato vaccino. A dirigere la Intervac, in quel periodo, c'era William Crowe, ex capo di stato maggiore ai tempi della prima guerra del Golfo (nel '91).
Interessante, specie per noi italici, la passione per gli immobili. Una massa di edifici, spesso di pregio, in quasi tutte le capitali europee e non. In Italia ha partecipato intensamente alla privatizzazione del patrimonio immobiliare pubblico (le «cartolarizzazioni» di Giulio Tremonti). Ma, come si potrebbe capire dalle cifre, questi sono affarucci di serie B. Ci si fanno utili, lo stesso, certo. Ma il core business del Carlyle è di ben altro livello.
di Francesco Piccioni
Il Manifesto del 14/03/2008
Un crack da 16,6 miliardi di dollari. Aveva preso in prestito ben 22 miliardi per investirli in mutui «garantiti» con la «tripla A»; ma non è riuscito a restituirli. In pochi giorni altri sette hedge fund hanno preferito «congelare» le richieste di riscatto degli investimenti da parte dei clienti
«Cadranno come birilli», spiegava qualche giorno fa un analista serio parlando degli hedge fund e tutti gli altri fondi che avevano scommesso sulle scartoffie «garantite» da mutui immobiliari. Certo non poteva pensare che tra i primi a cadere ci sarebbe stato un fondo molto «titolato», specie sul versante politico, come il Carlyle Capital Corp (Ccc). Un ramo - e non secondario - di quel Carlyle Group (vedi l'articolo di fianco) da qualche anno punta di lancia dei corsari del partito repubblicano Usa.
Insediato legalmente nell'isola di Guernsey (uno dei paradisi fiscali europei), aveva fatto il suo esordio sulla scena europea solo nel luglio scorso, alla borsa di Amsterdam, con la quotazione di ingresso a 20 euro per azione. Ieri ha di fatto dichiarato fallimento, dopo che il titolo era stato già sospeso (aveva perso il 77% in un giorno solo) quando valeva solo pochi centesimi. Posseduto al 15% dal Carlyle Group, questo fondo disponeva di un capitale di appena 670 milioni; ma alla fine di dicembre ha ottenuto da 12 banche - tra cui Deutsche Bank e Citigroup - ben 22 miliardi per investire in debito a «tripla A» garantito da mutui immobiliari emessi da Freddie Mac e Fannie Mae, società semipubbliche Usa. Risultato: non sono riusciti a restituire i debiti per un ammontare di 16,6 miliardi e si attendono, perciò, il sequestro degli asset residui ancora posseduti. La società madre, che gestisce ben 75 miliardi di dollari, avrebbe dovuto sacrificare oltre il 20% del patrimonio per riparare al guaio combinato; e ha preferito rovinarsi l'immagine, piuttosto che il portafoglio.
Non è l'unico caso. Pur senza arrivare al default finale, sono ben sette gli hedge funds che negli ultimi giorni hanno fatto ricorso a una misura strangola-clienti: il blocco della restituzione degli investimenti. Il fondo olandese CO Capital ha adottato ieri una simile decisione in via «temporanea» (per tutto l'anno in corso), visto che non riusciva più a piazzare i propri asset a un prezzo «ragionevole». Ma nei giorni precedenti altri sei fondi con le stesse caratteristiche si sono mosse nello stesso senso. La conseguenza è ovviamente un domino: chiunque abbia soldi investiti in strumenti finanziari dello stesso genere verrà a questo punto invogliato a riscattarli il prima possibile. Contribuendo così a svalutare -a catena - fondi di investimento magari sanissimi o con «asset» molto più solidi dei subprime o dei «collaterali». Una spinta notevole a intensificare quel credit crunch che le banche centrali stanno cercando di evitare iniettando denaro liquido nei mercati, a tassi inferiori a quelli di interesse. Una società miliardaria ma dal fatturato ignoto; un fondo di private equity fondato oltre 20 anni fa da tre repubblicani di chiara fama (William Conway, Daniel D'Aniello e David Rubenstein) con solide amicizie nell'establishment di Washington. Il nome venne preso direttamente dall'albergo sede della prima riunione formale. Il Carlyle Group si è presto guadagnato il soprannome di «società degli ex presidenti». Nei ruoli chiave, infatti (dai senior advisor fino agli «uomini immagine»), venne chiamata la crème de la crème del conservatorismo atlantico. L'ex presidente-padre George Herbert Bush, l'ex premier inglese John Major, l'ex segretario di stato ed ex ministro del tesoro James Baker III, l'ex capo della Cia Frank Carlucci (presidente del Carlyle dal '99 al 2003, poi «presidente emerito»). E poi una pletora di ex ministri e presidenti di tutti e cinque i continenti. Un gruppo a vocazione globale e con un'attitudine speciale per gli affari fatti a cavallo della faglia tra potere politico e business. Tra gli italiani ammessi al gotha continentale del gruppo si possono registrare invitati rigorosamente bipartisan, come l'ex ministro dell'istruzione e ora sindaco di Milano, Letizia Moratti, o l'ex star emergente dell'ambientalismo, Chicco Testa; ma anche imprenditori di buona famiglia come Marco De Benedetti. Meno presentabili, specie dopo le Twin Towers, alcuni soci non americani del fondo. Tipo il Bin Laden Group, che fu invitato a «uscire» per ovvie ragioni mediatiche.
Una società con una attenzione privilegiata per le industrie aerospaziali e militari, come si conviene a dei conservatori duri e puri che le armi le hanno usate spesso. Attualmente il gruppo vanta partecipazioni rilevanti in ben 23 industrie del settore; la più nota dalle nostre parti è l'ex Fiat Avio, controllata al 70% (il resto è di Finmeccanica, ancora controllata dallo stato italiano). Tutte le altre sono in maggioranza statunitensi, con diverse puntate in Europa.
Ma non poteva mancare una robustissima presenza nel pianeta dell'energia (molti dei patron vengono direttamente dalle società petrolifere, del resto), sia nella versione «hard» degli idrocarburi, sia in quella «soft» delle rinnovabili (la Green Earth Fuel e altri produttori di etanolo). E siccome i media hanno la loro importanza strategica al pari delle armi, ecco una lunga lista di partecipazioni nella comunicazione (il marchio più noto è l'icona dei conservatori francesi, Le Figaro). Rigorosamente in tutti i continenti (ma soprattutto in Europa e Asia, oltre gli Stati uniti).
Infinita anche la lista delle presenze nell'hi tech, dove spicca la Toshiba Ceramics (semiconduttori), così come quella nella sanità (soprattutto statunitense). Tra queste, è diventata famosa per qualche settimana la Intervac, che controllava la Bioport, produttrice di un vaccino anti-antrace che l'esercito degli Stati uniti non voleva adottare perché considerato pericoloso. A un certo punto, dopo l'11 settembre, qualcuno cominciò a spedire lettere con la polverina bianca a diversi giornali e deputati; e l'esercito fu obbligato prendersi - a caro prezzo - il disprezzato vaccino. A dirigere la Intervac, in quel periodo, c'era William Crowe, ex capo di stato maggiore ai tempi della prima guerra del Golfo (nel '91).
Interessante, specie per noi italici, la passione per gli immobili. Una massa di edifici, spesso di pregio, in quasi tutte le capitali europee e non. In Italia ha partecipato intensamente alla privatizzazione del patrimonio immobiliare pubblico (le «cartolarizzazioni» di Giulio Tremonti). Ma, come si potrebbe capire dalle cifre, questi sono affarucci di serie B. Ci si fanno utili, lo stesso, certo. Ma il core business del Carlyle è di ben altro livello.
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