l’Unità 10.3.08
Le riviste scientifiche chiedono che tutti i dati dei trials siano pubblici. Solo così si può scoprire se un farmaco non funziona, come è avvenuto col Prozac
Sperimentazioni cliniche: la doppia faccia della trasparenza
di Pietro Greco
Più trasparenza, nella ricerca biomedica e, in particolare, nelle indagini cliniche (trials) che servono per sperimentare l’efficacia e la sicurezza dei farmaci. Lo hanno chiesto nei giorni scorsi le due più importanti riviste scientifiche del mondo, l’americana Science e l’inglese Nature. Ma lo ha chiesto di recente anche il Congresso degli Stati Uniti, con una legge - la FDA Amendments Act del 27 settembre 2007 - che impone la costituzione di un archivio pubblico e completo di tutti i risultati ottenuti da tutti i trials clinici.
Che il problema sia attuale, lo dimostra la recente pubblicazione su PlosMedicine di un’indagine - una metaanalisi, come si dice in gergo - sull’efficacia di alcuni farmaci antidepressivi. La notizia non consiste solo nel fatto, rilevante, che Irving Kirsch, dell’università di Hull, e il suo team, studiando i risultati di 35 diversi trials clinici hanno trovato che questi farmaci mostrano spesso un’efficacia non molto superiore a quella di un placebo. Ma anche nel fatto che per realizzare quest'indagine e accedere a tutte le informazioni in possesso della Food and Drug Administration degli Stati Uniti, Kirsch e i suoi colleghi hanno dovuto fare appello al Freedom of Information Act, che negli Usa impone, appunto, la trasparenza degli atti pubblici.
Grazie a questa legge Kirsch e i suoi colleghi hanno potuto studiare anche i risultati di trials clinici che avevano dimostrato l’inefficacia di alcuni antidepressivi e che, per questo, non erano mai stati pubblicati. Una prassi tutt’altro che rara. Secondo un recente studio - «Selective Publication of Antidepressant Trials and Its Influence on Apparent Efficacy» pubblicato il 17 gennaio scorso sul New England Journal of Medicine da un gruppo guidato dal Erick H. Turner della Orgenon University - il 30% degli studi clinici effettuati su 12 antidepressivi sono stati di fatto secretati e i risultati mai resi pubblici. Ciò è possibile anche perché molti trials effettuati non sono pubblicamente registrati.
Il problema non riguarda solo gli antidepressivi. È molto più generale. Se è vero che è bastata una semplice regola imposta a partire dal settembre 2005 dalle riviste scientifiche agli autori - puoi pubblicare solo se il trials da cui hai ricavato i dati è pubblicamente registrato - per far aumentare del 73% il numero di indagini cliniche registrate in tutto il mondo. In un solo mese nei soli Stati Uniti i trials clinici registrati sono passati da 13.153 a 22.714. E oggi in 153 diversi paesi del mondo ne sono registrati 53.000.
Molti - dall’Organizzazione Mondiale di sanità agli Nih degli Stati Uniti - stanno organizzando database completi sui trials clinici. Ma, naturalmente, non basta registrare che una sperimentazione è in corso e rendere pubblico il dato. Occorre che tutto il processo dei trials sia trasparente, in ogni e ciascuna sua fase, dal protocollo dell’indagine fino, appunto, ai risultati.
Non tutti sono d’accordo. A iniziare, naturalmente, dalle aziende farmaceutiche che nella trasparenza assoluta vedono minato il diritto alla proprietà intellettuale e alla loro capacità competitiva. Tuttavia, come rilevano Deborah A. Zarin and Tony Tse in un articolo su Science, in questo caso il legittimo interesse commerciale confligge con un interesse superiore, l’interesse alla salute. Sia la salute dei volontari che partecipano ai trials clinici, che mettono in gioco la propria salute e hanno, quindi, diritto a conoscere tutto intorno al rischio che corrono. Sia, più in generale, la salute di noi tutti, pazienti attuali o potenziali. Che può essere minacciata dalla mancata pubblicazione sull’efficacia e la sicurezza di un farmaco.
In conclusione: non c’è dubbio alcuno, occorre la massima trasparenza nella ricerca biomedica e, in particolare, nella sperimentazione dei farmaci.
Ma massima trasparenza significa trasparenza assoluta? Non affrettatevi a rispondere. Prendiamo in esame il caso, attuale, della Pfizer - la più grande azienda farmaceutica del mondo - che ha trascinato in tribunale proprio il New England Journal of Medicine perché, nell’ambito di una strategia a tutela di alcuni suoi prodotti, vuole conoscere il nome di tutti i peer reviewers (gli esperti volontari e anonimi che sottopongono un articolo scientifico ad analisi critica prima della sua pubblicazione), di tutte le procedure editoriali interne della rivista e tutti i manoscritti ricevuti relativi a due suoi farmaci, il Bextra e il Vioxx, piuttosto criticati ultimamente. A parte la situazione bizzarra - per cui in questo caso è un’azienda farmaceutica a chiedere la massima trasparenza - se il magistrato dovesse accogliere la richiesta, l’intero sistema della peer review - ovvero della comunicazione scientifica - verrebbe minato. Il che dimostra che la trasparenza deve essere un mezzo ma non il fine. Il fine, in medicina, è uno solo: la migliore tutela possibile della salute dei cittadini. Garantita, anche, dall’autonomia della scienza (autonomia dalla politica, dalla religione e dall’economia) e dalle sue prassi sociali.
Le riviste scientifiche chiedono che tutti i dati dei trials siano pubblici. Solo così si può scoprire se un farmaco non funziona, come è avvenuto col Prozac
Sperimentazioni cliniche: la doppia faccia della trasparenza
di Pietro Greco
Più trasparenza, nella ricerca biomedica e, in particolare, nelle indagini cliniche (trials) che servono per sperimentare l’efficacia e la sicurezza dei farmaci. Lo hanno chiesto nei giorni scorsi le due più importanti riviste scientifiche del mondo, l’americana Science e l’inglese Nature. Ma lo ha chiesto di recente anche il Congresso degli Stati Uniti, con una legge - la FDA Amendments Act del 27 settembre 2007 - che impone la costituzione di un archivio pubblico e completo di tutti i risultati ottenuti da tutti i trials clinici.
Che il problema sia attuale, lo dimostra la recente pubblicazione su PlosMedicine di un’indagine - una metaanalisi, come si dice in gergo - sull’efficacia di alcuni farmaci antidepressivi. La notizia non consiste solo nel fatto, rilevante, che Irving Kirsch, dell’università di Hull, e il suo team, studiando i risultati di 35 diversi trials clinici hanno trovato che questi farmaci mostrano spesso un’efficacia non molto superiore a quella di un placebo. Ma anche nel fatto che per realizzare quest'indagine e accedere a tutte le informazioni in possesso della Food and Drug Administration degli Stati Uniti, Kirsch e i suoi colleghi hanno dovuto fare appello al Freedom of Information Act, che negli Usa impone, appunto, la trasparenza degli atti pubblici.
Grazie a questa legge Kirsch e i suoi colleghi hanno potuto studiare anche i risultati di trials clinici che avevano dimostrato l’inefficacia di alcuni antidepressivi e che, per questo, non erano mai stati pubblicati. Una prassi tutt’altro che rara. Secondo un recente studio - «Selective Publication of Antidepressant Trials and Its Influence on Apparent Efficacy» pubblicato il 17 gennaio scorso sul New England Journal of Medicine da un gruppo guidato dal Erick H. Turner della Orgenon University - il 30% degli studi clinici effettuati su 12 antidepressivi sono stati di fatto secretati e i risultati mai resi pubblici. Ciò è possibile anche perché molti trials effettuati non sono pubblicamente registrati.
Il problema non riguarda solo gli antidepressivi. È molto più generale. Se è vero che è bastata una semplice regola imposta a partire dal settembre 2005 dalle riviste scientifiche agli autori - puoi pubblicare solo se il trials da cui hai ricavato i dati è pubblicamente registrato - per far aumentare del 73% il numero di indagini cliniche registrate in tutto il mondo. In un solo mese nei soli Stati Uniti i trials clinici registrati sono passati da 13.153 a 22.714. E oggi in 153 diversi paesi del mondo ne sono registrati 53.000.
Molti - dall’Organizzazione Mondiale di sanità agli Nih degli Stati Uniti - stanno organizzando database completi sui trials clinici. Ma, naturalmente, non basta registrare che una sperimentazione è in corso e rendere pubblico il dato. Occorre che tutto il processo dei trials sia trasparente, in ogni e ciascuna sua fase, dal protocollo dell’indagine fino, appunto, ai risultati.
Non tutti sono d’accordo. A iniziare, naturalmente, dalle aziende farmaceutiche che nella trasparenza assoluta vedono minato il diritto alla proprietà intellettuale e alla loro capacità competitiva. Tuttavia, come rilevano Deborah A. Zarin and Tony Tse in un articolo su Science, in questo caso il legittimo interesse commerciale confligge con un interesse superiore, l’interesse alla salute. Sia la salute dei volontari che partecipano ai trials clinici, che mettono in gioco la propria salute e hanno, quindi, diritto a conoscere tutto intorno al rischio che corrono. Sia, più in generale, la salute di noi tutti, pazienti attuali o potenziali. Che può essere minacciata dalla mancata pubblicazione sull’efficacia e la sicurezza di un farmaco.
In conclusione: non c’è dubbio alcuno, occorre la massima trasparenza nella ricerca biomedica e, in particolare, nella sperimentazione dei farmaci.
Ma massima trasparenza significa trasparenza assoluta? Non affrettatevi a rispondere. Prendiamo in esame il caso, attuale, della Pfizer - la più grande azienda farmaceutica del mondo - che ha trascinato in tribunale proprio il New England Journal of Medicine perché, nell’ambito di una strategia a tutela di alcuni suoi prodotti, vuole conoscere il nome di tutti i peer reviewers (gli esperti volontari e anonimi che sottopongono un articolo scientifico ad analisi critica prima della sua pubblicazione), di tutte le procedure editoriali interne della rivista e tutti i manoscritti ricevuti relativi a due suoi farmaci, il Bextra e il Vioxx, piuttosto criticati ultimamente. A parte la situazione bizzarra - per cui in questo caso è un’azienda farmaceutica a chiedere la massima trasparenza - se il magistrato dovesse accogliere la richiesta, l’intero sistema della peer review - ovvero della comunicazione scientifica - verrebbe minato. Il che dimostra che la trasparenza deve essere un mezzo ma non il fine. Il fine, in medicina, è uno solo: la migliore tutela possibile della salute dei cittadini. Garantita, anche, dall’autonomia della scienza (autonomia dalla politica, dalla religione e dall’economia) e dalle sue prassi sociali.
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