La scarsità del petrolio e i giochi d'azzardo della finanza
di Sabina Morandi
Liberazione del 07/03/2008
Per prima cosa una precisazione: il costante aumento del prezzo del barile è in realtà la conseguenza diretta, decimale per decimale, della svalutazione del dollaro. Se pagassimo il petrolio in rupie, o in una qualunque moneta in picchiata, sicuramente le tariffe salirebbero ancora più velocemente; viceversa se potessimo pagarlo in euro - che nel frattempo com'è noto ha toccato il suo massimo contro il dollaro - certamente non saremmo ai 106 al barile di ieri. Detto questo - stralciata quindi l'annosa questione della supremazia del dollaro come moneta di scambio internazionale - resta il fatto che stiamo parlando di una risorsa in via di esaurimento e quindi sempre più costosa da estrarre e sempre più richiesta, con il boom delle economie emergenti.
Non è colpa dell'Opec, quindi, chiamato costantemente in causa da Bush come principale responsabile dell'attuale situazione. I nostri giornalisti si adeguano e puntano il dito contro i perfidi venezuelani e i cattivissimi iraniani che, da tempo, continuano a proporre tagli consistenti della produzione. Alla richiesta di Bush (producete di più) e a quella di Iran e Venezuela (produciamo di meno) l'Opec riunito a Vienna mercoledì scorso ha risposto lasciando le cose come stanno: una scelta politica, praticamente obbligata. Certo, dal punto di vista prettamente economico, è una scelta sbagliata. Se il mondo fosse davvero governato dalla logica di mercato i paesi produttori avrebbero tutti i motivi per estrarre meno petrolio, sia per conservare una risorsa strategica più a lungo possibile, sia perché oggi sono costretti a vendere in dollari, e i loro ricavi seguono il biglietto verde nella sua inesorabile discesa. Non riducono la produzione prima di tutto per evitare di fare la fine di Saddam e poi perché, alla fin fine, nessuno è in grado di controllare se effettivamente venga pompato tanto petrolio quanto si dice. Del resto come verificare la correttezza dei dati diffusi dal Dipartimento dell'Energia sulle scorte statunitensi, che avrebbero toccato ieri il minimo storico (3,1 milioni di barili), se la reale entità delle scorte strategiche statunitensi è un segreto militare?
Sul petrolio insomma mentono tutti: le compagnie pubbliche (l'Opec) quelle private (vedi il caso della Shell) e i capi di governo, vista la natura strategicamente delicata dell'informazione. Resta il fatto che bastano un po' di chiacchiere o il contenzioso fra uno stato e una compagnia (il Venezuela contro Exxon Mobil) per provocare dei paurosi rimbalzi a Wall Street e, conseguentemente, nell'economia reale: una tendenza ampiamente prevista dai teorici del picco, cui si aggiungono gli effetti della crisi dei subprime. Già, i subprime… Molti analisti ritengono che, ad avere messo il turbo al greggio, sia stato il riversarsi dei capitali in fuga dai mutui facili sul mercato delle commodities, quelle materie prime che fino a poco tempo fa avevano ben poco appeal per gli speculatori. La domanda quindi sorge spontanea: possibile lasciare in balia della finanza d'azzardo una risorsa così importante per l'economia globale? Come si può consentire che alcuni traders giochino alla roulette con il nostro futuro mentre l'economia rallenta a causa degli altissimi prezzi raggiunti dal greggio nella roulette virtuale del Nymex?
Evidentemente non si tratta di luddismo, ambientalismo, terzomondismo o anti-americanismo che dir si voglia, ma di semplice buon senso che può essere condiviso da chi l'economia la fa girare sul serio. Ma per produrre ci vuole il petrolio, il cui prezzo dovrebbe essere determinato dai costi di estrazione, più i profitti delle compagnie che hanno investito e dei mediatori che lo portano sul mercato. Invece il prezzo viene determinato dalla rapidità con cui qualche ragazzetto, che non sa nulla né di petrolio né di economia reale, riesce a piazzare le sue ordinazioni o a liberarsene con un doppio click. La finanza è il convitato di pietra di cui non si parla mai, ma è un pozzo senza fondo capace di ingoiare realtà produttive consistenti in un solo boccone, o di spingere a livelli insostenibili il costo di materie prime fondamentali per la nostra sopravvivenza come il petrolio o - peggio ancora - i generi alimentari. Prima o poi - sull'onda di un nuovo uragano, di un'altra guerra o di un incidente petrolifero - la scarsità sarà così consistente da costringere i governi a fare l'impensabile: sottrarre il petrolio al gioco finanziario per gestirlo come si fa in tempo di guerra. E fra esaurimento dei giacimenti e riscaldamento globale, la crisi che abbiamo di fronte non ha nulla da invidiare a una guerra vera.
di Sabina Morandi
Liberazione del 07/03/2008
Per prima cosa una precisazione: il costante aumento del prezzo del barile è in realtà la conseguenza diretta, decimale per decimale, della svalutazione del dollaro. Se pagassimo il petrolio in rupie, o in una qualunque moneta in picchiata, sicuramente le tariffe salirebbero ancora più velocemente; viceversa se potessimo pagarlo in euro - che nel frattempo com'è noto ha toccato il suo massimo contro il dollaro - certamente non saremmo ai 106 al barile di ieri. Detto questo - stralciata quindi l'annosa questione della supremazia del dollaro come moneta di scambio internazionale - resta il fatto che stiamo parlando di una risorsa in via di esaurimento e quindi sempre più costosa da estrarre e sempre più richiesta, con il boom delle economie emergenti.
Non è colpa dell'Opec, quindi, chiamato costantemente in causa da Bush come principale responsabile dell'attuale situazione. I nostri giornalisti si adeguano e puntano il dito contro i perfidi venezuelani e i cattivissimi iraniani che, da tempo, continuano a proporre tagli consistenti della produzione. Alla richiesta di Bush (producete di più) e a quella di Iran e Venezuela (produciamo di meno) l'Opec riunito a Vienna mercoledì scorso ha risposto lasciando le cose come stanno: una scelta politica, praticamente obbligata. Certo, dal punto di vista prettamente economico, è una scelta sbagliata. Se il mondo fosse davvero governato dalla logica di mercato i paesi produttori avrebbero tutti i motivi per estrarre meno petrolio, sia per conservare una risorsa strategica più a lungo possibile, sia perché oggi sono costretti a vendere in dollari, e i loro ricavi seguono il biglietto verde nella sua inesorabile discesa. Non riducono la produzione prima di tutto per evitare di fare la fine di Saddam e poi perché, alla fin fine, nessuno è in grado di controllare se effettivamente venga pompato tanto petrolio quanto si dice. Del resto come verificare la correttezza dei dati diffusi dal Dipartimento dell'Energia sulle scorte statunitensi, che avrebbero toccato ieri il minimo storico (3,1 milioni di barili), se la reale entità delle scorte strategiche statunitensi è un segreto militare?
Sul petrolio insomma mentono tutti: le compagnie pubbliche (l'Opec) quelle private (vedi il caso della Shell) e i capi di governo, vista la natura strategicamente delicata dell'informazione. Resta il fatto che bastano un po' di chiacchiere o il contenzioso fra uno stato e una compagnia (il Venezuela contro Exxon Mobil) per provocare dei paurosi rimbalzi a Wall Street e, conseguentemente, nell'economia reale: una tendenza ampiamente prevista dai teorici del picco, cui si aggiungono gli effetti della crisi dei subprime. Già, i subprime… Molti analisti ritengono che, ad avere messo il turbo al greggio, sia stato il riversarsi dei capitali in fuga dai mutui facili sul mercato delle commodities, quelle materie prime che fino a poco tempo fa avevano ben poco appeal per gli speculatori. La domanda quindi sorge spontanea: possibile lasciare in balia della finanza d'azzardo una risorsa così importante per l'economia globale? Come si può consentire che alcuni traders giochino alla roulette con il nostro futuro mentre l'economia rallenta a causa degli altissimi prezzi raggiunti dal greggio nella roulette virtuale del Nymex?
Evidentemente non si tratta di luddismo, ambientalismo, terzomondismo o anti-americanismo che dir si voglia, ma di semplice buon senso che può essere condiviso da chi l'economia la fa girare sul serio. Ma per produrre ci vuole il petrolio, il cui prezzo dovrebbe essere determinato dai costi di estrazione, più i profitti delle compagnie che hanno investito e dei mediatori che lo portano sul mercato. Invece il prezzo viene determinato dalla rapidità con cui qualche ragazzetto, che non sa nulla né di petrolio né di economia reale, riesce a piazzare le sue ordinazioni o a liberarsene con un doppio click. La finanza è il convitato di pietra di cui non si parla mai, ma è un pozzo senza fondo capace di ingoiare realtà produttive consistenti in un solo boccone, o di spingere a livelli insostenibili il costo di materie prime fondamentali per la nostra sopravvivenza come il petrolio o - peggio ancora - i generi alimentari. Prima o poi - sull'onda di un nuovo uragano, di un'altra guerra o di un incidente petrolifero - la scarsità sarà così consistente da costringere i governi a fare l'impensabile: sottrarre il petrolio al gioco finanziario per gestirlo come si fa in tempo di guerra. E fra esaurimento dei giacimenti e riscaldamento globale, la crisi che abbiamo di fronte non ha nulla da invidiare a una guerra vera.
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