I predatori di oro nero 5 anni dopo la guerra
di Sabina Morandi
Liberazione del 23/03/2008
Shell, Chevron, Exxon Mobil, il petrolio iracheno fa gola alle company, ma i contratti sono ancora al palo: troppa insicurezza
Sono almeno due anni che la Royal Dutch Shell collabora con il governo di Baghdad nello stilare piani per lo sfruttamento dei giacimenti iracheni vecchi e nuovi. Eppure nessun funzionario della più grande compagnia petrolifera europea ha mai messo piede in Iraq: ci si parla in teleconferenza e ci si vede una volta al mese ad Amman, in Giordania.
La Shell non è la sola a marcare il petrolio iracheno a distanza: dalla BP alla Chevron passando per ExxonMobil, tutte le grandi firme internazionali tenute lontane da Saddam oggi sono fermamente intenzionate a mettere le mani sul premio più ambito, quei giacimenti a lungo sottosfruttati - per via delle sanzioni - che i geologi considerano l'ultima grande riserva planetaria di oro nero. Nessuno può affermare con sicurezza che nel sottosuolo iracheno si trovino davvero più barili di quanti ne possiede l'Arabia Saudita come sostengono i depliant delle compagnie, ma una cosa è certa: su 80 pozzi scoperti solo 27 sono attivi e, con tecnologie più moderne, potrebbero pompare ben più di quei 2 milioni e mezzo di barili al giorno che sono la produzione odierna.
Il problema è che per sfruttare meglio i giacimenti vecchi, mettere in funzione quelli già individuati e scoprirne di nuovi, ci vogliono parecchi milioni di dollari ma nessuno ha intenzione di investire se non vengono risolti due o tre problemi fondamentali: la sicurezza, innanzitutto, ma anche un vuoto normativo che può essere una grande opportunità per gli investitori senza scrupoli, ma che può facilmente trasformarsi in un boomerang. L'attuale situazione di stallo è dovuta al fallimento di una mossa estremamente ardita e un tantino piratesca, che era stata preparata con cura dalla cricca di Bush - in particolare dal vicepresidente Dick Cheney - parecchi mesi prima della guerra. Con l'istituzione del Gruppo di lavoro sul petrolio e l'energia del Dipartimento di Stato, riunitosi almeno quattro volte fra il 2002 e la primavera del 2003, quando cominciò l'attacco, il vicepresidente aveva avuto la brillante idea di far incontrare i capi dell'industria petrolifera e gli oppositori al regime di Saddam candidati alla sua successione, almeno secondo i piani di Washington.
L'idea era di mettere le mani su una delle più importanti riserve del Medio Oriente - regione da cui proviene il 60 per cento del petrolio mondiale - rispolverando quei contratti di stampo coloniale (i Productions sharing agreement o Psa) che davano alle compagnie la proprietà del greggio - una cosa che, a queste latitudini, non si vedeva dai tempi di Mattei. In un periodo in cui la maggior parte dei paesi sta riprendendo il controllo delle proprie risorse naturali (come sta avvenendo in Russia, in Algeria e in Venezuela) e in una regione dove l'industria petrolifera è saldamente in mani statali (come ad esempio in Arabia Saudita) l'occasione era troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire.
Le cose, però, non sono andate come previsto. I primi tentativi di operare questo colpo di mano legislativo sono stati fatti subito dopo l'invasione, mentre il sacco dei musei di Baghdad era ancora in corso. Le prime stesure della nuova legge petrolifera, confezionate direttamente dagli amministratori delegati delle compagnie, cominciarono a circolare mentre si discuteva la nuova costituzione influenzandola pesantemente.
Visto che sottrarre il petrolio al controllo del governo centrale sarebbe stato troppo sporco, l'Autorità provvisoria di Paul Bremer - per conto delle compagnie - cercò di limitare il danno aprendo degli spiragli a livello dei singoli articoli e lasciando il lavoro sporco alla legge petrolifera di là da venire. Nell'articolo 112, per esempio, anche se viene riaffermato che la gestione del petrolio è a carico del governo federale, si sottolinea che questo riguarda soltanto «i giacimenti presenti» lasciando presagire un altro destino per quelli futuri. L'altro grande problema, com'è noto, riguarda l'annoso conflitto fra le zone ricche di petrolio - il Nord curdo e il Sud sciita - e un centro sunnita che di petrolio ne ha poco o niente ma che è stato, bene o male, l'erogatore dei fondi che hanno consentito lo sviluppo delle necessarie infrastrutture. Come dire: potete pure avere il petrolio ma se non c'è uno Stato centrale a costruire oleodotti e strade, ve ne fate ben poco…
Quando, all'inizio del 2007, la nuova legge petrolifera è stata presentata al Parlamento, i sindacati dei lavoratori petroliferi - che hanno continuato a far funzionare i giacimenti in questi anni - avevano già lanciato una mobilitazione nazionale e denunciato, a livello internazionale, lo scandaloso tentativo di imporre i Psa al paese. Malgrado le forze d'occupazione statunitensi siano state molto chiare nell'includere l'approvazione della nuova legge petrolifera fra le pre-condizioni per cominciare un graduale ritiro, e malgrado dall'ultima stesura fosse sparito ogni riferimento agli accordi di suddivisione dei profitti petroliferi, la legge non è stata approvata.
Al contrario, le pressioni hanno irritato ulteriormente il governo centrale già insofferente per la frenesia con cui il governo regionale curdo si è messo a caccia di nuovi contratti.
Anche il governo di Ibril ha utilizzato l'esca dei Psa ma hanno abboccato solo compagnie minori provenienti dalla Norvegia, dalla Turchia (sic!), dall'Austria e dalla Corea del Sud, tutti paesi che avevano accordi commerciali con il governo centrale che ora minaccia ritorsioni. Infine, nella lunga lista dei conflitti che l'assalto al petrolio iracheno può innescare, c'è anche il problema di Kirkuk, città petrolifera che i curdi reclamano anche se la composizione della popolazione è eterogenea. Per risolvere il contenzioso era stato promesso un referendum che però non si è mai tenuto, e come ben sanno gli esperti, non c'è niente come la promessa di un referendum sull'indipendenza per scatenare la pulizia etnica.
di Sabina Morandi
Liberazione del 23/03/2008
Shell, Chevron, Exxon Mobil, il petrolio iracheno fa gola alle company, ma i contratti sono ancora al palo: troppa insicurezza
Sono almeno due anni che la Royal Dutch Shell collabora con il governo di Baghdad nello stilare piani per lo sfruttamento dei giacimenti iracheni vecchi e nuovi. Eppure nessun funzionario della più grande compagnia petrolifera europea ha mai messo piede in Iraq: ci si parla in teleconferenza e ci si vede una volta al mese ad Amman, in Giordania.
La Shell non è la sola a marcare il petrolio iracheno a distanza: dalla BP alla Chevron passando per ExxonMobil, tutte le grandi firme internazionali tenute lontane da Saddam oggi sono fermamente intenzionate a mettere le mani sul premio più ambito, quei giacimenti a lungo sottosfruttati - per via delle sanzioni - che i geologi considerano l'ultima grande riserva planetaria di oro nero. Nessuno può affermare con sicurezza che nel sottosuolo iracheno si trovino davvero più barili di quanti ne possiede l'Arabia Saudita come sostengono i depliant delle compagnie, ma una cosa è certa: su 80 pozzi scoperti solo 27 sono attivi e, con tecnologie più moderne, potrebbero pompare ben più di quei 2 milioni e mezzo di barili al giorno che sono la produzione odierna.
Il problema è che per sfruttare meglio i giacimenti vecchi, mettere in funzione quelli già individuati e scoprirne di nuovi, ci vogliono parecchi milioni di dollari ma nessuno ha intenzione di investire se non vengono risolti due o tre problemi fondamentali: la sicurezza, innanzitutto, ma anche un vuoto normativo che può essere una grande opportunità per gli investitori senza scrupoli, ma che può facilmente trasformarsi in un boomerang. L'attuale situazione di stallo è dovuta al fallimento di una mossa estremamente ardita e un tantino piratesca, che era stata preparata con cura dalla cricca di Bush - in particolare dal vicepresidente Dick Cheney - parecchi mesi prima della guerra. Con l'istituzione del Gruppo di lavoro sul petrolio e l'energia del Dipartimento di Stato, riunitosi almeno quattro volte fra il 2002 e la primavera del 2003, quando cominciò l'attacco, il vicepresidente aveva avuto la brillante idea di far incontrare i capi dell'industria petrolifera e gli oppositori al regime di Saddam candidati alla sua successione, almeno secondo i piani di Washington.
L'idea era di mettere le mani su una delle più importanti riserve del Medio Oriente - regione da cui proviene il 60 per cento del petrolio mondiale - rispolverando quei contratti di stampo coloniale (i Productions sharing agreement o Psa) che davano alle compagnie la proprietà del greggio - una cosa che, a queste latitudini, non si vedeva dai tempi di Mattei. In un periodo in cui la maggior parte dei paesi sta riprendendo il controllo delle proprie risorse naturali (come sta avvenendo in Russia, in Algeria e in Venezuela) e in una regione dove l'industria petrolifera è saldamente in mani statali (come ad esempio in Arabia Saudita) l'occasione era troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire.
Le cose, però, non sono andate come previsto. I primi tentativi di operare questo colpo di mano legislativo sono stati fatti subito dopo l'invasione, mentre il sacco dei musei di Baghdad era ancora in corso. Le prime stesure della nuova legge petrolifera, confezionate direttamente dagli amministratori delegati delle compagnie, cominciarono a circolare mentre si discuteva la nuova costituzione influenzandola pesantemente.
Visto che sottrarre il petrolio al controllo del governo centrale sarebbe stato troppo sporco, l'Autorità provvisoria di Paul Bremer - per conto delle compagnie - cercò di limitare il danno aprendo degli spiragli a livello dei singoli articoli e lasciando il lavoro sporco alla legge petrolifera di là da venire. Nell'articolo 112, per esempio, anche se viene riaffermato che la gestione del petrolio è a carico del governo federale, si sottolinea che questo riguarda soltanto «i giacimenti presenti» lasciando presagire un altro destino per quelli futuri. L'altro grande problema, com'è noto, riguarda l'annoso conflitto fra le zone ricche di petrolio - il Nord curdo e il Sud sciita - e un centro sunnita che di petrolio ne ha poco o niente ma che è stato, bene o male, l'erogatore dei fondi che hanno consentito lo sviluppo delle necessarie infrastrutture. Come dire: potete pure avere il petrolio ma se non c'è uno Stato centrale a costruire oleodotti e strade, ve ne fate ben poco…
Quando, all'inizio del 2007, la nuova legge petrolifera è stata presentata al Parlamento, i sindacati dei lavoratori petroliferi - che hanno continuato a far funzionare i giacimenti in questi anni - avevano già lanciato una mobilitazione nazionale e denunciato, a livello internazionale, lo scandaloso tentativo di imporre i Psa al paese. Malgrado le forze d'occupazione statunitensi siano state molto chiare nell'includere l'approvazione della nuova legge petrolifera fra le pre-condizioni per cominciare un graduale ritiro, e malgrado dall'ultima stesura fosse sparito ogni riferimento agli accordi di suddivisione dei profitti petroliferi, la legge non è stata approvata.
Al contrario, le pressioni hanno irritato ulteriormente il governo centrale già insofferente per la frenesia con cui il governo regionale curdo si è messo a caccia di nuovi contratti.
Anche il governo di Ibril ha utilizzato l'esca dei Psa ma hanno abboccato solo compagnie minori provenienti dalla Norvegia, dalla Turchia (sic!), dall'Austria e dalla Corea del Sud, tutti paesi che avevano accordi commerciali con il governo centrale che ora minaccia ritorsioni. Infine, nella lunga lista dei conflitti che l'assalto al petrolio iracheno può innescare, c'è anche il problema di Kirkuk, città petrolifera che i curdi reclamano anche se la composizione della popolazione è eterogenea. Per risolvere il contenzioso era stato promesso un referendum che però non si è mai tenuto, e come ben sanno gli esperti, non c'è niente come la promessa di un referendum sull'indipendenza per scatenare la pulizia etnica.
Nessun commento:
Posta un commento