03/01/2001 - La Repubblica
Uranio, un altro morto
Militare reduce dalla Bosnia ucciso dalla leucemia: è il sesto
dal nostro inviato ROBERTO BIANCHIN
PAVIA - Sorrideva, il soldato Salvatore, quando i suoi amici l'hanno fotografato a Sarajevo, in divisa, vicino a una mitragliatrice. Era andato in Bosnia due volte, per "guadagnare qualche soldo per la famiglia". Non pensava di tornare malato di leucemia. Il male, un male "particolarmente aggressivo, resistente ad ogni cura", ricorda il medico che l'ha curato, lo ha stroncato in un anno e mezzo. Il nome di Salvatore Carbonaro, 24 anni, siciliano di Floridia, vicino a Siracusa, soldato di leva in forza alla Brigata Garibaldi, morto la notte tra il 5 e il 6 novembre scorso all'ospedale San Matteo di Pavia, si va ad aggiungere alla lista dei militari italiani deceduti al ritorno dalle missioni nell'ex Jugoslavia.
Un elenco di morti sospette per leucemie e tumori contratti dai militari che sono stati nei Balcani, che si allunga ogni giorno che passa: Salvatore è la sesta vittima. La prima, poco più di un anno fa, nel settembre del '99, fu il soldato sardo Salvatore Vacca, colpito anche lui, come gli altri, da una leucemia fulminante. Rinaldo Colombo, carabiniere di Samarate, nei pressi di Varese, tornato anch'egli dalla Bosnia, morì invece, l'8 novembre scorso, per un melanoma. Il sospetto è identico per tutti: che ad uccidere sia stato lo stesso killer spietato e silenzioso, l'uranio "impoverito", che i militari americani (18 mila veterani della guerra contro l'Iraq contaminati dalle loro stesse armi) chiamano "metal of dishonor", il metallo del disonore. Un metallo tossico e radioattivo usato per fare i proiettili e per rinforzare le corazze dei carri armati, degli aerei, degli elicotteri, delle navi e persino dei satelliti. Un nemico invisibile, che nessuno conosceva, da cui nessuno aveva i mezzi per difendersi.
Salvatore, che era sano, che era giovane e forte, ci lavorava accanto a quel nemico mortale. Faceva l'armiere in Bosnia, stava tutto il giorno in compagnia di fucili, mitragliatrici, pallottole e carri, e aveva l'incarico di pulire le armi. Le sgrassava, le lucidava, le teneva in ordine. Quando si ammalò all'improvviso, fu il primo a pensare di aver preso la leucemia per colpa di quelle armi che sparavano i micidiali proiettili all'uranio, o per colpa del benzene che adoperava per lavorare, e lo scrisse nel suo diario. Un atto di accusa lucido, preciso. Aveva anche avviato una causa di servizio per sapere se era stata questa la causa del suo male. Nessuno gli ha mai risposto. Quando si è ammalato l'hanno congedato. Congedato e basta, senza occuparsi più di lui, lasciato solo a lottare con la morte.
Salvatore faceva il militare a Persano, vicino a Salerno, quando nell'98, a soli 22 anni, decise di partire per la Bosnia. Una missione di due mesi, filata via liscia, senza problemi, senza malattie. Era addetto al servizio vettovagliamento. Nel dicembre dello stesso anno decise di tornare a Sarajevo. Gli servivano per aiutare la sua famiglia quei soldini in più che danno ai militari quando vanno all'estero in missione. La sua seconda volta in Bosnia dura tre mesi, fino a febbraio del '99, ma stavolta cambia lavoro: non più viveri ma armi. Viene destinato all'armeria. E' lì, mentre pulisce i cannoni, che si fa fotografare dagli altri soldati. Non pensa certo di correre dei rischi. Ma è lì, probabilmente, che si ammala. Perché tre mesi dopo il suo ritorno in Italia, nel maggio '99, mentre sta continuando il suo servizio militare, sempre a Persano, avverte i primi sintomi del male che lo strapperà alla vita. La diagnosi non lascia scampo: leucemia. Lo congedano senza un grazie.
E qui comincia il suo calvario. All'inizio di maggio viene ricoverato una prima volta all'ospedale di Siracusa, poi a metà del mese, vista la gravità della situazione, si rivolge a un ospedale specializzato, il San Matteo di Pavia, dove per diciotto mesi combatte la sua battaglia contro il male, fino ad arrendersi, la notte fra il 5 e il 6 novembre.
"Me lo ricordo bene quel ragazzo - dice il professor Mario Lazzarino, direttore della divisione Ematologia dell'ospedale San Matteo - ha combattuto fino alla fine, come ha potuto. La sua vicenda ci ha colpito molto, e ci ha toccato tutti". Il medico racconta di una leucemia acuta, particolarmente aggressiva e resistente: "Ci siamo trovati di fronte una malattia piuttosto refrattaria alle cure: abbiamo tentato una chemioterapia intensiva, ma dopo una risposta iniziale positiva, c'è stato un aggravarsi delle condizioni, e quindi una ricaduta fatale". Però è cauto, il professore, sulle cause della leucemia: "Non è possibile stabilire a priori un nesso tra la morte del militare e la sua permanenza in Bosnia".
Non l'hanno aiutato, Salvatore, neanche per i funerali. La notte che morì, suo fratello Mauro, che lo assisteva, fu derubato del portafogli. Dentro c'erano tre milioni e mezzo, quelli per le esequie. Per pagargli il funerale hanno dovuto fare una colletta in ospedale.
Uranio, un altro morto
Militare reduce dalla Bosnia ucciso dalla leucemia: è il sesto
dal nostro inviato ROBERTO BIANCHIN
PAVIA - Sorrideva, il soldato Salvatore, quando i suoi amici l'hanno fotografato a Sarajevo, in divisa, vicino a una mitragliatrice. Era andato in Bosnia due volte, per "guadagnare qualche soldo per la famiglia". Non pensava di tornare malato di leucemia. Il male, un male "particolarmente aggressivo, resistente ad ogni cura", ricorda il medico che l'ha curato, lo ha stroncato in un anno e mezzo. Il nome di Salvatore Carbonaro, 24 anni, siciliano di Floridia, vicino a Siracusa, soldato di leva in forza alla Brigata Garibaldi, morto la notte tra il 5 e il 6 novembre scorso all'ospedale San Matteo di Pavia, si va ad aggiungere alla lista dei militari italiani deceduti al ritorno dalle missioni nell'ex Jugoslavia.
Un elenco di morti sospette per leucemie e tumori contratti dai militari che sono stati nei Balcani, che si allunga ogni giorno che passa: Salvatore è la sesta vittima. La prima, poco più di un anno fa, nel settembre del '99, fu il soldato sardo Salvatore Vacca, colpito anche lui, come gli altri, da una leucemia fulminante. Rinaldo Colombo, carabiniere di Samarate, nei pressi di Varese, tornato anch'egli dalla Bosnia, morì invece, l'8 novembre scorso, per un melanoma. Il sospetto è identico per tutti: che ad uccidere sia stato lo stesso killer spietato e silenzioso, l'uranio "impoverito", che i militari americani (18 mila veterani della guerra contro l'Iraq contaminati dalle loro stesse armi) chiamano "metal of dishonor", il metallo del disonore. Un metallo tossico e radioattivo usato per fare i proiettili e per rinforzare le corazze dei carri armati, degli aerei, degli elicotteri, delle navi e persino dei satelliti. Un nemico invisibile, che nessuno conosceva, da cui nessuno aveva i mezzi per difendersi.
Salvatore, che era sano, che era giovane e forte, ci lavorava accanto a quel nemico mortale. Faceva l'armiere in Bosnia, stava tutto il giorno in compagnia di fucili, mitragliatrici, pallottole e carri, e aveva l'incarico di pulire le armi. Le sgrassava, le lucidava, le teneva in ordine. Quando si ammalò all'improvviso, fu il primo a pensare di aver preso la leucemia per colpa di quelle armi che sparavano i micidiali proiettili all'uranio, o per colpa del benzene che adoperava per lavorare, e lo scrisse nel suo diario. Un atto di accusa lucido, preciso. Aveva anche avviato una causa di servizio per sapere se era stata questa la causa del suo male. Nessuno gli ha mai risposto. Quando si è ammalato l'hanno congedato. Congedato e basta, senza occuparsi più di lui, lasciato solo a lottare con la morte.
Salvatore faceva il militare a Persano, vicino a Salerno, quando nell'98, a soli 22 anni, decise di partire per la Bosnia. Una missione di due mesi, filata via liscia, senza problemi, senza malattie. Era addetto al servizio vettovagliamento. Nel dicembre dello stesso anno decise di tornare a Sarajevo. Gli servivano per aiutare la sua famiglia quei soldini in più che danno ai militari quando vanno all'estero in missione. La sua seconda volta in Bosnia dura tre mesi, fino a febbraio del '99, ma stavolta cambia lavoro: non più viveri ma armi. Viene destinato all'armeria. E' lì, mentre pulisce i cannoni, che si fa fotografare dagli altri soldati. Non pensa certo di correre dei rischi. Ma è lì, probabilmente, che si ammala. Perché tre mesi dopo il suo ritorno in Italia, nel maggio '99, mentre sta continuando il suo servizio militare, sempre a Persano, avverte i primi sintomi del male che lo strapperà alla vita. La diagnosi non lascia scampo: leucemia. Lo congedano senza un grazie.
E qui comincia il suo calvario. All'inizio di maggio viene ricoverato una prima volta all'ospedale di Siracusa, poi a metà del mese, vista la gravità della situazione, si rivolge a un ospedale specializzato, il San Matteo di Pavia, dove per diciotto mesi combatte la sua battaglia contro il male, fino ad arrendersi, la notte fra il 5 e il 6 novembre.
"Me lo ricordo bene quel ragazzo - dice il professor Mario Lazzarino, direttore della divisione Ematologia dell'ospedale San Matteo - ha combattuto fino alla fine, come ha potuto. La sua vicenda ci ha colpito molto, e ci ha toccato tutti". Il medico racconta di una leucemia acuta, particolarmente aggressiva e resistente: "Ci siamo trovati di fronte una malattia piuttosto refrattaria alle cure: abbiamo tentato una chemioterapia intensiva, ma dopo una risposta iniziale positiva, c'è stato un aggravarsi delle condizioni, e quindi una ricaduta fatale". Però è cauto, il professore, sulle cause della leucemia: "Non è possibile stabilire a priori un nesso tra la morte del militare e la sua permanenza in Bosnia".
Non l'hanno aiutato, Salvatore, neanche per i funerali. La notte che morì, suo fratello Mauro, che lo assisteva, fu derubato del portafogli. Dentro c'erano tre milioni e mezzo, quelli per le esequie. Per pagargli il funerale hanno dovuto fare una colletta in ospedale.
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