lunedì 18 febbraio 2008

Il fantasma dell’elettrochoc

l’Unità 18.2.08
Il fantasma dell’elettrochoc
di Clara Sereni

La richiesta di alcuni psichiatri italiani di «sdoganare» l’elettrochoc non stupisce più che tanto: è da tempo che una parte della classe medica chiede le venga riconsegnata carta bianca nel campo della malattia mentale, accompagnata su questa strada da una parte - peraltro fortemente minoritaria - delle associazioni di famigliari.
Non c’è da stupirsi, e alcune voci che si levano scandalizzate somigliano più al bisogno di salvarsi l’anima che non ad una reale volontà di affrontare i temi scottanti che una riflessione davvero seria sulla malattia mentale porta con sé. Perché da anni ormai il nodo della salute mentale è scivolato via dal tavolo della memoria storica, della politica con la «p» maiuscola, delle istituzioni, insomma delle collettività, per essere riconsegnato alla sofferenza delle famiglie da un lato, e dall’altro alla scienza medica, mai così poco esatta come in questo settore. Esistono tante e tante esperienze che, su e giù per l’Italia, dicono che è possibile per le persone con sofferenza mentale e psichica avere una vita degna di essere vissuta. Ma queste esperienze, e coloro che a vario titolo ne partecipano, hanno scarsissima visibilità, non hanno voce, restano dentro un circuito chiuso, ad esempio di convegni a cui assessori e ministri si affacciano generalmente per lo spazio di un saluto.
Con l’eccezione luminosa e competente di Romano Prodi, che all’epoca della Fabbrica del programma dedicò un’intera giornata all’ascolto di richieste ed esperienze, scegliendo la salute mentale come paradigma non solo del funzionamento della sanità, ma del benessere delle comunità nel loro insieme. Grandi speranze si accesero allora, ma poi tutto o quasi è caduto di nuovo nella distrazione e nella smemoratezza, restituendo medici e famiglie alle loro solitudini.
Di salute mentale ho scritto talvolta sulle colonne di questo giornale, tentando di rinverdire la memoria storica delle lotte collettive che, nel 1978 (nei giorni tremendi del rapimento Moro e dei governi di solidarietà nazionale, non dimentichiamolo), portarono alla promulgazione della legge 180. Con più forza sento il dovere di farlo oggi, di fronte a questo oscuramento anche del buon senso.
Vedete, io non sono medico, e dell’elettrochoc so più o meno quello che sanno tutti: la violenza, solo apparentemente mitigata da nuove anestesie; la distruttività, irreparabile; l’utilità molto molto discutibile. E non mi si venga a dire che anche Basaglia lo praticò, in una certa occasione: lo fece per ragioni squisitamente politiche e difensive, e chi abbia voglia di leggere i suoi scritti può controllarlo agevolmente. Dunque non posso mettere in campo competenze scientifiche. Ma un’esperienza sì: quella di una madre con figlio gravemente schizofrenico, e soprattutto l’esperienza di una Fondazione, «La città del sole», che da dieci anni costruisce progetti di vita per persone con disabilità psichiche e mentali. Progetti attraverso i quali ho visto svilupparsi abilità e competenze, in particolare quella a vivere una vita degna: fatta anche di sofferenza e di malattia, come la vita di tutti, ma non solo di sofferenza e di malattia. Una vita fatta di un’abitare normale, di un lavoro normale, di rapporti amicali, di occasioni normali di tempo libero, tutti contesti resi più forti e coesi da un lavoro faticoso e accurato di integrazione. Senza dimenticare mai che l’integrazione fa bene non solo ai fragili e ai diversi, ma a tutti: perché ciascuno di noi, per quanto possa nasconderlo anche a se stesso, ha un proprio lato fragile, diverso, sofferente, e non è tagliandolo via, amputandosi, che si può stare meglio.
Comunque lo si guardi, l’elettrochoc è un’amputazione. Quando si tratta di chirurgia, tagliar via una parte anche piccolissima del corpo (un dente, un’unghia) è una extrema ratio: accade quando si sono provate tutte ma proprio tutte le vie, e nessuna è risultata praticabile. Altro è quando si asportano escrescenze pericolose, corpi estranei: un cancro, una pallottola.
I matti non sono un cancro, e neanche una pallottola. Non sono corpi estranei. Sono persone che ci somigliano. E per questo ci fanno tanta paura. Solo dopo aver provato tutte, ma proprio tutte le strade di cura e di integrazione, forse si potrebbe arrivare a pensare di tagliar loro via una parte (operazione "chirurgica", nella fattispecie, quanto "chirurgici" sanno essere i bombardamenti). Non prima. Non in un prima fatto di risorse scarse, di formazione insufficiente e spesso vecchia degli operatori, e in primis degli psichiatri. Non in un prima fatto di disattenzione collettiva, e di un insicurezza che trova nella repressione di ogni differenza un rimedio perentorio quanto fallace.
C’è un filo nero che lega l’antisemitismo delle liste dei docenti ebrei alle donne-streghe braccate in corsia, al razzismo, alle violenze sui disabili immortalate in you-tube, e arriva fino allo sdoganamento della pratica medievale dell’elettrochoc. Tagliar via questo filo, interromperlo, impedire che si rafforzi e diventi un nodo scorsoio per la società, è questione che riguarda tutti, e non solo chi quel filo nero se lo ritrova avviluppato intorno.

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