I costi del global warming (e chi è pronto a pagarli)
Il Riformista del 27 febbraio 2007, pag. 3
di Fiorella Kostoris
In queste settimane si sono moltiplicati i segnali di un risveglio planetario della consapevolezza dei danni climatici provocati dall'attività umana. Ne sono testimoni non tanto il recente Rapporto Onu dell'International Panel for Climatic Change (Ipcc), che rinnova e rafforza il passato grido di allarme, quanto soprattutto il dibattito che investe Paesi finora insensibili, dalla Cina, dove 20 giorni fa il governo ha annunciato di essere in procinto di pubblicare il suo primo piano nazionale contro il global warming, agli Stati Uniti, dove l'amministrazione Bush finalmente ha mostrato alcune aperture circa la necessità di ridurre i consumi petroliferi e l'effetto serra, grazie anche all'apprezzamento generale riscontrato dal film del democratico Al Gore, che proprio ieri ha ricevuto l'Oscar del miglior documentario dell'anno. In Europa, il 20 febbraio, i 27 ministri dell'Ambiente hanno raggiunto l'accordo unanime di andare "oltre Kyoto", impegnandosi unilateralmente ad abbattere del 20% le emissioni di gas serra rispetto al 1990 e indicando il proposito di rivedere a breve gli schemi di distribuzione tra Paesi dei permessi di inquinamento vendibili sul mercato: nell'Unione, le necessità sono differenziate fra i partner centro-orientali, con forti bisogni e possibilità di crescita, e quelli occidentali più maturi, nonché fra quelli, come la Francia, che conta per l'80% sull'energia nucleare e quelli come la Polonia, che dipende quasi interamente dal carbone per generare elettricità. Nel suo programma di tagli del 20% nel fabbisogno energetico, l'Italia ha coinvolto un manager quale Pasquale Pistorio, che rappresenta la prova di quanto siano convenienti alle stesse aziende investimenti in processi e tecnologie, volti ad ottenere risparmi energetici e conseguentemente eco-profitti. Una filosofia, questa, ben lontana da quell'antìconsumismo a cui parevano ispirarsi alcuni dei primi ecologisti. Attualmente nelle stesse multinazionali della finanza, da Goldman Sachs a Barclays Capital, sono numerose le analisi che esprimono la necessità di incrementare la potenza energetica, contraendo però la dipendenza dagli idrocarburi attraverso innovazioni e progresso tecnico. John Llewellyn di Lehman Brothers ha appena concluso un rapporto in cui scrive che «in un mondo tendente a mutare per ragioni climatiche, prospereranno quelle imprese che per prime ne coglieranno l'importanza e l'ineluttabilità, quelle che sapranno prevedere almeno alcune delle implicazioni, quelle che saranno capaci di assumere in anticipo rispetto alle concorrenti decisioni appropriate». Così, per aumentare i propri profitti, le imprese leader diverrebbero, più ancora dei governi, interessate a risolvere i problemi ambientali. Ma il mutato orientamento dei responsabili della politica economica e dei maggiori produttori nei mercati non sarebbe sufficiente ad imprimere una decisa svolta nelle azioni a difesa dell'ambiente, se le persone stesse, i consumatoli, i lavoratori non fossero anch'essi pronti a cambiare. Come ha puntualizzato il presidente Napolitano, di fronte al global warming , «è necessaria... una triplice rivoluzione delle coscienze, dell'economia e dell'azione politica».
Tutti e tre questi agenti, le famiglie, le imprese, i policy-makers, stanno mutando orientamento per due ordini di motivi. Per un verso, è ormai diffusa la consapevolezza che il cambiamento climatico globale in questi anni è in fase di progressiva accelerazione, perché, come ha spiegato Pecoraro Scanio, le ondate di calore, le precipitazioni intense e alluvionali delle medie e alte latitudini insieme ai prolungati periodi di siccità nelle medie e basse latitudini diverranno sempre più frequenti; nel 2100 il livello del mare salirà fra i 28 e i 43 cm, ma se si innescheranno possibili fenomeni non lineari destabilizzanti, addirittura si innalzerà successivamente di 7 metri, con il collassamento dei ghiacciai della Groenlandia e della penisola Antartica, e con la scomparsa estiva della calotta polare Artica. Per un altro verso, la preferenza temporale degli individui, come delle imprese e degli Stati, non è infinita e non è immutabile, bensì reagisce a queste informazioni ambientali.
In generale, tre aspetti rilevanti della preferenza temporale aiutano a comprendere l'atteggiamento oggi cangiante dell'opinione pubblica circa le conseguenze drammatiche del riscaldamento globale.
(I) La preferenza temporale chiarisce perché i fenomeni che si appaleseranno fra molti anni contino poco. Ad esempio, se la preferenza temporale è mediamente del 20% nell'arco della vita di un individuo, ovvero egli è indifferente tra 100 euro correnti e 120 differiti di un anno, una qualunque, anche grandissima, perdita - poniamo di 120.000 euro - che si verificasse tra 100 anni, gli apparirebbe oggi di entità quasi nulla, non solo perché il valore attuale va scontato per ben un secolo, ma anche perché il saggio di preferenza temporale da usare per tale sconto sale enormemente (ben al di là del 20%), in relazione ad eventi che accadono post mortem: se il tasso divenisse 1000 volte più forte di quello adottato mediamente nel corso della vita, oggi il valore di quella perdita si aggirerebbe sui 5 euro. Da questo punto di vista, molte cose cambiano in presenza di una probabile accelerazione dei fenomeni climatici, la quale induce a ritenere che gli effetti devastanti sono potenzialmente più vicini di quanto finora non pensassimo e non riguardano più solo i nostri eredi.
(II) A causa delle non linearità dei fenomeni climatici, inoltre, il danno possibile rischia di rivelarsi molto maggiore di quello finora stimato: se la perdita fosse, anziché di 120.000 euro, di un valore 10 miliardi di volte superiore sempre tra 100 anni, pur con una preferenza temporale innalzata dal fatto che il caso si presenterà quando tutta la generazione vivente sarà scomparsa, oggi essa si valuterebbe attualmente a circa 50 miliardi di euro, dunque più di qualunque Finanziaria realizzata in Italia negli ultimi 15 anni. In aggiunta, quanto maggiore è il malessere atteso futuro, tanto più si è portati facilmente a rinunciare a qualcosa di presente per attenuarlo, tanto più si abbassa la preferenza temporale, il che comporta che il futuro vada scontato ad un tasso minore di quello pesante testé utilizzato.
(III) Infine, quanto superiore è il livello del benessere attuale, tanto meno è costosa ogni rinuncia corrente. Nei Paesi dove si muore di fame, la priorità è sopravvivere hic et rame e il tasso di preferenza temporale è quasi infinito. Nazioni che crescono in fretta, come la Cina, tendono a porsi problemi ambientali che prima apparivano come lussi inarrivabili. Sotto questi aspetti, è normale che l'Europa sia un leader nel mondo. Anormalmente miope, invece, è l'amministrazione Bush, come dimostra il fatto che l'America del suo predecessore Clinton aveva sottoscritto il Protocollo di Kyoto, venendo poi sconfessata dal neo-presidente repubblicano.
Il Riformista del 27 febbraio 2007, pag. 3
di Fiorella Kostoris
In queste settimane si sono moltiplicati i segnali di un risveglio planetario della consapevolezza dei danni climatici provocati dall'attività umana. Ne sono testimoni non tanto il recente Rapporto Onu dell'International Panel for Climatic Change (Ipcc), che rinnova e rafforza il passato grido di allarme, quanto soprattutto il dibattito che investe Paesi finora insensibili, dalla Cina, dove 20 giorni fa il governo ha annunciato di essere in procinto di pubblicare il suo primo piano nazionale contro il global warming, agli Stati Uniti, dove l'amministrazione Bush finalmente ha mostrato alcune aperture circa la necessità di ridurre i consumi petroliferi e l'effetto serra, grazie anche all'apprezzamento generale riscontrato dal film del democratico Al Gore, che proprio ieri ha ricevuto l'Oscar del miglior documentario dell'anno. In Europa, il 20 febbraio, i 27 ministri dell'Ambiente hanno raggiunto l'accordo unanime di andare "oltre Kyoto", impegnandosi unilateralmente ad abbattere del 20% le emissioni di gas serra rispetto al 1990 e indicando il proposito di rivedere a breve gli schemi di distribuzione tra Paesi dei permessi di inquinamento vendibili sul mercato: nell'Unione, le necessità sono differenziate fra i partner centro-orientali, con forti bisogni e possibilità di crescita, e quelli occidentali più maturi, nonché fra quelli, come la Francia, che conta per l'80% sull'energia nucleare e quelli come la Polonia, che dipende quasi interamente dal carbone per generare elettricità. Nel suo programma di tagli del 20% nel fabbisogno energetico, l'Italia ha coinvolto un manager quale Pasquale Pistorio, che rappresenta la prova di quanto siano convenienti alle stesse aziende investimenti in processi e tecnologie, volti ad ottenere risparmi energetici e conseguentemente eco-profitti. Una filosofia, questa, ben lontana da quell'antìconsumismo a cui parevano ispirarsi alcuni dei primi ecologisti. Attualmente nelle stesse multinazionali della finanza, da Goldman Sachs a Barclays Capital, sono numerose le analisi che esprimono la necessità di incrementare la potenza energetica, contraendo però la dipendenza dagli idrocarburi attraverso innovazioni e progresso tecnico. John Llewellyn di Lehman Brothers ha appena concluso un rapporto in cui scrive che «in un mondo tendente a mutare per ragioni climatiche, prospereranno quelle imprese che per prime ne coglieranno l'importanza e l'ineluttabilità, quelle che sapranno prevedere almeno alcune delle implicazioni, quelle che saranno capaci di assumere in anticipo rispetto alle concorrenti decisioni appropriate». Così, per aumentare i propri profitti, le imprese leader diverrebbero, più ancora dei governi, interessate a risolvere i problemi ambientali. Ma il mutato orientamento dei responsabili della politica economica e dei maggiori produttori nei mercati non sarebbe sufficiente ad imprimere una decisa svolta nelle azioni a difesa dell'ambiente, se le persone stesse, i consumatoli, i lavoratori non fossero anch'essi pronti a cambiare. Come ha puntualizzato il presidente Napolitano, di fronte al global warming , «è necessaria... una triplice rivoluzione delle coscienze, dell'economia e dell'azione politica».
Tutti e tre questi agenti, le famiglie, le imprese, i policy-makers, stanno mutando orientamento per due ordini di motivi. Per un verso, è ormai diffusa la consapevolezza che il cambiamento climatico globale in questi anni è in fase di progressiva accelerazione, perché, come ha spiegato Pecoraro Scanio, le ondate di calore, le precipitazioni intense e alluvionali delle medie e alte latitudini insieme ai prolungati periodi di siccità nelle medie e basse latitudini diverranno sempre più frequenti; nel 2100 il livello del mare salirà fra i 28 e i 43 cm, ma se si innescheranno possibili fenomeni non lineari destabilizzanti, addirittura si innalzerà successivamente di 7 metri, con il collassamento dei ghiacciai della Groenlandia e della penisola Antartica, e con la scomparsa estiva della calotta polare Artica. Per un altro verso, la preferenza temporale degli individui, come delle imprese e degli Stati, non è infinita e non è immutabile, bensì reagisce a queste informazioni ambientali.
In generale, tre aspetti rilevanti della preferenza temporale aiutano a comprendere l'atteggiamento oggi cangiante dell'opinione pubblica circa le conseguenze drammatiche del riscaldamento globale.
(I) La preferenza temporale chiarisce perché i fenomeni che si appaleseranno fra molti anni contino poco. Ad esempio, se la preferenza temporale è mediamente del 20% nell'arco della vita di un individuo, ovvero egli è indifferente tra 100 euro correnti e 120 differiti di un anno, una qualunque, anche grandissima, perdita - poniamo di 120.000 euro - che si verificasse tra 100 anni, gli apparirebbe oggi di entità quasi nulla, non solo perché il valore attuale va scontato per ben un secolo, ma anche perché il saggio di preferenza temporale da usare per tale sconto sale enormemente (ben al di là del 20%), in relazione ad eventi che accadono post mortem: se il tasso divenisse 1000 volte più forte di quello adottato mediamente nel corso della vita, oggi il valore di quella perdita si aggirerebbe sui 5 euro. Da questo punto di vista, molte cose cambiano in presenza di una probabile accelerazione dei fenomeni climatici, la quale induce a ritenere che gli effetti devastanti sono potenzialmente più vicini di quanto finora non pensassimo e non riguardano più solo i nostri eredi.
(II) A causa delle non linearità dei fenomeni climatici, inoltre, il danno possibile rischia di rivelarsi molto maggiore di quello finora stimato: se la perdita fosse, anziché di 120.000 euro, di un valore 10 miliardi di volte superiore sempre tra 100 anni, pur con una preferenza temporale innalzata dal fatto che il caso si presenterà quando tutta la generazione vivente sarà scomparsa, oggi essa si valuterebbe attualmente a circa 50 miliardi di euro, dunque più di qualunque Finanziaria realizzata in Italia negli ultimi 15 anni. In aggiunta, quanto maggiore è il malessere atteso futuro, tanto più si è portati facilmente a rinunciare a qualcosa di presente per attenuarlo, tanto più si abbassa la preferenza temporale, il che comporta che il futuro vada scontato ad un tasso minore di quello pesante testé utilizzato.
(III) Infine, quanto superiore è il livello del benessere attuale, tanto meno è costosa ogni rinuncia corrente. Nei Paesi dove si muore di fame, la priorità è sopravvivere hic et rame e il tasso di preferenza temporale è quasi infinito. Nazioni che crescono in fretta, come la Cina, tendono a porsi problemi ambientali che prima apparivano come lussi inarrivabili. Sotto questi aspetti, è normale che l'Europa sia un leader nel mondo. Anormalmente miope, invece, è l'amministrazione Bush, come dimostra il fatto che l'America del suo predecessore Clinton aveva sottoscritto il Protocollo di Kyoto, venendo poi sconfessata dal neo-presidente repubblicano.
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