domenica 23 dicembre 2007

La povertà globalizzata

La povertà globalizzata

La Repubblica del 22 marzo 2007, pag. 25

di Ulrich Beck

Alla fine, anche nella società della piena occupazione degli inizi del XXI secolo in Europa si accende il dibattito sulla povertà senza vie d'uscita. Esso viene condotto con grande passio­ne ma, sorprendentemente, tutti i partecipanti, a qualsiasi fronte appartengano, hanno un identico paraocchi. Tutti, con colpevole sicurezza, danno per scontato che la povertà sempre più diffusa e sem­pre più dura sia un problema nazionale, che deve essere discusso, affrontato e su­perato a livello nazionale. Gli italiani di­scutono di una povertà italiana, i tede­schi di una povertà tedesca, gli spagnoli di una povertà spagnola, ecc. E in tutte le sfere pubbliche nazionali tutti, neolibe­risti radicali, socialdemocratici di vec­chio o nuovo stampo, conservatori, co­munisti, sindacalisti e naturalmente an­che le organizzazioni dei disoccupati, considerano assolutamente ovvio, con irremovibile certezza, che i sempre più gravi fenomeni di povertà vadano intesi come problemi nazionali che esigono soluzioni esclusivamente nazionali.



Ma questo paraocchi narcisistico e questa politica narcisistica non diventa­no migliori o più giusti per il fatto di co­stituire un incompreso denominatore comune. Per capire il problema della povertà nel XXI secolo e per cercare rispo­ste politiche abbiamo invece bisogno di uno sguardo cosmopolita, che superi le rigidità del "nazionalismo metodologi­co" della società, della politica e della scienza. L'economia dell'insicurezza ri­voluziona le condizioni di lavoro e di vi­ta in tutte le società occidentali evolute. Detto in malo modo, viviamo una brasilianizzazione delle società del benesse­re: le forme variopinte e fragili di occu­pazione, che sono la normalità nel co­siddetto Terzo mondo, sostituiscono sempre più il lavoro sicuro anche nei paesi del centro. Lo si può anche cele­brare come "flessibilità", ma tutto ciò si­gnifica: "Renditi più facilmente licenziabile e adattati all’idea che nessuno ti pos­sa dire se in futuro la tua qualifica sarà ancora richiesta".



Il nesso stretto tra povertà e dispera­zione, che ora anche in Europa vogliamo giustamente denunciare e combattere, è di tipo "nuovo" perché nella cultura ca­pitalistica, fissata sul lavoro, a fronte dei poderosi progressi nella produttività questi soggetti scartati - è amaro dirlo - non vengono più "usati". È possibile massimizzare i profitti anche senza di lo­ro, vincere le elezioni anche senza di lo­ro. E la loro posizione nella società non corrisponde più a quella di un "ceto" o di una "classe", perché non hanno più una collocazione determinata nel processo produttivo. Questo però non significa che stanno meglio: vuoi dire, al contra­rio, che stanno peggio. E lo shock che colpisce molte persone è legato alla consapevolezza, anch'essa amara, che questa povertà è la conseguenza di tutti i tenta­tivi di vincerla. La disperazione è l'altra faccia dell'utopia perduta.



Il welfare state nazionale, che tenta da solo di venire a capo della sua povertà "nazionale", assomiglia all'ubriaco che in una notte buia cerca il portafoglio per­duto sotto il cono di luce di un lampione. Alla domanda: "Ha perduto proprio qui il portafoglio?" risponde: "No, ma alla luce del lampione posso almeno cercar­lo!".



Ma dove ha perduto il suo "portafo­glio" lo stato nazionale? È del tutto sba­gliato continuare a ritenere (come fanno tutti) che esista ancora la costellazione in base alla quale i sindacati nazionali, il capitale nazionale e il welfare nazionale si battono per l'incremento dell'econo­mia nazionale e per la ripartizione del prodotto interno lordò. Cosi si discono­scono il nuovo gioco di potere e il nuovo gap di potere tra attori politici fissati a un territorio (governi, parlamenti, sindaca­ti, lavoratori) e attori dell'economia mondiale, non legati a un territorio (ca­pitale mobile, flussi finanziari). Non so­no necessari gli appelli alla morale e al patriottismo dei manager. Piuttosto, c'è esigenza di idee su come la politica sta­tale in tempi di globalizzazione possa essere fatta uscire dalla difensiva e riani­mata a partire dalla questione della giu­stizia, che è diventata il nucleo della que­stione politica.



Per trovare una via d'uscita dal vicolo cieco nazional-statale è importante convincersi che si possono, sì, utilizzare gli spazi d'azione rimasti, ma ormai non c'è più nessuna soluzione nazionale per i problemi nazionali. Per questo i gover­ni sono attraenti solo fintanto che non vengono eletti. Anche chi vuole combat­tere efficacemente la povertà non può fare a meno di distinguere tra autonomia e sovranità. La rinuncia all'autonomia, ossia la cooperazione con altri stati, è la chiave del rafforzamento della sovranità nazional-statale di fronte al capitale mo­bile. Qui sta il compito fondamentale di un'Unione Europea rinnovata, poiché questo non lo può fare nessuno stato na­zionale da solo. La risposta alla globalizzazione consiste in un migliore coordinamento internazionale della politica, in più forti controlli sopranazionali del­le banche e delle istituzioni finanziarie, nello smantellamento del dumping fi­scale tra gli stati, nell'accordo sui salari minimi e quindi, infine, anche nella ri­conquista della sicurezza sociale come base di una democrazia vitale.



Sorge allora l’obiezione. Gli interventi (burocraticamente arroganti) della politica sovraordinata nel processo economico non finirebbero per impedire le possibilità di successo di fronte a grandi concorrenti come la Cina e l'India e per favorire il diffondersi nella popolazione di una mentalità improntata a un socia­lismo secondario? No. Ciò di cui abbia­mo bisogno sono idee pratiche per un'u-manizzazione del processo di globaliz­zazione, concezioni per un'economia di mercato internazionale, social-ecologi­ca. Questo significa molto; per esempio, che l'Unione Europea (i singoli Stati non ne sono in grado) negozia accordi di coo­perazione con la Cina vantaggiosi per entrambe le parti, come quelli sulle tec­nologie e le regioni che non emettono anidride carbonica e sui rispettivi mer­cati. Un altro " dogma non pronunciato" (Peter Glotz) accettato da tutti i parteci­panti al dibattito sulla povertà recita: " La piena occupazione è possibile!". Ad esso si aggiunge la convinzione, non meno tacitamente condivisa, secondo cui la disoccupazione è un fallimento - della politica, dell'economia, della società. Anche questo è falso. La disoccupazione dì massa e la povertà non sono un segno della sconfitta, ma della vittoria delle so­cietà del lavoro moderne, poiché il lavo­ro diventa sempre più produttivo e c'è sempre meno bisogno di lavoro umano per ottenere una quantità sempre mag­giore di risultati. La povertà senza vie d'uscita è il rovescio della medaglia del­la filosofia della piena occupazione, che storicamente ha perduto da un pezzo la sua credibilità. Ammettiamo che i governi europei riescano a fare tutto ciò che si sono proposti e che realizzino anche ciò che auspicano i consiglieri neoliberisti: cosa succederebbe, se gli ex welfare states dell'Europa non riuscissero comun­que a uscire dalla disoccupazione di massa e dalla povertà? L'utopia della so­cietà del lavorò era stata quella di liberare dal giogo del lavoro. Ora siamo giunti proprio a questo punto. Dobbiamo fi­nalmente porre all'ordine del giorno queste questioni: Come si può condurre una vita sensata anche se non sì trova un lavoro?Come saranno possibili la democrazia e la libertà al di là della piena oc­cupazione? Come potranno le persone diventare cittadini consapevoli, senza un lavoro retribuito?



Abbiamo bisogno di un reddito di cit­tadinanza pari a circa 700 euro. Non è una provocazione, ma un'esigenza poli­tica realistica. È interessante notare che questa idea circola da tempo e viene so­stenuta sulla base di posizioni contra­stanti. L'economista e premio Nobel americano Milton Friedman proponeva già nel 1962 che chi si trovava al di sotto di una determinata soglia di reddito ri­cevesse dallo stato un contributo fisso.


Naturalmente, si pone la domanda: Chi deve pagare? Alcuni economisti hanno calcolato che in fin dei conti que­sta soluzione potrebbe essere addirittu­ra la meno costosa. Infatti, dove un reddito-base garantisce uno standard di vi­ta, non c'è bisogno né di assistenza so­ciale, né di sussidi di disoccupazione, né di un sistema pensionistico o di assegni familiari - e nemmeno degli innumere­voli altri sostegni e sovvenzioni che oggi vengono distribuiti a pioggia. Perfino i genitori potrebbero soddisfare più facil­mente il loro desiderio di avere figli, ecc. ecc. E allora: Mai più piena occupazione - abbiamo di meglio da fare!

NOTE

Traduzione di Carlo Sandrelli

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