La povertà globalizzata
La Repubblica del 22 marzo 2007, pag. 25
di Ulrich Beck
Alla fine, anche nella società della piena occupazione degli inizi del XXI secolo in Europa si accende il dibattito sulla povertà senza vie d'uscita. Esso viene condotto con grande passione ma, sorprendentemente, tutti i partecipanti, a qualsiasi fronte appartengano, hanno un identico paraocchi. Tutti, con colpevole sicurezza, danno per scontato che la povertà sempre più diffusa e sempre più dura sia un problema nazionale, che deve essere discusso, affrontato e superato a livello nazionale. Gli italiani discutono di una povertà italiana, i tedeschi di una povertà tedesca, gli spagnoli di una povertà spagnola, ecc. E in tutte le sfere pubbliche nazionali tutti, neoliberisti radicali, socialdemocratici di vecchio o nuovo stampo, conservatori, comunisti, sindacalisti e naturalmente anche le organizzazioni dei disoccupati, considerano assolutamente ovvio, con irremovibile certezza, che i sempre più gravi fenomeni di povertà vadano intesi come problemi nazionali che esigono soluzioni esclusivamente nazionali.
Ma questo paraocchi narcisistico e questa politica narcisistica non diventano migliori o più giusti per il fatto di costituire un incompreso denominatore comune. Per capire il problema della povertà nel XXI secolo e per cercare risposte politiche abbiamo invece bisogno di uno sguardo cosmopolita, che superi le rigidità del "nazionalismo metodologico" della società, della politica e della scienza. L'economia dell'insicurezza rivoluziona le condizioni di lavoro e di vita in tutte le società occidentali evolute. Detto in malo modo, viviamo una brasilianizzazione delle società del benessere: le forme variopinte e fragili di occupazione, che sono la normalità nel cosiddetto Terzo mondo, sostituiscono sempre più il lavoro sicuro anche nei paesi del centro. Lo si può anche celebrare come "flessibilità", ma tutto ciò significa: "Renditi più facilmente licenziabile e adattati all’idea che nessuno ti possa dire se in futuro la tua qualifica sarà ancora richiesta".
Il nesso stretto tra povertà e disperazione, che ora anche in Europa vogliamo giustamente denunciare e combattere, è di tipo "nuovo" perché nella cultura capitalistica, fissata sul lavoro, a fronte dei poderosi progressi nella produttività questi soggetti scartati - è amaro dirlo - non vengono più "usati". È possibile massimizzare i profitti anche senza di loro, vincere le elezioni anche senza di loro. E la loro posizione nella società non corrisponde più a quella di un "ceto" o di una "classe", perché non hanno più una collocazione determinata nel processo produttivo. Questo però non significa che stanno meglio: vuoi dire, al contrario, che stanno peggio. E lo shock che colpisce molte persone è legato alla consapevolezza, anch'essa amara, che questa povertà è la conseguenza di tutti i tentativi di vincerla. La disperazione è l'altra faccia dell'utopia perduta.
Il welfare state nazionale, che tenta da solo di venire a capo della sua povertà "nazionale", assomiglia all'ubriaco che in una notte buia cerca il portafoglio perduto sotto il cono di luce di un lampione. Alla domanda: "Ha perduto proprio qui il portafoglio?" risponde: "No, ma alla luce del lampione posso almeno cercarlo!".
Ma dove ha perduto il suo "portafoglio" lo stato nazionale? È del tutto sbagliato continuare a ritenere (come fanno tutti) che esista ancora la costellazione in base alla quale i sindacati nazionali, il capitale nazionale e il welfare nazionale si battono per l'incremento dell'economia nazionale e per la ripartizione del prodotto interno lordò. Cosi si disconoscono il nuovo gioco di potere e il nuovo gap di potere tra attori politici fissati a un territorio (governi, parlamenti, sindacati, lavoratori) e attori dell'economia mondiale, non legati a un territorio (capitale mobile, flussi finanziari). Non sono necessari gli appelli alla morale e al patriottismo dei manager. Piuttosto, c'è esigenza di idee su come la politica statale in tempi di globalizzazione possa essere fatta uscire dalla difensiva e rianimata a partire dalla questione della giustizia, che è diventata il nucleo della questione politica.
Per trovare una via d'uscita dal vicolo cieco nazional-statale è importante convincersi che si possono, sì, utilizzare gli spazi d'azione rimasti, ma ormai non c'è più nessuna soluzione nazionale per i problemi nazionali. Per questo i governi sono attraenti solo fintanto che non vengono eletti. Anche chi vuole combattere efficacemente la povertà non può fare a meno di distinguere tra autonomia e sovranità. La rinuncia all'autonomia, ossia la cooperazione con altri stati, è la chiave del rafforzamento della sovranità nazional-statale di fronte al capitale mobile. Qui sta il compito fondamentale di un'Unione Europea rinnovata, poiché questo non lo può fare nessuno stato nazionale da solo. La risposta alla globalizzazione consiste in un migliore coordinamento internazionale della politica, in più forti controlli sopranazionali delle banche e delle istituzioni finanziarie, nello smantellamento del dumping fiscale tra gli stati, nell'accordo sui salari minimi e quindi, infine, anche nella riconquista della sicurezza sociale come base di una democrazia vitale.
Sorge allora l’obiezione. Gli interventi (burocraticamente arroganti) della politica sovraordinata nel processo economico non finirebbero per impedire le possibilità di successo di fronte a grandi concorrenti come la Cina e l'India e per favorire il diffondersi nella popolazione di una mentalità improntata a un socialismo secondario? No. Ciò di cui abbiamo bisogno sono idee pratiche per un'u-manizzazione del processo di globalizzazione, concezioni per un'economia di mercato internazionale, social-ecologica. Questo significa molto; per esempio, che l'Unione Europea (i singoli Stati non ne sono in grado) negozia accordi di cooperazione con la Cina vantaggiosi per entrambe le parti, come quelli sulle tecnologie e le regioni che non emettono anidride carbonica e sui rispettivi mercati. Un altro " dogma non pronunciato" (Peter Glotz) accettato da tutti i partecipanti al dibattito sulla povertà recita: " La piena occupazione è possibile!". Ad esso si aggiunge la convinzione, non meno tacitamente condivisa, secondo cui la disoccupazione è un fallimento - della politica, dell'economia, della società. Anche questo è falso. La disoccupazione dì massa e la povertà non sono un segno della sconfitta, ma della vittoria delle società del lavoro moderne, poiché il lavoro diventa sempre più produttivo e c'è sempre meno bisogno di lavoro umano per ottenere una quantità sempre maggiore di risultati. La povertà senza vie d'uscita è il rovescio della medaglia della filosofia della piena occupazione, che storicamente ha perduto da un pezzo la sua credibilità. Ammettiamo che i governi europei riescano a fare tutto ciò che si sono proposti e che realizzino anche ciò che auspicano i consiglieri neoliberisti: cosa succederebbe, se gli ex welfare states dell'Europa non riuscissero comunque a uscire dalla disoccupazione di massa e dalla povertà? L'utopia della società del lavorò era stata quella di liberare dal giogo del lavoro. Ora siamo giunti proprio a questo punto. Dobbiamo finalmente porre all'ordine del giorno queste questioni: Come si può condurre una vita sensata anche se non sì trova un lavoro?Come saranno possibili la democrazia e la libertà al di là della piena occupazione? Come potranno le persone diventare cittadini consapevoli, senza un lavoro retribuito?
Abbiamo bisogno di un reddito di cittadinanza pari a circa 700 euro. Non è una provocazione, ma un'esigenza politica realistica. È interessante notare che questa idea circola da tempo e viene sostenuta sulla base di posizioni contrastanti. L'economista e premio Nobel americano Milton Friedman proponeva già nel 1962 che chi si trovava al di sotto di una determinata soglia di reddito ricevesse dallo stato un contributo fisso.
Naturalmente, si pone la domanda: Chi deve pagare? Alcuni economisti hanno calcolato che in fin dei conti questa soluzione potrebbe essere addirittura la meno costosa. Infatti, dove un reddito-base garantisce uno standard di vita, non c'è bisogno né di assistenza sociale, né di sussidi di disoccupazione, né di un sistema pensionistico o di assegni familiari - e nemmeno degli innumerevoli altri sostegni e sovvenzioni che oggi vengono distribuiti a pioggia. Perfino i genitori potrebbero soddisfare più facilmente il loro desiderio di avere figli, ecc. ecc. E allora: Mai più piena occupazione - abbiamo di meglio da fare!
NOTE
Traduzione di Carlo Sandrelli
La Repubblica del 22 marzo 2007, pag. 25
di Ulrich Beck
Alla fine, anche nella società della piena occupazione degli inizi del XXI secolo in Europa si accende il dibattito sulla povertà senza vie d'uscita. Esso viene condotto con grande passione ma, sorprendentemente, tutti i partecipanti, a qualsiasi fronte appartengano, hanno un identico paraocchi. Tutti, con colpevole sicurezza, danno per scontato che la povertà sempre più diffusa e sempre più dura sia un problema nazionale, che deve essere discusso, affrontato e superato a livello nazionale. Gli italiani discutono di una povertà italiana, i tedeschi di una povertà tedesca, gli spagnoli di una povertà spagnola, ecc. E in tutte le sfere pubbliche nazionali tutti, neoliberisti radicali, socialdemocratici di vecchio o nuovo stampo, conservatori, comunisti, sindacalisti e naturalmente anche le organizzazioni dei disoccupati, considerano assolutamente ovvio, con irremovibile certezza, che i sempre più gravi fenomeni di povertà vadano intesi come problemi nazionali che esigono soluzioni esclusivamente nazionali.
Ma questo paraocchi narcisistico e questa politica narcisistica non diventano migliori o più giusti per il fatto di costituire un incompreso denominatore comune. Per capire il problema della povertà nel XXI secolo e per cercare risposte politiche abbiamo invece bisogno di uno sguardo cosmopolita, che superi le rigidità del "nazionalismo metodologico" della società, della politica e della scienza. L'economia dell'insicurezza rivoluziona le condizioni di lavoro e di vita in tutte le società occidentali evolute. Detto in malo modo, viviamo una brasilianizzazione delle società del benessere: le forme variopinte e fragili di occupazione, che sono la normalità nel cosiddetto Terzo mondo, sostituiscono sempre più il lavoro sicuro anche nei paesi del centro. Lo si può anche celebrare come "flessibilità", ma tutto ciò significa: "Renditi più facilmente licenziabile e adattati all’idea che nessuno ti possa dire se in futuro la tua qualifica sarà ancora richiesta".
Il nesso stretto tra povertà e disperazione, che ora anche in Europa vogliamo giustamente denunciare e combattere, è di tipo "nuovo" perché nella cultura capitalistica, fissata sul lavoro, a fronte dei poderosi progressi nella produttività questi soggetti scartati - è amaro dirlo - non vengono più "usati". È possibile massimizzare i profitti anche senza di loro, vincere le elezioni anche senza di loro. E la loro posizione nella società non corrisponde più a quella di un "ceto" o di una "classe", perché non hanno più una collocazione determinata nel processo produttivo. Questo però non significa che stanno meglio: vuoi dire, al contrario, che stanno peggio. E lo shock che colpisce molte persone è legato alla consapevolezza, anch'essa amara, che questa povertà è la conseguenza di tutti i tentativi di vincerla. La disperazione è l'altra faccia dell'utopia perduta.
Il welfare state nazionale, che tenta da solo di venire a capo della sua povertà "nazionale", assomiglia all'ubriaco che in una notte buia cerca il portafoglio perduto sotto il cono di luce di un lampione. Alla domanda: "Ha perduto proprio qui il portafoglio?" risponde: "No, ma alla luce del lampione posso almeno cercarlo!".
Ma dove ha perduto il suo "portafoglio" lo stato nazionale? È del tutto sbagliato continuare a ritenere (come fanno tutti) che esista ancora la costellazione in base alla quale i sindacati nazionali, il capitale nazionale e il welfare nazionale si battono per l'incremento dell'economia nazionale e per la ripartizione del prodotto interno lordò. Cosi si disconoscono il nuovo gioco di potere e il nuovo gap di potere tra attori politici fissati a un territorio (governi, parlamenti, sindacati, lavoratori) e attori dell'economia mondiale, non legati a un territorio (capitale mobile, flussi finanziari). Non sono necessari gli appelli alla morale e al patriottismo dei manager. Piuttosto, c'è esigenza di idee su come la politica statale in tempi di globalizzazione possa essere fatta uscire dalla difensiva e rianimata a partire dalla questione della giustizia, che è diventata il nucleo della questione politica.
Per trovare una via d'uscita dal vicolo cieco nazional-statale è importante convincersi che si possono, sì, utilizzare gli spazi d'azione rimasti, ma ormai non c'è più nessuna soluzione nazionale per i problemi nazionali. Per questo i governi sono attraenti solo fintanto che non vengono eletti. Anche chi vuole combattere efficacemente la povertà non può fare a meno di distinguere tra autonomia e sovranità. La rinuncia all'autonomia, ossia la cooperazione con altri stati, è la chiave del rafforzamento della sovranità nazional-statale di fronte al capitale mobile. Qui sta il compito fondamentale di un'Unione Europea rinnovata, poiché questo non lo può fare nessuno stato nazionale da solo. La risposta alla globalizzazione consiste in un migliore coordinamento internazionale della politica, in più forti controlli sopranazionali delle banche e delle istituzioni finanziarie, nello smantellamento del dumping fiscale tra gli stati, nell'accordo sui salari minimi e quindi, infine, anche nella riconquista della sicurezza sociale come base di una democrazia vitale.
Sorge allora l’obiezione. Gli interventi (burocraticamente arroganti) della politica sovraordinata nel processo economico non finirebbero per impedire le possibilità di successo di fronte a grandi concorrenti come la Cina e l'India e per favorire il diffondersi nella popolazione di una mentalità improntata a un socialismo secondario? No. Ciò di cui abbiamo bisogno sono idee pratiche per un'u-manizzazione del processo di globalizzazione, concezioni per un'economia di mercato internazionale, social-ecologica. Questo significa molto; per esempio, che l'Unione Europea (i singoli Stati non ne sono in grado) negozia accordi di cooperazione con la Cina vantaggiosi per entrambe le parti, come quelli sulle tecnologie e le regioni che non emettono anidride carbonica e sui rispettivi mercati. Un altro " dogma non pronunciato" (Peter Glotz) accettato da tutti i partecipanti al dibattito sulla povertà recita: " La piena occupazione è possibile!". Ad esso si aggiunge la convinzione, non meno tacitamente condivisa, secondo cui la disoccupazione è un fallimento - della politica, dell'economia, della società. Anche questo è falso. La disoccupazione dì massa e la povertà non sono un segno della sconfitta, ma della vittoria delle società del lavoro moderne, poiché il lavoro diventa sempre più produttivo e c'è sempre meno bisogno di lavoro umano per ottenere una quantità sempre maggiore di risultati. La povertà senza vie d'uscita è il rovescio della medaglia della filosofia della piena occupazione, che storicamente ha perduto da un pezzo la sua credibilità. Ammettiamo che i governi europei riescano a fare tutto ciò che si sono proposti e che realizzino anche ciò che auspicano i consiglieri neoliberisti: cosa succederebbe, se gli ex welfare states dell'Europa non riuscissero comunque a uscire dalla disoccupazione di massa e dalla povertà? L'utopia della società del lavorò era stata quella di liberare dal giogo del lavoro. Ora siamo giunti proprio a questo punto. Dobbiamo finalmente porre all'ordine del giorno queste questioni: Come si può condurre una vita sensata anche se non sì trova un lavoro?Come saranno possibili la democrazia e la libertà al di là della piena occupazione? Come potranno le persone diventare cittadini consapevoli, senza un lavoro retribuito?
Abbiamo bisogno di un reddito di cittadinanza pari a circa 700 euro. Non è una provocazione, ma un'esigenza politica realistica. È interessante notare che questa idea circola da tempo e viene sostenuta sulla base di posizioni contrastanti. L'economista e premio Nobel americano Milton Friedman proponeva già nel 1962 che chi si trovava al di sotto di una determinata soglia di reddito ricevesse dallo stato un contributo fisso.
Naturalmente, si pone la domanda: Chi deve pagare? Alcuni economisti hanno calcolato che in fin dei conti questa soluzione potrebbe essere addirittura la meno costosa. Infatti, dove un reddito-base garantisce uno standard di vita, non c'è bisogno né di assistenza sociale, né di sussidi di disoccupazione, né di un sistema pensionistico o di assegni familiari - e nemmeno degli innumerevoli altri sostegni e sovvenzioni che oggi vengono distribuiti a pioggia. Perfino i genitori potrebbero soddisfare più facilmente il loro desiderio di avere figli, ecc. ecc. E allora: Mai più piena occupazione - abbiamo di meglio da fare!
NOTE
Traduzione di Carlo Sandrelli
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