domenica 23 dicembre 2007

Lontano dalla Borsa Il potere oscuro dei fondi

Lontano dalla Borsa Il potere oscuro dei fondi

La Stampa.it del 19 febbraio 2007

di Carlo Bastasin
Né «salotto buono», né «agorà economico», né aristocratico, né popolare. Che forma sta prendendo il potere economico, che aveva il suo indirizzo simbolico nella Borsa, il realistico cuore di marmo di Milano? Il potere forse non abita più a Piazza Affari, ma vi ha lasciato le sue ombre: vacilla il club degli imprenditori carismatici, i poteri forti sono un misto di banche iperpotenti e di nuovi attori «privati», più efficienti, ma non molto più trasparenti. E’ ancora un potere nella zona grigia.

La nuova era
All’inizio degli Anni Novanta, anche a Milano risuonava la retorica dei piccoli risparmiatori: milioni di formiche pronte a fissare l’agenda delle corporations, come il fondo delle suore che impose a General Electric la svolta ambientalista. Oggi, come spiega l’economista Alessandro Penati, la Borsa tradizionale, che da Milano emanava una sua teatralità, è una scatola chiusa, per sistemare gli assetti di potere e consolidare il controllo di chi già lo ha. Gli accordi sono presi fuori mercato. Dal ’94 le imprese finanziano il 70% dei loro investimenti con fondi interni, la quotazione serve all’azionista di controllo non per crescere, ma per monetizzare l’investimento. Un capitalismo di famiglie e piramidi non vuole diluire il controllo e per finanziarsi privilegia il debito bancario.

Ora che le norme europee mordono e i regolatori sono più efficaci, il potere finanziario si sottrae. Tra il salotto e il mercato c’è una zona poco illuminata dove ciò che è pubblico, popolare e regolato, non è sexy. Non è solo la stagione delle banche, ma del passaggio dal capitalismo «pubblico» a quello «privato»: la stagione del «private equity», delle «non banche», delle leve finanziarie che moltiplicano rischio e rendimento per pochi. Ma non tutte le conseguenze sono negative.

La strategia
Prendiamo Alitalia. In Borsa è in balia di speculazioni sul controllo, filtrate da indiscrezioni politiche. Dal mercato non viene disciplina, né prospettiva: nessuno passerà dalla Borsa per conquistarla. Così intervengono i fondi privati: Texas Pacific Group, MatlinPatterson e M&C. Quello che non riesce a fare il mercato pubblico lo faranno i privati. La situazione è ideale: «prendi una società mal ridotta – recita un banchiere – aggiungi un bel po’ di debiti, parecchio incentivo al management, togli tutto il grasso. Lascia cuocere per 5 anni e i profitti esplodono». Poi, nella migliore delle ipotesi, la riporti in Borsa trattenendo per te l’aumento di valore.

I fondi aumentano l’efficienza del mercato, moltiplicano la disponibilità di capitale. Senza di loro, che permettono alle imprese di reagire immediatamente, Usa ed Europa potrebbero non reggere allo choc asiatico. Ma? Ma tagliano fuori i piccoli azionisti, distribuiscono i profitti a investitori già così forti da sopportare i rischi, riducono la fiducia nel mercato pubblico e, in teoria, potrebbero rendere inutili le Borse o – come osserva John Green, ex di Macquarie - potrebbero comprarle e ricominciare: spezzettarla, indebitarla, sgrassarla, rivenderla, trattenere gli utili…

I gironi del grande business
Se la Borsa è una «piazza» in cui il singolo risparmiatore può incontrare il capitale, il nuovo sistema è una serie di gironi concentrici. Attorno alle imprese, ci sono intermediari finanziari (banche d’investimento, fondi privati, venture capitalist), in un girone più ampio ci sono pochi grandissimi istituti in cui è concentrato un enorme potere (il 70% del credito ai fondi speculativi di tutto il mondo viene da Goldman Sachs, Morgan Stanley e Ubs); in un cerchio più largo ci sono i fondi pensione che raccolgono i risparmi che il cerchio più esterno, quello della popolazione del mondo industrializzato, risparmia in vista dell’invecchiamento globale. Mentre le piazze sono fatte per essere pubbliche, i passaggi da un girone all’altro possono essere privati e, talvolta, sotterranei.

Tra pubblico e privato
In realtà anche la Borsa milanese ha sempre vissuto volentieri sotto terra, per un sistema poco luminoso di rapporti personali, patti di sindacato e controlli incrociati cui oggi si è sovrapposto il ruolo di poche banche: l’80% delle società condivide almeno un amministratore. Che cosa è «pubblico» e che cosa è «privato» in questo circuito? Non è facile dirlo. La regolazione di Borsa impone obblighi di trasparenza sulla proprietà, mentre i fondi di private equity, oltre un centinaio in Italia con un capitale di circa 12 miliardi, esercitano una disciplina vigorosa sui manager, a cui offrono una proprietà stabile ed esigente, nodosi bastoni e carote dorate. Solo nel 2006 hanno chiuso 300 operazioni. Intervengono su società come FiatAvio, Seat, Fila, Sisal, Gardaland, Piaggio, Grandi Navi, Marazzi. I loro uffici milanesi non occupano grattacieli, ma anonimi condomini, non circondano per forza il Duomo e hanno insegne piccole e nomi privi di identità: 3i, Clessidra, Investitori associati, Permira. Tra mercato pubblico e privato si aprono così conflitti che rendono dinamica la realtà finanziaria, i nuovi «privati», soprattutto gli americani, non hanno riguardi per gli «old boys» dei patti di sindacato e per le intromissioni di logiche politiche. Ma in tutto ciò il ruolo del risparmiatore è solo il residuo dell’equazione.

Il ruolo delle banche
Ai fondi privati italiani i finanziamenti vengono dalle banche maggiori: Unicredit, Intesa-Sanpaolo, Capitalia e poche altre. Come sul mercato globale, c’è a monte una concentrazione di potere e informazioni in poche banche il cui ruolo è così penetrante nella società da convivere bene con la politica, come dimostra l’ingresso di Unicredit e Intesa-Sanpaolo e di molte fondazioni nel fondo F2i, attorno a cui ruoteranno in Italia le grandi operazioni di interesse pubblico. Una specie di «insider-network» in cui circolano le informazioni utili al resto del business, come ai tempi di Mediobanca. Certo, le grandi banche sono regolate, la loro lotta di potere è ormai un genere letterario e i loro capi sono scrutinati fin nelle amicizie e nelle inclinazioni culturali. Ma la loro funzione in Italia resta anche di organizzazione di poteri. Come per le «non banche», l’attività finanziaria più dinamica non sono i prestiti bancari, né l’emissione di azioni o di obbligazioni. Il baricentro scivola verso gli «alternativi»: interventi su società fuori dal listino, operazioni dettate dall’agenda politica, fondi speculativi, materie prime o immobili. Se, come Merrill Lynch e Goldman Sachs, forniranno «cloni» a basso costo di hedge e privati, accentreranno tutto il potere.

Scenari speculativi
Che cosa succederà se il passaggio dal «capitale pubblico» al «capitale privato» aumenterà ancora? Le grandi banche saranno controllabili solo formalmente? Il cittadino medio si sentirà escluso dal capitalismo? Il potere «tornerà nell’ombra», come denuncia l’Economist? Nel mondo ci sono 3 mila fondi di private equity che gestiscono 400 miliardi di euro e 2.500 fondi speculativi con oltre mille miliardi. La competizione implica la ricerca di rendimenti con maggior rischio e leve più alte, in un ambiente non sempre trasparente. Qualche fallimento (Amaranth) è già avvenuto. Come spiega William White della Bri: «Gli hedge sono stati il grasso nel motore della finanza e non devono diventarne la sabbia». Il G8 ha deciso di intervenire e in America i fondi privati cominciano a quotarsi in Borsa. Senza mercati pubblici, dice Penati, non avrebbero prezzi di riferimento su cui calcolare i multipli: è una fase del pendolo, i mercati sono complementari.

Ogni fase del capitalismo è inaugurata da eccessi e dal moralismo della stampa. Forse il capitalismo popolare non è morto, forse la strategia di utilizzare i mercati finanziari per salvare lo stato sociale non è fallita. Eppure, il divaricarsi tra mercati alla luce del sole e le operazioni condotte nelle private stanze, assomiglia molto all’affievolirsi di una speranza.

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