I Sioux stracciano i patti con l'America
La Stampa del 21 dicembre 2007, pag. 14
di Maurizio Molinari
I discendenti di Toro Seduto e Cavallo Pazzo stracciano i trattati di pace sottoscritti con gli Stati Uniti negli ultimi 150 anni, reclamano la sovranità sui territori nordamericani della nazione Sioux e chiedono sostegno politico ai più combattivi leader politici indigeni dell'Emisfero Occidentale: Hugo Chavez e Evo Morales.
A notificare all'amministrazione Bush la denuncia dei 33 trattati di pace esistenti è stato Russell Means, leader del Movimento indiano-americano, recandosi a Washington alla testa di una delegazione della nazione Lakota, composta dalle tribù Sioux occidentali, per recapitare un documento ad hoc al Dipartimento di Stato. Poco dopo è stato lo stesso Means a recarsi nella Chiesa congregazionale di Plymouth per spiegare le ragioni del gesto di rottura con gli Stati Uniti. «Noi non rappresentiamo quegli indiani-americani collaborazionisti come la Francia di Vichy con gli occupanti tedeschi», ha esordito il capo indiano, imputando ai «trattati firmati» una realtà di «povertà, sfruttamento, furto di terre, proprietà e risorse». Da qui la scelta della «Libera nazione Lakota» di cambiare drasticamente Io status quo: «Non pagheremo più le tasse, emetteremo passaporti e patenti di guida, sceglieremo i leader seguendo le nostre tradizioni».
Means e i capi indiani che si riconoscono in lui affermano di voler «cancellare i trattati di pace esistenti» su un territorio tribale molto vasto, che si estende dalle aree occidentali di Nord, Sud Dakota e Nebraska fino ai confini orientali di Wyoming e Montana, sommando oltre 70 mila anime. Gli accordi stracciati vennero siglati fra il 1851 e il 1868, posero fine alle guerre indiane e stabilirono la tutela dei diritti delle tribù sconfitte in cambio del riconoscimento della sovranità degli Stati Uniti.
Ma i discendenti di Toro Seduto sin dal 1974 lamentano la «violazione degli accordi» ed ora Means ritiene sia arrivato il momento di «passare ai fatti». «Nel 1974 i nostri padri iniziarono il viaggio verso la libertà redigendo la Dichiarazione di Indipendenza ma abbiamo dovuto aspettare affinchè tutte le anatre fossero allineate», ha spiegato il capo Sioux, riferendosi alla votazione con cui l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite in settembre ha approvato un documento sui diritti dei popoli indigeni. All'epoca Washington votò contro quel testo - peraltro senza un valore legale vincolante - che per i Lakota segna «il momento di chiedere il rispetto dei nostri diritti ponendo fine all'annessione» da parte dell'America.
I capi indiani sono determinati a portare la denuncia di fronte ad ogni sede competente - nazionale e internazionale - motivandola con la documentazione dell’«illegale sfruttamento di risorse», dei «ripetuti furti di terre» e delle «terribili condizioni di vita del nostro popolo», segnato da una durata della vita media di appena 44 anni e un tasso di suicidi 150 volte superiore a quello del resto degli Stati Uniti, a cui bisogna aggiungere disoccupazione e mortalità infantile.
Per dimostrare che fanno sul serio i capi indiani si sono recati nelle ambasciate delle nazioni alle quali chiedono un sostegno: in primo luogo Venezuela e Bolivia, accomunate dalle tensioni con gli Usa, ma anche Cile e Sud Africa. Una risposta positiva è arrivata da La Paz, dove il presidente indio Evo Morales ha autorizzato l'ambasciatore a Washington, Gustavo Guzman, a schierarsi con gli indipendentisti. «Le loro richieste sono le nostre», ha detto Guzman. Anche da Caracas sono arrivati segnali di attenzione, in forza dei quali la nazione Lakota preannuncia «missioni all'estero» per cercare legittimazione alla futura secessione dagli Stati Uniti. Il governo federale di Washington per ora non ha reagito alla sfida dei Lakota, limitandosi a confermare che il Dipartimento di Stato ha ricevuto il documento di denuncia dei trattati di pace firmati con i pellirossa.
La Stampa del 21 dicembre 2007, pag. 14
di Maurizio Molinari
I discendenti di Toro Seduto e Cavallo Pazzo stracciano i trattati di pace sottoscritti con gli Stati Uniti negli ultimi 150 anni, reclamano la sovranità sui territori nordamericani della nazione Sioux e chiedono sostegno politico ai più combattivi leader politici indigeni dell'Emisfero Occidentale: Hugo Chavez e Evo Morales.
A notificare all'amministrazione Bush la denuncia dei 33 trattati di pace esistenti è stato Russell Means, leader del Movimento indiano-americano, recandosi a Washington alla testa di una delegazione della nazione Lakota, composta dalle tribù Sioux occidentali, per recapitare un documento ad hoc al Dipartimento di Stato. Poco dopo è stato lo stesso Means a recarsi nella Chiesa congregazionale di Plymouth per spiegare le ragioni del gesto di rottura con gli Stati Uniti. «Noi non rappresentiamo quegli indiani-americani collaborazionisti come la Francia di Vichy con gli occupanti tedeschi», ha esordito il capo indiano, imputando ai «trattati firmati» una realtà di «povertà, sfruttamento, furto di terre, proprietà e risorse». Da qui la scelta della «Libera nazione Lakota» di cambiare drasticamente Io status quo: «Non pagheremo più le tasse, emetteremo passaporti e patenti di guida, sceglieremo i leader seguendo le nostre tradizioni».
Means e i capi indiani che si riconoscono in lui affermano di voler «cancellare i trattati di pace esistenti» su un territorio tribale molto vasto, che si estende dalle aree occidentali di Nord, Sud Dakota e Nebraska fino ai confini orientali di Wyoming e Montana, sommando oltre 70 mila anime. Gli accordi stracciati vennero siglati fra il 1851 e il 1868, posero fine alle guerre indiane e stabilirono la tutela dei diritti delle tribù sconfitte in cambio del riconoscimento della sovranità degli Stati Uniti.
Ma i discendenti di Toro Seduto sin dal 1974 lamentano la «violazione degli accordi» ed ora Means ritiene sia arrivato il momento di «passare ai fatti». «Nel 1974 i nostri padri iniziarono il viaggio verso la libertà redigendo la Dichiarazione di Indipendenza ma abbiamo dovuto aspettare affinchè tutte le anatre fossero allineate», ha spiegato il capo Sioux, riferendosi alla votazione con cui l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite in settembre ha approvato un documento sui diritti dei popoli indigeni. All'epoca Washington votò contro quel testo - peraltro senza un valore legale vincolante - che per i Lakota segna «il momento di chiedere il rispetto dei nostri diritti ponendo fine all'annessione» da parte dell'America.
I capi indiani sono determinati a portare la denuncia di fronte ad ogni sede competente - nazionale e internazionale - motivandola con la documentazione dell’«illegale sfruttamento di risorse», dei «ripetuti furti di terre» e delle «terribili condizioni di vita del nostro popolo», segnato da una durata della vita media di appena 44 anni e un tasso di suicidi 150 volte superiore a quello del resto degli Stati Uniti, a cui bisogna aggiungere disoccupazione e mortalità infantile.
Per dimostrare che fanno sul serio i capi indiani si sono recati nelle ambasciate delle nazioni alle quali chiedono un sostegno: in primo luogo Venezuela e Bolivia, accomunate dalle tensioni con gli Usa, ma anche Cile e Sud Africa. Una risposta positiva è arrivata da La Paz, dove il presidente indio Evo Morales ha autorizzato l'ambasciatore a Washington, Gustavo Guzman, a schierarsi con gli indipendentisti. «Le loro richieste sono le nostre», ha detto Guzman. Anche da Caracas sono arrivati segnali di attenzione, in forza dei quali la nazione Lakota preannuncia «missioni all'estero» per cercare legittimazione alla futura secessione dagli Stati Uniti. Il governo federale di Washington per ora non ha reagito alla sfida dei Lakota, limitandosi a confermare che il Dipartimento di Stato ha ricevuto il documento di denuncia dei trattati di pace firmati con i pellirossa.
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