Il Manifesto, 1 giugno 2004
La necessità di fare mente GLOCALE
Parla Roland Roberston, sociologo all'università scozzese di Aberdeen, pioniere negli studi sulla globalizzazione
Roland Robertson «La glocalizzazione, a mio giudizio, è una globalizzazione che 'si autolimita' adattandosi al locale»
Donatella Della Ratta
Dochakuka è un termine che indica come le tecniche di coltivazione della terra vengano adattate, di volta in volta, alle condizioni locali di un luogo. Quest'impronunciabile parola giapponese sarebbe la lontana parente orientale che ha dato le origini a glocal, vocabolo oggi piuttosto alla moda che si riferisce alla combinazione fra il globale e il locale, dove il primo non sottomette, appiattisce e piega il secondo, ma i due elementi si mutano a vicenda, dando origine a un composto nuovo. Ne è convinto Roland Robertson, sociologo dell'Università di Aberdeen e pioniere negli studi in questo settore: il glocal è una visione più complessa della globalizzazione, fenomeno che finora è stato considerato soltanto nelle sue dimensioni economiche, lasciando ingiustamente da parte i suoi aspetti sociali e culturali. Robertson sostiene la glocalizzazione come concetto che ha il merito di restituire alla globalizzazione la multidimensionalità che le appartiene per statuto. Allo stesso tempo, la miscela interconnessa di globale e locale che sta nel glocal riuscirebbe ad allontanare il locale dalle nostalgie identitarie e ad evitare di renderlo luogo del sicuro «ritorno a casa», confortante ed esclusivo contro il caos della modernità dispersiva ed omologante. Una visione, quella di Robertson, a dir poco coraggiosa di questi tempi, dove sembra trionfare da una parte la spinta all'appiattimento sotto un'unica cultura (e bandiera) depositaria di progresso, sviluppo e democrazia, mentre dall'altra tornano in auge i particolarismi, le rivendicazioni di identità locali «pure» e chiuse in se stesse. Abbiamo chiesto al professor Robertson che senso ha parlare di glocal in questo mondo post-11 settembre, pieno di paure, chiusure e conflitti, tutt'altro che riconciliato nell'incontro con l'Altro.
Professor Robertson, in che senso lei oggi usa il concetto di glocal?
La gente mi fa spesso questa domanda «cosa viene dopo la globalizzazione?» Se pensiamo alla globalizzazione soltanto nei suoi aspetti economici, cioè come un'ideologia sostanzialmente capitalista e neoliberista, probabilmente quello che seguirà sarà un nuovo regime economico, forse una forma ancora diversa di capitalismo. Eppure è necessario pensare alla globalizzazione considerando la sua multidimensionalità, le sue variegate dimensioni sociali ed economiche. In quest'ottica io parlo di glocal: recuperando la dimensione sociale e culturale della globalizzazione. La glocalizzazione è una globalizzazione che «si autolimita»: ovvero una globalizzazione che per attecchire considera il locale e vi si adatta, piuttosto che ignorarlo o schiacciarlo. D'altronde, la globalizzazione produce sempre più resistenza a se stessa - pensiamo ai vari movimenti di contestazione diffusi in tutto il mondo - mentre aiuta a generare l'idea di locale. Ironicamente e paradossalmente è proprio la contestazione alla spinta globale che ha prodotto dappertutto l'attenzione al locale. Viceversa, protestare contro la globalizzazione produce più globalizzazione, e la gente ha capito che per portare avanti le istanze del locale bisogna diventare globali, muoversi, comunicare con le nuove tecnologie, spostarsi da una parte all'altra del mondo.
Ma lei non pensa che glocal ormai sia un termine un po' «trendy», che crea una nuova sorta di stereotipo culturale, appiattendo la località delle culture su quegli elementi «vendibili» all'Occidente e non dissonanti nei suoi confronti, cioè che non producono alcun conflitto? Penso alla moda dell'India che si mischia con l'Europa e dà origine a cibo, musica e design alla moda... Sfortunatamente questo non si può evitare. Per esempio, United Colors of Benetton incappa in questa contraddizione, lavorando sulle diversità culturali e tirandone fuori un mix molto raffinato e alla moda. Ma è difficile evitarlo, ed è difficile vivere al di fuori da tutto ciò. Credo di essere molto pessimista su questo. L'unica cosa da fare è spiegare alla gente cosa c'è dietro alle cose e cercare di valorizzare il locale.
Eppure c'è il rischio che così glocal sia un concetto in mano soltanto a una parte del mondo, quello occidentale, che lo usa per descrivere un miscuglio gioioso con le culture altre, o con quegli elementi delle culture altre che fanno più comodo all'Occidente stesso. In questo modo il glocal non rischia di diventare una nuova forma di Orientalismo, quello che Edward Said denunciava come una nuova forma di colonialismo culturale nei confronti delle culture non occidentali? Rispetto l'interessante lavoro di Said anche se non fu il primo a parlare di «orientalismo». Comunque penso che sia altrettanto diffuso il fenomeno contrario, che chiamerei «occidentalismo»: una visione dell'Occidente che si appiattisce sul materialismo e sul razionalismo, senza rendere conto delle differenze, e che l'Asia e il Medio oriente esercitano nei confronti dei paesi occidentali. Credo che il dibattito oggi non sia più centrato né sull'orientalismo né sull'occidentalismo, ma fra i legami e le interconnessioni fra occidente e oriente piuttosto che sull'individuazione delle reciproche differenze. Penso che le differenze fra questi due «blocchi» omogenei soltanto ideologicamente siano state costruite nel passare dei secoli, e che oggi noi le stiamo pian piano decostruendo. Certo, ci sono persone, per esempio molto dell'entourage di Bush, le cui visioni sul mondo arabo sono state influenzate da libri «orientalisti», che lo descrivono soltanto come un insieme violento, irrazionale. Ma, per esempio, le ultime rivelazioni sui soldati americani e le torture che hanno inflitto ai prigionieri iracheni aiutano se non altro a distruggere gli stereotipi dell'Occidente «buono», perché lo mostrano capace di azioni e gesti orribili.
Dunque lei pensa che glocal sia ancora un concetto valido a descrivere il mondo, così com'è ora, dopo tutto quello che è successo dall'11 settembre in poi?
Si, penso che quanto più il tempo passa, sempre di più viviamo in un mondo «glocalizzato». Per tornare ad un esempio di natura culturale, pensiamo alla world music e a quanto ha fatto per portare la gente dentro le storie, i gusti, le abitudini, le narrazioni di altre culture del mondo. Il problema viene fuori quando poi gli artisti che diventano famosi - per esempio nei paesi africani -, vengono accusati di essere entrati nel mainstream globale e di aver perso l'autenticità della propria cultura. Qui sta il vero problema, nella parola «autenticità», che dovrebbe essere vietata: è fuorviante e pericoloso dire che una cosa è piu autentica di un'altra.
La necessità di fare mente GLOCALE
Parla Roland Roberston, sociologo all'università scozzese di Aberdeen, pioniere negli studi sulla globalizzazione
Roland Robertson «La glocalizzazione, a mio giudizio, è una globalizzazione che 'si autolimita' adattandosi al locale»
Donatella Della Ratta
Dochakuka è un termine che indica come le tecniche di coltivazione della terra vengano adattate, di volta in volta, alle condizioni locali di un luogo. Quest'impronunciabile parola giapponese sarebbe la lontana parente orientale che ha dato le origini a glocal, vocabolo oggi piuttosto alla moda che si riferisce alla combinazione fra il globale e il locale, dove il primo non sottomette, appiattisce e piega il secondo, ma i due elementi si mutano a vicenda, dando origine a un composto nuovo. Ne è convinto Roland Robertson, sociologo dell'Università di Aberdeen e pioniere negli studi in questo settore: il glocal è una visione più complessa della globalizzazione, fenomeno che finora è stato considerato soltanto nelle sue dimensioni economiche, lasciando ingiustamente da parte i suoi aspetti sociali e culturali. Robertson sostiene la glocalizzazione come concetto che ha il merito di restituire alla globalizzazione la multidimensionalità che le appartiene per statuto. Allo stesso tempo, la miscela interconnessa di globale e locale che sta nel glocal riuscirebbe ad allontanare il locale dalle nostalgie identitarie e ad evitare di renderlo luogo del sicuro «ritorno a casa», confortante ed esclusivo contro il caos della modernità dispersiva ed omologante. Una visione, quella di Robertson, a dir poco coraggiosa di questi tempi, dove sembra trionfare da una parte la spinta all'appiattimento sotto un'unica cultura (e bandiera) depositaria di progresso, sviluppo e democrazia, mentre dall'altra tornano in auge i particolarismi, le rivendicazioni di identità locali «pure» e chiuse in se stesse. Abbiamo chiesto al professor Robertson che senso ha parlare di glocal in questo mondo post-11 settembre, pieno di paure, chiusure e conflitti, tutt'altro che riconciliato nell'incontro con l'Altro.
Professor Robertson, in che senso lei oggi usa il concetto di glocal?
La gente mi fa spesso questa domanda «cosa viene dopo la globalizzazione?» Se pensiamo alla globalizzazione soltanto nei suoi aspetti economici, cioè come un'ideologia sostanzialmente capitalista e neoliberista, probabilmente quello che seguirà sarà un nuovo regime economico, forse una forma ancora diversa di capitalismo. Eppure è necessario pensare alla globalizzazione considerando la sua multidimensionalità, le sue variegate dimensioni sociali ed economiche. In quest'ottica io parlo di glocal: recuperando la dimensione sociale e culturale della globalizzazione. La glocalizzazione è una globalizzazione che «si autolimita»: ovvero una globalizzazione che per attecchire considera il locale e vi si adatta, piuttosto che ignorarlo o schiacciarlo. D'altronde, la globalizzazione produce sempre più resistenza a se stessa - pensiamo ai vari movimenti di contestazione diffusi in tutto il mondo - mentre aiuta a generare l'idea di locale. Ironicamente e paradossalmente è proprio la contestazione alla spinta globale che ha prodotto dappertutto l'attenzione al locale. Viceversa, protestare contro la globalizzazione produce più globalizzazione, e la gente ha capito che per portare avanti le istanze del locale bisogna diventare globali, muoversi, comunicare con le nuove tecnologie, spostarsi da una parte all'altra del mondo.
Ma lei non pensa che glocal ormai sia un termine un po' «trendy», che crea una nuova sorta di stereotipo culturale, appiattendo la località delle culture su quegli elementi «vendibili» all'Occidente e non dissonanti nei suoi confronti, cioè che non producono alcun conflitto? Penso alla moda dell'India che si mischia con l'Europa e dà origine a cibo, musica e design alla moda... Sfortunatamente questo non si può evitare. Per esempio, United Colors of Benetton incappa in questa contraddizione, lavorando sulle diversità culturali e tirandone fuori un mix molto raffinato e alla moda. Ma è difficile evitarlo, ed è difficile vivere al di fuori da tutto ciò. Credo di essere molto pessimista su questo. L'unica cosa da fare è spiegare alla gente cosa c'è dietro alle cose e cercare di valorizzare il locale.
Eppure c'è il rischio che così glocal sia un concetto in mano soltanto a una parte del mondo, quello occidentale, che lo usa per descrivere un miscuglio gioioso con le culture altre, o con quegli elementi delle culture altre che fanno più comodo all'Occidente stesso. In questo modo il glocal non rischia di diventare una nuova forma di Orientalismo, quello che Edward Said denunciava come una nuova forma di colonialismo culturale nei confronti delle culture non occidentali? Rispetto l'interessante lavoro di Said anche se non fu il primo a parlare di «orientalismo». Comunque penso che sia altrettanto diffuso il fenomeno contrario, che chiamerei «occidentalismo»: una visione dell'Occidente che si appiattisce sul materialismo e sul razionalismo, senza rendere conto delle differenze, e che l'Asia e il Medio oriente esercitano nei confronti dei paesi occidentali. Credo che il dibattito oggi non sia più centrato né sull'orientalismo né sull'occidentalismo, ma fra i legami e le interconnessioni fra occidente e oriente piuttosto che sull'individuazione delle reciproche differenze. Penso che le differenze fra questi due «blocchi» omogenei soltanto ideologicamente siano state costruite nel passare dei secoli, e che oggi noi le stiamo pian piano decostruendo. Certo, ci sono persone, per esempio molto dell'entourage di Bush, le cui visioni sul mondo arabo sono state influenzate da libri «orientalisti», che lo descrivono soltanto come un insieme violento, irrazionale. Ma, per esempio, le ultime rivelazioni sui soldati americani e le torture che hanno inflitto ai prigionieri iracheni aiutano se non altro a distruggere gli stereotipi dell'Occidente «buono», perché lo mostrano capace di azioni e gesti orribili.
Dunque lei pensa che glocal sia ancora un concetto valido a descrivere il mondo, così com'è ora, dopo tutto quello che è successo dall'11 settembre in poi?
Si, penso che quanto più il tempo passa, sempre di più viviamo in un mondo «glocalizzato». Per tornare ad un esempio di natura culturale, pensiamo alla world music e a quanto ha fatto per portare la gente dentro le storie, i gusti, le abitudini, le narrazioni di altre culture del mondo. Il problema viene fuori quando poi gli artisti che diventano famosi - per esempio nei paesi africani -, vengono accusati di essere entrati nel mainstream globale e di aver perso l'autenticità della propria cultura. Qui sta il vero problema, nella parola «autenticità», che dovrebbe essere vietata: è fuorviante e pericoloso dire che una cosa è piu autentica di un'altra.
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