La soia divora la foresta vergine dell'Amazzonia
La Stampa del 21 settembre 2007, pag. 13
di Hubert Prolongeau, Béatrice Marie
Il piccolo aereo decolla, e la foresta si stende sotto a perdita d'occhio. L'Amazzonia, il polmone del pianeta, la fortezza verde. All'improvviso, si apre un varco. La foresta è ferita, sfregiata. Il polmone ha la tosse. La fortezza ha una breccia. II paesaggio è desolante: tronchi abbattuti sparsi intorno, i più resistenti mostrano ancora qualche moncherino. La terra rivela i suoi strati più interni, graffiata a morte dagli aratri. Ogni tanto nel mare dei campi emerge, solitario e fuori posto, il tronco di un castagno sopravvissuto.
Siamo nello Stato del Para. Dal gennaio 2003, data dell'arrivo ai potere del presidente Lula, 70 mila chilometri quadrati di terre sono stati sacrificati alla soia, uno dei più feroci nemici della foresta brasiliana. L'immenso Paese di Lula è diventato la patria del nuovo oro verde. Tutte le maggiori società americane partecipano alla manna: ADM, Bunge e Cargill, che ha costruito a Santarem, terza città dell'Amazzonia, un porto. Completamente illegale. Tutti i mesi, due cargo partono verso l'Europa, portando ciascuno 90 mila tonnellate. «La soia sta divorando l’Amazzonia, non riconosco più la mia città», dice Gaetano Scannavo», membro dell'ong «Salute e benessere».
Per le strade di Santarem si vedono sempre più numerosi grossi fuoristrada, guidati dai gaucho venuti dal Sud.
Da quando un rapporto di Greenpeace, «Mangiando l’Amazzonia» ha scatenato le polemiche, molte auto hanno l'adesivo «Fuori Greenpeace, l’Amazzonia è dei brasiliani». Alla Cooper Amazon, la società che distribuisce 1 fertilizzanti, il direttore Luis Assuncao, non nasconde la rabbia: «Qui è la guerra, una guerra fredda».
Il governatore del vicino Mato-Grosso, Blairo Maggi, è proprietario dell'Amaggi, uno dei maggiori produttori di soia mondiali. Ha costruito un'intera città, Sapezal, per i suoi operai, ha costruito un porto di profondità, e proposto di asfaltare a sue spese 1770 chilometri della BR183, Quando gli si paria di deforestazione, Maggi ironizza sulle dimensioni dell'Amazzonia e afferma che la soia è «benefica». Evita ì giornalisti, che sospetta essere tutti mandati da Greenpeace.
Nella «fazenda» Bela Terra, vicino a Santarem, è festa, come tutte le domeniche. Spiedini giganteschi, la birra scorre a fiumi, tutti indossano l'abito della domenica. I produttori di soia, i «sojeiros» ridono e parlano di affari. Con un estraneo sono diffidenti. Otalhìo, 33 anni, ha la faccia gonfia, ingoia pezzi di carne e si infervora: «Ci chiamano gaucho, banditi, ladri». Con gesto da conquistatore punta al suolo: «La gente qui non fa niente della loro terra. Sono poveri perché non sanno fare diversamente. Vogliono ayere la tv e andare in città. Noi gli abbiamo mostrato un altro modo di vivere».
Tonio Antares rivendica il diritto a massacrare il proprio Paese. Piccolo, gli occhi vivaci, la pelle arrossata dal sole, è convinto di portare civilità e prosperità: «Vogliamo aiutare lo sviluppo». Marcello da Silva è alto, grosso, gli occhi blu, assomiglia più al cowboy Marlboro che a un indiano della foresta. Butta giù le birre e crede nella sua stella. La soia lo renderà ricco, ne è certo. Sua moglie Patricia vuole comprare tanti terreni: «Gli americani pianteranno la canna da zucchero, c'è da guadagnare parecchio». Vorrebbero dei figli. Il futuro gli sorride. L'Amazzonia si è popolata a ondate, sulle promesse non mantenute che, dal boom del caucciù alla costruzione della Transamazzonica, hanno attirato qui ì miserabili. Si sono presi le terre, le hanno seminate, senza mai dotarsi di tìtoli di proprietà, e sono rimasti prigionieri dì quella che chiamano pudicamente «agricoltura familiare». Lungo tutta la BR163 la storia si ripete. Arrivano i «sojeieros» e chiedono loro di andarsene mostrando carte per la proprietà.
L'Incra (istituto nazionale di colonizzazione e riforma agraria) dietro pagamento emette certificati falsi «invecchiati» in un cassetto pieno di grilli. «Questa gente non ha la cultura del denaro», spiega padre Edilberto Sena, infaticabile militante ecologista: «Vendono a prezzo basso, e rimangono senza nemmeno gli attrezzi».
Al 38simo chilometro, Marlène Nascimento de Lima, piange le sue terre perdute: «Mi fa male passarci, ormai ci sono solo campi». All'inizio si era rifiutata di vendere. Ma i «sojeiros» hanno comprato i terreni adiacenti, i pesticidi hanno cacciato gli insetti sulle sue terre, i vicini erano già tutti partiti, e lei ha finito per cedere.
La violenza ha la sua parte in questa conquista. A Pacoval, nel 2004, sono bruciate 25 case. A Corte Corda, due sindacalisti sono stati uccisi. A Santarem, Ivete Bastos, presidente del sindacato dei lavoratori della terra, si è trovata donne con taniche di benzina, pronte a dare fuoco alla casa. Un anziano legionario spagnolo, proprietario di una palestra a Santarem, si vanta di compiere missioni di «pulizia» per i «fazendeiros». La polizia brasiliana irrompe regolarmente nelle grandi tenute per liberare gli schiavi. Vengono attirati in trappola con promesse di salari elevati, ma all'arrivo nella foresta gli viene impedito di ripartire. Nel 2004, l'esercito è intervenuto in 236 aziende, che utilizzavano 6075 lavoratori, di cui 127 bambini. Bunge, Cargill e Amaggi erano in affari con questi coltivatori.
Per agevolare l'espansione della soia le aziende offrono pesticidi e sementi geneticamente modificati. I pesticidi hanno già provocato disastri ecologici. Oggi il 20% della foresta brasiliana è morto. Nonostante la moratoria dal 2006 abbia dato risultati positivi (la deforestazione è scesa del 41%), il 40% dell'Amazzonia potrebbe sparire nei prossimi 20 anni. Il peggio, nel quale sperano Marcello e Patricia, può ancora arrivare, con il boom dei biocarburanti. Già oggi 20 milioni di auto brasiliane vanno a etanolo. Le «flex», a etanolo e benzina, hanno fatto 1’80% delle vendite nel 2005. Si commercializza un «biodiesel» che contiene soja. Si dice che il Brasile sarà l'Arabia Saudita del XXI secolo. Un deserto?
Nel tempo che avete impiegato a leggere questo articolo è stata deforestata un'area pari a 75 campi di calcio.
NOTE
Copyright Le Monde
La Stampa del 21 settembre 2007, pag. 13
di Hubert Prolongeau, Béatrice Marie
Il piccolo aereo decolla, e la foresta si stende sotto a perdita d'occhio. L'Amazzonia, il polmone del pianeta, la fortezza verde. All'improvviso, si apre un varco. La foresta è ferita, sfregiata. Il polmone ha la tosse. La fortezza ha una breccia. II paesaggio è desolante: tronchi abbattuti sparsi intorno, i più resistenti mostrano ancora qualche moncherino. La terra rivela i suoi strati più interni, graffiata a morte dagli aratri. Ogni tanto nel mare dei campi emerge, solitario e fuori posto, il tronco di un castagno sopravvissuto.
Siamo nello Stato del Para. Dal gennaio 2003, data dell'arrivo ai potere del presidente Lula, 70 mila chilometri quadrati di terre sono stati sacrificati alla soia, uno dei più feroci nemici della foresta brasiliana. L'immenso Paese di Lula è diventato la patria del nuovo oro verde. Tutte le maggiori società americane partecipano alla manna: ADM, Bunge e Cargill, che ha costruito a Santarem, terza città dell'Amazzonia, un porto. Completamente illegale. Tutti i mesi, due cargo partono verso l'Europa, portando ciascuno 90 mila tonnellate. «La soia sta divorando l’Amazzonia, non riconosco più la mia città», dice Gaetano Scannavo», membro dell'ong «Salute e benessere».
Per le strade di Santarem si vedono sempre più numerosi grossi fuoristrada, guidati dai gaucho venuti dal Sud.
Da quando un rapporto di Greenpeace, «Mangiando l’Amazzonia» ha scatenato le polemiche, molte auto hanno l'adesivo «Fuori Greenpeace, l’Amazzonia è dei brasiliani». Alla Cooper Amazon, la società che distribuisce 1 fertilizzanti, il direttore Luis Assuncao, non nasconde la rabbia: «Qui è la guerra, una guerra fredda».
Il governatore del vicino Mato-Grosso, Blairo Maggi, è proprietario dell'Amaggi, uno dei maggiori produttori di soia mondiali. Ha costruito un'intera città, Sapezal, per i suoi operai, ha costruito un porto di profondità, e proposto di asfaltare a sue spese 1770 chilometri della BR183, Quando gli si paria di deforestazione, Maggi ironizza sulle dimensioni dell'Amazzonia e afferma che la soia è «benefica». Evita ì giornalisti, che sospetta essere tutti mandati da Greenpeace.
Nella «fazenda» Bela Terra, vicino a Santarem, è festa, come tutte le domeniche. Spiedini giganteschi, la birra scorre a fiumi, tutti indossano l'abito della domenica. I produttori di soia, i «sojeiros» ridono e parlano di affari. Con un estraneo sono diffidenti. Otalhìo, 33 anni, ha la faccia gonfia, ingoia pezzi di carne e si infervora: «Ci chiamano gaucho, banditi, ladri». Con gesto da conquistatore punta al suolo: «La gente qui non fa niente della loro terra. Sono poveri perché non sanno fare diversamente. Vogliono ayere la tv e andare in città. Noi gli abbiamo mostrato un altro modo di vivere».
Tonio Antares rivendica il diritto a massacrare il proprio Paese. Piccolo, gli occhi vivaci, la pelle arrossata dal sole, è convinto di portare civilità e prosperità: «Vogliamo aiutare lo sviluppo». Marcello da Silva è alto, grosso, gli occhi blu, assomiglia più al cowboy Marlboro che a un indiano della foresta. Butta giù le birre e crede nella sua stella. La soia lo renderà ricco, ne è certo. Sua moglie Patricia vuole comprare tanti terreni: «Gli americani pianteranno la canna da zucchero, c'è da guadagnare parecchio». Vorrebbero dei figli. Il futuro gli sorride. L'Amazzonia si è popolata a ondate, sulle promesse non mantenute che, dal boom del caucciù alla costruzione della Transamazzonica, hanno attirato qui ì miserabili. Si sono presi le terre, le hanno seminate, senza mai dotarsi di tìtoli di proprietà, e sono rimasti prigionieri dì quella che chiamano pudicamente «agricoltura familiare». Lungo tutta la BR163 la storia si ripete. Arrivano i «sojeieros» e chiedono loro di andarsene mostrando carte per la proprietà.
L'Incra (istituto nazionale di colonizzazione e riforma agraria) dietro pagamento emette certificati falsi «invecchiati» in un cassetto pieno di grilli. «Questa gente non ha la cultura del denaro», spiega padre Edilberto Sena, infaticabile militante ecologista: «Vendono a prezzo basso, e rimangono senza nemmeno gli attrezzi».
Al 38simo chilometro, Marlène Nascimento de Lima, piange le sue terre perdute: «Mi fa male passarci, ormai ci sono solo campi». All'inizio si era rifiutata di vendere. Ma i «sojeiros» hanno comprato i terreni adiacenti, i pesticidi hanno cacciato gli insetti sulle sue terre, i vicini erano già tutti partiti, e lei ha finito per cedere.
La violenza ha la sua parte in questa conquista. A Pacoval, nel 2004, sono bruciate 25 case. A Corte Corda, due sindacalisti sono stati uccisi. A Santarem, Ivete Bastos, presidente del sindacato dei lavoratori della terra, si è trovata donne con taniche di benzina, pronte a dare fuoco alla casa. Un anziano legionario spagnolo, proprietario di una palestra a Santarem, si vanta di compiere missioni di «pulizia» per i «fazendeiros». La polizia brasiliana irrompe regolarmente nelle grandi tenute per liberare gli schiavi. Vengono attirati in trappola con promesse di salari elevati, ma all'arrivo nella foresta gli viene impedito di ripartire. Nel 2004, l'esercito è intervenuto in 236 aziende, che utilizzavano 6075 lavoratori, di cui 127 bambini. Bunge, Cargill e Amaggi erano in affari con questi coltivatori.
Per agevolare l'espansione della soia le aziende offrono pesticidi e sementi geneticamente modificati. I pesticidi hanno già provocato disastri ecologici. Oggi il 20% della foresta brasiliana è morto. Nonostante la moratoria dal 2006 abbia dato risultati positivi (la deforestazione è scesa del 41%), il 40% dell'Amazzonia potrebbe sparire nei prossimi 20 anni. Il peggio, nel quale sperano Marcello e Patricia, può ancora arrivare, con il boom dei biocarburanti. Già oggi 20 milioni di auto brasiliane vanno a etanolo. Le «flex», a etanolo e benzina, hanno fatto 1’80% delle vendite nel 2005. Si commercializza un «biodiesel» che contiene soja. Si dice che il Brasile sarà l'Arabia Saudita del XXI secolo. Un deserto?
Nel tempo che avete impiegato a leggere questo articolo è stata deforestata un'area pari a 75 campi di calcio.
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