«L’Adriatico è caldo, diventerà una palude»
Corriere della Sera on line del 11 settembre 2007
di Franco Foresta Marin
Gli olandesi proteggono le loro coste con le dighe, l’Italia lo farà, dove possibile, con le dune, imitando la natura che ci aveva abbondantemente fornito di questi sistemi di difesa costieri, da noi sistematicamente distrutti per far posto al cemento. E’ uno dei più originali e promettenti progetti che saranno presentati domani alla prima Conferenza nazionale sul clima, un summit di politici e scienziati convocato dal ministro dell’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio nel tentativo di arginare, con soluzioni pratiche, i crescenti disastri del clima. Uno di questi è l’innalzamento della temperatura dell’Adriatico, che rischia di alterare le correnti di trasformare presto il mare in una «palude salmastra».
PREPARARSI AL PEGGIO — Gli esperti le chiamano «misure di adattamento». In parole semplici vuole dire prepararsi al peggio che ci aspetta nei prossimi decenni a causa dei cambiamenti climatici: erosione e inondazione delle coste, collasso degli ecosistemi, accentuazione del dissesto idrogeologico, perdita di specie animali e vegetali, contraccolpi sulla salute dell’uomo. «Le coste italiane soggette al rischio di erosione sono circa 5.000 km — spiega la dottoressa Edi Valpreda, la geologa dell’Enea che esporrà il progetto dune —. Sono belle spiagge che si affacciano sul Tirreno, sull’Adriatico e sullo Ionio, con tassi di erosione aumentati dagli anni 70 e che ora arrivano a qualche metro l’anno. Oggi i rimedi adottati per proteggere queste spiagge consistono in difese fatte con grossi massi calati amare e in «ripascimenti» realizzati col trasporto, ogni anno, di nuova sabbia per sostituire quella strappata dalle onde: entrambe soluzioni costose e spesso effimere. Le dune studiate e proposte dal Gruppo nazionale per la difesa dell’ambiente costiero, un team di ricercatori di cui fa parte la Valpreda, svolgono la funzione di serbatoi di sabbia, posti a distanza di almeno 20 metri dalla battigia, ricoperti da vegetazione spontanea, che cedono lentamente alla spiaggia quel che il mare sottrae. «Svolgono, in altri termini, la stessa funzione delle dune naturali, formatesi nel corso dei tempi geologici, di cui erano ricche le spiagge italiane e che poi sono state distrutte per far posto a massicciate ferroviarie, passeggiate a mare, stabilimenti — si rammarica la dottoressa Valpreda —. Oggi, di quel patrimonio di cordoni dunari, sopravvivono a stento circa 700 km,molti dei quali in pessime condizioni».
IMPIANTI SPERIMENTALI —Le azioni proposte alla Conferenza dal Gruppo di difesa dell’ambiente sono la salvaguardia delle dune naturali già esistenti, che svolgono un’eccellente funzione di difesa delle spiagge e, parallelamente, l’impianto di nuove dune nei tratti più esposti all’erosione. «Già sono in corso alcune sperimentazioni che hanno dato ottimi risultati nel delta del Po, vicino a Goro, e nei pressi di Ravenna — informa la Valpreda —. Se dovessi scegliere suggerirei altri interventi presso le foci dei fiumi del Molise, particolarmente aggredite dall’erosione, e nella Basilicata Ionica. Gli interventi, in ogni caso, devono essere circoscritti a quei circa 2.000 km di spiagge ancora libere da insediamenti umani, in quanto l’impianto di dune artificiali non è compatibile con la presenza di costruzioni».
ALLARME ADRIATICO —Alla Conferenza i ricercatori dell’Icram, l’Istituto per la ricerca sul mare, lanceranno un allarme per le preoccupanti condizioni fisiche dell’Adriatico, un bacino in cui ormai si registra un aumento di 2 gradi anche nei mesi invernali e fino a 100 metri di profondità. L’anomalia ha già interrotto la corrente del Golfo di Trieste, un flusso che contribuisce al rimescolamento delle acque dell’intero Mediterraneo e la cui prolungata assenza comporterebbe rischi gravi per l'intera catena alimentare marina. «Senza questa corrente che si m u o v e i n d i r e z i o n e Nord-Sud, l’Adriatico si trasformerebbe in una mare fermo e sempre più caldo — ha spiegato il direttore scientifico dell’Icram Silvestro Greco —. Dal Golfo di Trieste fino alla costa pugliese si creerebbe una palude salmastra dove lo scambio di ossigeno si fermerebbe allo strato superficiale, rendendo inabitabile l’ambiente marino. Le prime specie a scomparire sarebbero i pesci e le piante marine tipiche del Golfo di Trieste. E troveremmo nell'Adriatico sempre più mucillagine e alghe assassine.
PIANO NAZIONALE —«Dalla Conferenza dovrà uscire un piano per la sicurezza ambientale dei cittadini e per contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici per il quale ho espressamente chiesto la partecipazione di tutti i ministri—ha dichiarato alla vigilia del summit Pecoraro Scanio —. Il problema riguarda l’intero governo e ognuno deve fare la sua parte. Le risorse necessarie per i prossimi anni ammontano a circa un miliardo e sono già inserite in un capitolo del Dpef che prevede l’attuazione del Protocollo di Kyoto per la riduzione dei gas serra e varie misure di adattamento nei settori del dissesto idrogeologico, biodiversità, parchi e precariato».
Corriere della Sera on line del 11 settembre 2007
di Franco Foresta Marin
Gli olandesi proteggono le loro coste con le dighe, l’Italia lo farà, dove possibile, con le dune, imitando la natura che ci aveva abbondantemente fornito di questi sistemi di difesa costieri, da noi sistematicamente distrutti per far posto al cemento. E’ uno dei più originali e promettenti progetti che saranno presentati domani alla prima Conferenza nazionale sul clima, un summit di politici e scienziati convocato dal ministro dell’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio nel tentativo di arginare, con soluzioni pratiche, i crescenti disastri del clima. Uno di questi è l’innalzamento della temperatura dell’Adriatico, che rischia di alterare le correnti di trasformare presto il mare in una «palude salmastra».
PREPARARSI AL PEGGIO — Gli esperti le chiamano «misure di adattamento». In parole semplici vuole dire prepararsi al peggio che ci aspetta nei prossimi decenni a causa dei cambiamenti climatici: erosione e inondazione delle coste, collasso degli ecosistemi, accentuazione del dissesto idrogeologico, perdita di specie animali e vegetali, contraccolpi sulla salute dell’uomo. «Le coste italiane soggette al rischio di erosione sono circa 5.000 km — spiega la dottoressa Edi Valpreda, la geologa dell’Enea che esporrà il progetto dune —. Sono belle spiagge che si affacciano sul Tirreno, sull’Adriatico e sullo Ionio, con tassi di erosione aumentati dagli anni 70 e che ora arrivano a qualche metro l’anno. Oggi i rimedi adottati per proteggere queste spiagge consistono in difese fatte con grossi massi calati amare e in «ripascimenti» realizzati col trasporto, ogni anno, di nuova sabbia per sostituire quella strappata dalle onde: entrambe soluzioni costose e spesso effimere. Le dune studiate e proposte dal Gruppo nazionale per la difesa dell’ambiente costiero, un team di ricercatori di cui fa parte la Valpreda, svolgono la funzione di serbatoi di sabbia, posti a distanza di almeno 20 metri dalla battigia, ricoperti da vegetazione spontanea, che cedono lentamente alla spiaggia quel che il mare sottrae. «Svolgono, in altri termini, la stessa funzione delle dune naturali, formatesi nel corso dei tempi geologici, di cui erano ricche le spiagge italiane e che poi sono state distrutte per far posto a massicciate ferroviarie, passeggiate a mare, stabilimenti — si rammarica la dottoressa Valpreda —. Oggi, di quel patrimonio di cordoni dunari, sopravvivono a stento circa 700 km,molti dei quali in pessime condizioni».
IMPIANTI SPERIMENTALI —Le azioni proposte alla Conferenza dal Gruppo di difesa dell’ambiente sono la salvaguardia delle dune naturali già esistenti, che svolgono un’eccellente funzione di difesa delle spiagge e, parallelamente, l’impianto di nuove dune nei tratti più esposti all’erosione. «Già sono in corso alcune sperimentazioni che hanno dato ottimi risultati nel delta del Po, vicino a Goro, e nei pressi di Ravenna — informa la Valpreda —. Se dovessi scegliere suggerirei altri interventi presso le foci dei fiumi del Molise, particolarmente aggredite dall’erosione, e nella Basilicata Ionica. Gli interventi, in ogni caso, devono essere circoscritti a quei circa 2.000 km di spiagge ancora libere da insediamenti umani, in quanto l’impianto di dune artificiali non è compatibile con la presenza di costruzioni».
ALLARME ADRIATICO —Alla Conferenza i ricercatori dell’Icram, l’Istituto per la ricerca sul mare, lanceranno un allarme per le preoccupanti condizioni fisiche dell’Adriatico, un bacino in cui ormai si registra un aumento di 2 gradi anche nei mesi invernali e fino a 100 metri di profondità. L’anomalia ha già interrotto la corrente del Golfo di Trieste, un flusso che contribuisce al rimescolamento delle acque dell’intero Mediterraneo e la cui prolungata assenza comporterebbe rischi gravi per l'intera catena alimentare marina. «Senza questa corrente che si m u o v e i n d i r e z i o n e Nord-Sud, l’Adriatico si trasformerebbe in una mare fermo e sempre più caldo — ha spiegato il direttore scientifico dell’Icram Silvestro Greco —. Dal Golfo di Trieste fino alla costa pugliese si creerebbe una palude salmastra dove lo scambio di ossigeno si fermerebbe allo strato superficiale, rendendo inabitabile l’ambiente marino. Le prime specie a scomparire sarebbero i pesci e le piante marine tipiche del Golfo di Trieste. E troveremmo nell'Adriatico sempre più mucillagine e alghe assassine.
PIANO NAZIONALE —«Dalla Conferenza dovrà uscire un piano per la sicurezza ambientale dei cittadini e per contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici per il quale ho espressamente chiesto la partecipazione di tutti i ministri—ha dichiarato alla vigilia del summit Pecoraro Scanio —. Il problema riguarda l’intero governo e ognuno deve fare la sua parte. Le risorse necessarie per i prossimi anni ammontano a circa un miliardo e sono già inserite in un capitolo del Dpef che prevede l’attuazione del Protocollo di Kyoto per la riduzione dei gas serra e varie misure di adattamento nei settori del dissesto idrogeologico, biodiversità, parchi e precariato».
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