l’Unità 14.1.08
Aumentano gli omicidi tra i reduci Usa da Iraq e Afghanistan
ll New York Times: 121 i soldati sotto accusa. Tra le vittime spesso le mogli e i figli
di Roberto Rezzo
PROGRAMMATI per uccidere. Un’inchiesta del New York Times rivela che, da quando l’America è in guerra, il numero di militari incriminati per omicidio è quasi raddoppiato. In sei anni si passa da 184 a 349 casi. Centoventuno i reduci dall’Afghanistan e dall’Iraq. Una sola donna. Segni particolari: giovanissimi. Al momento del crimine molti non avevano compiuto neppure i ventuno anni di età per ordinare legalmente una birra. Due terzi erano in congedo temporaneo. Nessun precedente penale. Delitti efferati perpetrati con armi da fuoco, pugnali. Hanno ammazzato di botte, strangolato, fatto annegare. Venticinque erano alla guida di un’auto strafatti di alcol o di droga. Tredici si sono suicidati, due sono stati uccisi dalla polizia.
La follia omicida colpisce in modo spropositato i familiari. Un terzo delle vittime è rappresentato da mogli, fidanzate, figli o altri parenti. Il caso forse più atroce nell’aprile del 2005 in Texas. Christopher Lewis, un marine di vent’anni tornato senza un piede e con lesioni cerebrali causate da un ordigno esplosivo a Falluja, è a casa convalescente. Quando si accorge che la figlia Krisiauna di due anni s’è fatta la pipì addosso, la solleva di peso e la scaraventa contro il muro. La bambina muore poche ore dopo l’arrivo in ospedale a bordo di un’ambulanza. Un tribunale di Dallas lo ha condannato all’ergastolo il 10 dicembre dello stesso anno. Sotto le feste, il caso ha occupato sette righe in tutto nelle pagine di cronaca nazionale. In un’agghiacciante similitudine cinematografica con le teorie del dottor Lecter ne «Il silenzio degli innocenti», l’assassino tende a colpire chi conosce. I commilitoni costituiscono un altro 25% delle vittime. Richard Davis, soldato scelto, è stato pugnalato a morte da un gruppo di soldati con cui era appena rientrato dall’Iraq in California. Hanno cosparso il cadavere di benzina e lo hanno lasciato bruciare sino a renderlo irriconoscibile prima di abbandonarlo in un bosco. Questa vicenda ha ispirato a Paul Haggis un film interpretato da Susan Sarandon e Tommy Lee Jones: «In the Valley of Elah». Esce il 25 gennaio. Per ora solo in Inghilterra.
C’è una costante in queste tragedie: tutte si consumano per futili motivi. Noah Gamez, un ladruncolo che cercava di portar via un’auto nel parcheggio d’un motel a Tucson, è stato sorpreso da un reduce dall’Iraq, probabilmente ubriaco. Il soldato lo ha immediatamente freddato con un revolver. Ha guidato fino a San Diego e quindi s’è sparato un colpo alla tempia. La polizia gli ha trovato un arsenale nel bagagliaio. Avevano entrambi ventuno anni.
Il Pentagono non compila statistiche sugli omicidi compiuti dai veterani di guerra. La maggior parte dei processi si svolge in tribunali civili a livello statale. Dati ufficiali non disponibili neppure al Dipartimento di Giustizia di Washington. I vertici militari hanno contestato le modalità con cui il New York Times ha condotto l’inchiesta. «Parlare di un incremento degli omicidi commessi dai militari basandosi su notizie di stampa è del tutto arbitrario. Credo piuttosto che dopo l’11 settembre siano i media a occuparsi di più dei militari», sono le parole del colonnello Les Melnyk. Una teoria interessante, ma a guardare la documentazione disponibile salta fuori che questi crimini sono aumentati dell’89% dall’inizio della guerra in Afghanistan. E il New York Times avverte che si tratta probabilmente di un conteggio per difetto.
Non è solo il governo a stendere una cortina di silenzio. Anche le organizzazioni dei veterani sono solite deprecare l’attenzione dei media per la minoranza di soldati che fallisce il reinserimento nella vita civile. Un atteggiamento che sta cambiando di fronte alla crescente sensazione di abbandono da parte delle istituzioni vissuta dai reduci. La quasi totalità dei veterani trasformatisi in killer al rientro dalle operazioni di combattimento non è stata sottoposta a nessuna seria visita psichiatrica, nonostante dalle cartelle cliniche risultassero traumi cranici o altri evidenti sintomi di anomalie comportamentali. In medicina dal 1980 esiste una definizione: Post Traumatic Stress Disorder. Abbreviato in Ptsd, il termine sta diventando familiare in America come il colesterolo alto. Uno studio appena pubblicato da una speciale task force della sanità militare stima ne siano affetti il 38% dei soldati e il 31% dei marine. E il National Vietnam Veterans Readjustment Study rivela che il 15% dei reduci continua a soffrire di Ptsd a distanza di dieci anni dal trauma. Il 34,2% è stato almeno una volta in prigione. Le nuove conoscenze sulla biochimica del cervello e l’ultima generazione di psicofarmaci hanno cambiato poco la situazione dai tempi del Vietnam. Una possibile spiegazione si legge in un libro che parla di omicidi e di mafia a Palermo, «La violenza programmata», di Giorgio Chinnici e Umberto Santino. «L'incremento della criminalità che segue la guerra è invece da connettere alla depressione economica, alle difficoltà di inserimento dei reduci, alla violenza esaltata e praticata durante la guerra, alla più facile reperibilità di armi, alla caduta di tensione degli ideali e alla conseguente frustrazione per i traguardi prospettati e non raggiunti».
Aumentano gli omicidi tra i reduci Usa da Iraq e Afghanistan
ll New York Times: 121 i soldati sotto accusa. Tra le vittime spesso le mogli e i figli
di Roberto Rezzo
PROGRAMMATI per uccidere. Un’inchiesta del New York Times rivela che, da quando l’America è in guerra, il numero di militari incriminati per omicidio è quasi raddoppiato. In sei anni si passa da 184 a 349 casi. Centoventuno i reduci dall’Afghanistan e dall’Iraq. Una sola donna. Segni particolari: giovanissimi. Al momento del crimine molti non avevano compiuto neppure i ventuno anni di età per ordinare legalmente una birra. Due terzi erano in congedo temporaneo. Nessun precedente penale. Delitti efferati perpetrati con armi da fuoco, pugnali. Hanno ammazzato di botte, strangolato, fatto annegare. Venticinque erano alla guida di un’auto strafatti di alcol o di droga. Tredici si sono suicidati, due sono stati uccisi dalla polizia.
La follia omicida colpisce in modo spropositato i familiari. Un terzo delle vittime è rappresentato da mogli, fidanzate, figli o altri parenti. Il caso forse più atroce nell’aprile del 2005 in Texas. Christopher Lewis, un marine di vent’anni tornato senza un piede e con lesioni cerebrali causate da un ordigno esplosivo a Falluja, è a casa convalescente. Quando si accorge che la figlia Krisiauna di due anni s’è fatta la pipì addosso, la solleva di peso e la scaraventa contro il muro. La bambina muore poche ore dopo l’arrivo in ospedale a bordo di un’ambulanza. Un tribunale di Dallas lo ha condannato all’ergastolo il 10 dicembre dello stesso anno. Sotto le feste, il caso ha occupato sette righe in tutto nelle pagine di cronaca nazionale. In un’agghiacciante similitudine cinematografica con le teorie del dottor Lecter ne «Il silenzio degli innocenti», l’assassino tende a colpire chi conosce. I commilitoni costituiscono un altro 25% delle vittime. Richard Davis, soldato scelto, è stato pugnalato a morte da un gruppo di soldati con cui era appena rientrato dall’Iraq in California. Hanno cosparso il cadavere di benzina e lo hanno lasciato bruciare sino a renderlo irriconoscibile prima di abbandonarlo in un bosco. Questa vicenda ha ispirato a Paul Haggis un film interpretato da Susan Sarandon e Tommy Lee Jones: «In the Valley of Elah». Esce il 25 gennaio. Per ora solo in Inghilterra.
C’è una costante in queste tragedie: tutte si consumano per futili motivi. Noah Gamez, un ladruncolo che cercava di portar via un’auto nel parcheggio d’un motel a Tucson, è stato sorpreso da un reduce dall’Iraq, probabilmente ubriaco. Il soldato lo ha immediatamente freddato con un revolver. Ha guidato fino a San Diego e quindi s’è sparato un colpo alla tempia. La polizia gli ha trovato un arsenale nel bagagliaio. Avevano entrambi ventuno anni.
Il Pentagono non compila statistiche sugli omicidi compiuti dai veterani di guerra. La maggior parte dei processi si svolge in tribunali civili a livello statale. Dati ufficiali non disponibili neppure al Dipartimento di Giustizia di Washington. I vertici militari hanno contestato le modalità con cui il New York Times ha condotto l’inchiesta. «Parlare di un incremento degli omicidi commessi dai militari basandosi su notizie di stampa è del tutto arbitrario. Credo piuttosto che dopo l’11 settembre siano i media a occuparsi di più dei militari», sono le parole del colonnello Les Melnyk. Una teoria interessante, ma a guardare la documentazione disponibile salta fuori che questi crimini sono aumentati dell’89% dall’inizio della guerra in Afghanistan. E il New York Times avverte che si tratta probabilmente di un conteggio per difetto.
Non è solo il governo a stendere una cortina di silenzio. Anche le organizzazioni dei veterani sono solite deprecare l’attenzione dei media per la minoranza di soldati che fallisce il reinserimento nella vita civile. Un atteggiamento che sta cambiando di fronte alla crescente sensazione di abbandono da parte delle istituzioni vissuta dai reduci. La quasi totalità dei veterani trasformatisi in killer al rientro dalle operazioni di combattimento non è stata sottoposta a nessuna seria visita psichiatrica, nonostante dalle cartelle cliniche risultassero traumi cranici o altri evidenti sintomi di anomalie comportamentali. In medicina dal 1980 esiste una definizione: Post Traumatic Stress Disorder. Abbreviato in Ptsd, il termine sta diventando familiare in America come il colesterolo alto. Uno studio appena pubblicato da una speciale task force della sanità militare stima ne siano affetti il 38% dei soldati e il 31% dei marine. E il National Vietnam Veterans Readjustment Study rivela che il 15% dei reduci continua a soffrire di Ptsd a distanza di dieci anni dal trauma. Il 34,2% è stato almeno una volta in prigione. Le nuove conoscenze sulla biochimica del cervello e l’ultima generazione di psicofarmaci hanno cambiato poco la situazione dai tempi del Vietnam. Una possibile spiegazione si legge in un libro che parla di omicidi e di mafia a Palermo, «La violenza programmata», di Giorgio Chinnici e Umberto Santino. «L'incremento della criminalità che segue la guerra è invece da connettere alla depressione economica, alle difficoltà di inserimento dei reduci, alla violenza esaltata e praticata durante la guerra, alla più facile reperibilità di armi, alla caduta di tensione degli ideali e alla conseguente frustrazione per i traguardi prospettati e non raggiunti».
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