lunedì 7 gennaio 2008

Camerun La battaglia al cibo globale

Camerun La battaglia al cibo globale
La Repubblica del 7 gennaio 2008, pag. 27

di Giampaolo Visetti

La luce, per Bernard Njonga, si è accesa grazie alle cosce. Aveva riflettuto lungamente su quei muscoletti di carne bianca, pro­tetti da succosa pelle gialla. Poi, un sabato mattina di tre anni fa, è salito su un secchio rovesciato nel mercato di Mokolò, sconfinato, brulicante di gente e violentissimo. «Quelle cosce — ha urlato ai divertiti venditori di polli — devono sparire». È iniziata così l'ultima guerra d'indipendenza del Camerun: contro il capita­lismo globalizzato dell'Occidente e contro la corruzione che tiene in ostag­gio l'Africa Nera. Adesso, dopo la vittoria, l'eroe delle cosce nostrane è tor­nato tra la sua gente. Non è più un anonimo funzionario del sindacato dei contadini. Lascia l'ufficio dietro la stazione dei treni di Yaoundé su una jeep nera. Gira scortato, ha due segretarie attaccate al telefono. Sul piazzale del Marché Madagascar, invaso da baccelli di cacao, con sei carriole gli hanno arrangiato un palco. Un ragazzo con una scarpa da ginnastica in testa ar­meggia con il microfono. Un altro tiene sul capo, miracolosamente in equi­librio, quattro secchi pieni di carne d'istrice affumicata, pane, latte e papaye a spicchi. Incita la folla e regola le danze propiziatorie di tre sfiniti stregoni. Dalla polvere salgono vapori arroventati. Ad un cenno della mano di Njon­ga, si sparge il silenzio. «Non siamo la pattumiera dell'Europa — grida —. Dobbiamo unirci per ricostruire la nostra economia e la nostra indipen­denza alimentare. Lottiamo contro la globalizzazione: in Africa vuole Stati deboli, per manovrarli come burattini, comprando ministri e presidenti».



Queste parole piac­ciono molto. La massa di poveri, per assentire, ondeggia freneticamente i fianchi: ride e applaude. «Ancora, Bernard — canta — dillo ancora». Sale sulle carriole un bianco. Agita la ma­niglia di una valigia, l'unica cosa che non gli hanno rubato. Lo ti­rano giù di peso e riprendono le invocazioni. Njonga è costretto a ripetere il comizio, parola per parola. Due, tre volte. E ancora. Dalle cosce di pollo passa alla «sete di democrazia». «Siamo sempre più poveri — dice — per­ché spogliati da cinici predatori. Nessuno si occupa davvero di noi». Un'orchestra fa scoppiare una makossa clamorosa. Le venditrici di pesce arrosto, enor­mi e gelatinose, travolgono bal­lando i banchi della tapioca. Il discorso finisce all'istante. Njonga viene portato in spalla a verificare il nuovo scandalo. Sacchi di riso da Cina, Vietnam e Thailandia. Cipolle dall'Olanda. Mais dagli Usa. Pomodori dalla Turchia. Pesce dalla Danimar­ca. Scatolame scaduto dall'Eu­ropa. Vestiti e scarpe ancora dal­la Cina. Costano poco, valgono meno. Nel mercato, di africano, non restano che ananas, man­ghi, tuberi. Agricoltori e artigia­ni camerunesi non resistono al­la concorrenza. Abbandonano campi e villaggi, chiudono. In­grossano le baraccopoli che as­sediano Yaoundè e Duala. E adesso sperano in un altro mira­colo di Bernard.



Sul Golfo di Guinea si consuma l'ennesima lotta per la sopravvi­venza. La «battaglia delle cosce» è esemplare. I consumatori di Eu­ropa e America, del pollo, voglio­no solo il petto. Settanta centesi­mi al chilo: venduto il filetto, il produttore è a posto. Il resto, in­vendibile in Occidente, va a chi paga l'equivalente del costo di di­struzione. È così che ogni pollo esplode e diventa globale. Le zam­pe finiscono in Thailandia, le vi­scere nell'ex Urss, le ali in Cina, la cresta in Vietnam, il petto in Usa e Ue. Le cosce invadono Africa, Messico e Giappone.



La domanda modella i pennuti. Tre aziende europee, in Olanda e Germania, si spartiscono il mer­cato grazie ad una bestia geneti­camente modificata. Il modello «Ross 708», fornito con manuale per la crescita hi-tech, sviluppa un abnorme petto da tacchino. Il re­sto è atrofico. Matura in un mese: un chilo e 600 grammi di mangime si trasforma in un chilo di carne.



Per il Camerun e l'Africa centrale è stata la catastrofe. Navi di fuselli surgelati hanno sommerso i bido­ni della benzina, trasformati in profumate griglie ad ogni angolo di strada. Dall'oggi al domani le galline vive, vendute in gabbia, so­no scomparse dai mercati.



Allevatori come Fridolin Mvogo di Sangmelimà, che aveva ap­pena comprato duemila pulcini, sono falliti. «Ho scaricato i polla­stri davanti al palazzo presiden­ziale — dice — poi ho appiccato il fuoco. Fumo, starnazzi e odore di bruciato hanno fatto accorrere gli abitanti della giungla. Dalla presi­denza non è uscita nemmeno la donna dei bagni». Il rogo ha avver­tito i camerunesi che si stava spe­gnendo la loro possibilità di so­pravvivere. È allora che è interve­nuto Njonga.



Ha fondato l'Associazione civi­ca per la difesa degli interessi col­lettivi. Con 7 mila euro, racimola­ti con una colletta tra 14 mila con­tadini, ha corrotto un doganiere di Duala. Ha scoperto chi esporta dall'Europa le cosce surgelate, chi le importa a tonnellate in Came­run, falsificando i documenti. Alla voce provenienza si legge: «Mare aperto». Ma soprattutto l'Istituto Pasteur della capitale, nonostan­te minacce politiche e sparizioni di documenti, ha certificato che l'83,5% del pollo Ue scaricato in Africa «non è adatto al consumo umano». Carne avariata, traspor­tata senza celle-frigo. Per la prima volta la denuncia di un cittadino africano ha avuto conseguenze. Il presidente Paul Biya, dittatore al potere da 27 anni, è stato costret­to a cacciare il ministro dell'agri­coltura e ad arrestare un pugno di funzionari.



Non che abbia a cuore le condi­zioni del suo popolo: è che, ogni tanto, un isolato gesto populista rafforza il regime. Il principale im­portatore locale ha ripiegato sul pesce. Una petizione popolare per «regole nuove in agricoltura e contro l'Organizzazione mondia­le del commercio» ha raccolto ol­tre 1 milione di firme. Il governo ha posto il dazio sui polli europei e brasiliani, fissato un tetto alle im­portazioni, levato l'Iva agli alleva­tori camerunesi. Le «ziette» dei chioschi di «galletto alla direttore generale», come certificato di ge­nuinità ora sistemano le piume nei piatti. Le cosce surgelate made in Ue fanno rotta sul Ghana, dove è crollata la produzione di manzi. Le accolgono però i manifesti in­viati dai camerunesi: una gallina bianca, un teschio nero, una scrit­ta rossa che avverte «Pericolo di morte». Da Yaoundè, in attesa del­le presidenziali del 2011, la lotta si sposta invece nei villaggi in mise­ria, nella foresta rubata alle tribù pigmee dalle industrie del legna­me. Europa e Oriente, con navi di scarti agricoli e alimentari, deci­mano le piantagioni locali di ce­reali, ortaggi e frutta.



Il ketchup è un simbolo. Da quando è arrivato, nerastro e cristalizzato, nessuno coltiva più pomodori. Migliaia i contadini alla fame. «Il 70 per cento del Paese — dice il cardinale Christian Turni, unica voce critica, coraggiosa e rispettata — vive di agricoltura, co­me tutta l'Africa. È un fatto essen­ziale: per svilupparsi, il continen­te deve potersi sfamare da solo. Per questo le spinte democratiche non possono che partire dalla ter­ra. Il problema è che manca lo Sta­to. Il potere non pensa alla gente. Accumula tesori all'estero. Ognu­no è costretto ad arrangiarsi. La corruzione è un sistema di vita: ma a riempire le tasche dei nostri dittatori, non dimentichiamolo, è l'Occidente».



Un labirinto senza uscita, in Camerun. L'Europa paga il governo, svuota i propri magazzini, devasta le produzioni locali e affama la nazione. Poi invia gli aiuti umanitari, ultimo stadio delle nostre ecce­denze. La nomenclatura incassa ancora, la gente smette di lavora­re, le periferie delle città crescono come lager infernali, il territorio resta deserto. È allora che il potere si mette in affari, preferibilmente con Cina, Usa e Francia. La meravigliosa foresta equatoriale, al Sud e nell'Ovest, è pressoché consu­mata. False licenze e finte concessioni, con timbri ufficiali, autoriz­zano devastazioni senza limiti. «Se paghi le persone giuste — am­mette uno dei tredici commer­cianti italiani che esportano il 33% del legname centrafricano — puoi abbattere le essenze che vuoi, do­ve ti pare e nella quantità che ti serve». È lo schema applicato per il petrolio della penisola di Bakassi, o nei nuovi giacimenti di oro. «Fra dieci anni — dice il leader sto­rico dell'opposizione, John Fru-Ndi — saremo un sacco vuoto.



Abbiamo perso il treno dell'e­ducazione, della cultura e dell'i­struzione: lo sviluppo è paralizzato». A Yaoundé, fino al 1985 capi­tale dello Stato più ricco e avanza­to dell'Africa nera, è rimasto un solo primato: dominare il Paese più corrotto del mondo, davanti a Bangladesh e Nigeria. Un mini­stro ufficialmente guadagna 600 euro al mese. Dopo quattro anni però fa vivere di rendita, in Fran­cia o in Svizzera, tutto il suo clan. Il 65% dei fondi internazionali per farmaci, ospedali e scuole, scom­pare nelle tasche dei funzionari che li gestiscono. La metà degli adolescenti, abbandonata, vive per strada. Ngonò, 12 anni, fa la prostituta a Kribì. Per 80 centesi­mi si vende sulla spiaggia che argi­na l'oceano Atlantico. Il fratello la porta al lavoro in piroga, prima di andare a recitare come «pigmeo selvaggio» oltre le cascate di Lobè. Guadagnare è sempre più diffici­le. Gruppi di prostitute cinesi si of­frono per 40 centesimi. Un alber­go promuove le stanze con la foto delle ragazze incollate sul porta­chiavi: «Mi trovi sul letto — si leg­ge — 24 ore su 24». Nel giorno li­bero le schiave si intossicano an­nusando colla. Oppure si droga­no. Prendono una baguette fresca e la infilano nel tubo di scappa­mento di un camion. Quando è ben impregnata di biossido di car­bonio, se la mangiano.



Ufficialmente è sieropositivo un camerunese su venti. La realtà è che oltre il 10% muore di Aids. Dei 43 mila bambini infet­ti, la metà non arriva ai due anni. I farmaci sono disponibili per uno su dieci.



Per le femmine crescere è un incubo. Chi non viene venduta come sposa a 9 anni, è sottoposta alla stiratura dei seni. Una tortu­ra atroce. La madre, o i cugini mi­nori, strofinano pietre incande­scenti sul torace per arrestare lo sviluppo delle mammelle.



Con bucce e spatole di legno in­fuocato, bruciano le ghiandole mammarie. Nel nord musulma­no vengono usate le camere d'a­ria delle biciclette. Le madri sono convinte che in questo modo le figlie non solleticheranno troppo presto gli appetiti dei maschi. «Per sei mesi — dice Yvonne Nfor nell'ospedale di Limbe — sono stata ustionata con un mattone. Mia mamma diceva di dover sra­dicare il nocciolo. Alla fine sono scappata da uno zio, che mi ha violentato. Nonostante le cicatri­ci, quando a 11 anni sono rimasta incinta, mi sono esplosi due seni giganteschi».



Il 58% delle bambine cameru­nesi è vittima di tali sevizie. La sti­ratura dei seni innesca insupera­bili traumi psicologici. Chi si op­pone è espulso dalla famiglia. Co­me il piccolo Atanganà, che non ha voluto appiattire la sorella. Accusato di essere posseduto da spi­riti malvagi, dopo la morte del pa­dre non ha più avuto diritto al cibo ed è stato scacciato. «Quando è nato — assicura la nonna — sono andato a vederlo. Sul letto mi è ap­parso un vecchio con un libro in mano». Atanganà adesso ha otto anni e possiede una carriola. Sca­rica plantani, arachidi e semi di cola nel Marché General di Yaoundé. Per tre ore al giorno af­fitta la carriola ad un altro bambi­no, che trasporta carne di cane, gatto e serpente in un ristorante. A sua volta questo, per un'ora, su­baffitta il mezzo ad un amico che distribuisce vino di palma ai commercianti.



Il rifiuto di un rito crudele sfa­ma tre bambini di strada. Per la maggioranza, però, il destino è spietato.



L'approdo maledetto è il car­cere della capitale. Migliaia di ra­gazzi, affamati, finiscono qui per stupri, omicidi, rapine, furti. In Camerun la tariffa di un killer è 50 euro, trattabili.



In cella non c'è acqua, un sec­chio da muratore fa da latrina per trecento. Malaria e tubercolosi provvedono dove falliscono le guardie. Chi paga viene appeso per le mani e pestato come un sacco da pugile. Quelli che non possono, finiscono dal «sarto». La domanda è: «Pantaloni o mu­tande»? Poi viene amputato il piede, o la gamba. Due straordinari missionari cattolici non si rassegnano all'inferno.



Maurizio Bezzi vive con dete­nuti e ragazzi di strada. Sergio Janeselli sta con ciechi, sordomuti, handicappati e vittime della poliomelite. Un'oasi di dignità e co­raggio nel deserto di una Chiesa ossequiosa e spesso complice del regime. Vescovi e preti hanno la precedenza, tra la generosa clien­tela di stregoni, ciarlatani e mi­nacciosi guaritori animisti. «Tra­dizioni e usi di 252 tribù —dice Jacob Kotcho, uno dei capi del mo­vimento per la difesa dei cittadi­ni — formano un intrico incredi­bilmente complicato e misterio­so. L'essenza del Camerun si na­sconde nella sua varietà. La vio­lenza del nuovo potere africano, il pensiero europeo, hanno biso­gno invece di certezze elementa­ri, dove sia chiaro un interesse finanziario personale».



La guerra alle cosce di pollo Ue, la lotta per salvare brandelli della foresta dei pigmei, per affermare i diritti delle donne, per sottrarre alla violenza bambini e dissidenti, cominciano però a non essere più campagne isolate. Nelle baracche delle città e sotto le capanne di campagna, i poveri discutono sempre meno di pace e indipen­denza. Oggi parlano di democrazia e sviluppo. Mettono sotto ac­cusa gli inamovibili, miliardari autocrati africani appoggiati da Occidente e Cina. A Yauondè i sostenitori del «pollo con le piume» sono diventati la «Generazione 2011», termine costituzionale del regno di Paul Biya. Sognano la fine degli eroi post-coloniali, ridotti a servi arricchiti degli antichi pa­droni. Dal 1960, anno della deco­lonizzazione e dell'ascesa di Ahmadou Ahidjo, è la prima volta che un movimento civile non naufra­ga subito nelle risse etniche tra bamilekè, fulani, choa e kotoko. «Il nostro destino — dice Turni — non è una ineluttabile condanna. Forse cominciamo a capire la for­za rivoluzionaria, politica, che na­sce dal riconoscere il valore di ogni vita umana».



Questa sera Bernard Njonga ce­na con i pastori di Maga, nascosto nella profondità del parco di Waza. La tenebra è assoluta, più del silenzio. Soffia il vapore del Sahel, calmo e saggio, come infine un amore. Il carbone abbrustolisce termiti e serpente dolce. Il capo tribù chiede perché la pelle di ca­pra, cucita intera per conservare l'acqua, non si venda più ai mer­canti del Ciad. Ascolta pensieroso la storia delle cosce di pollo, rispe­dite «al di là del mare». Vorrebbe lottare anche per le sue otri di cuoio, contro le taniche di plasti­ca. Ma Njonga dice che il globo non è più piccolo: è diventato grande, infinito. E il Camerun de­ve sapere «che il mondo si dilata ogni giorno e ci scappa ancora». L'Africa Nera non si illude più: adesso sente che sarà impossibile conoscere e capire tutto quel che compone l'esistenza in un villag­gio di sette miliardi di persone.

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