Camerun La battaglia al cibo globale
La Repubblica del 7 gennaio 2008, pag. 27
di Giampaolo Visetti
La luce, per Bernard Njonga, si è accesa grazie alle cosce. Aveva riflettuto lungamente su quei muscoletti di carne bianca, protetti da succosa pelle gialla. Poi, un sabato mattina di tre anni fa, è salito su un secchio rovesciato nel mercato di Mokolò, sconfinato, brulicante di gente e violentissimo. «Quelle cosce — ha urlato ai divertiti venditori di polli — devono sparire». È iniziata così l'ultima guerra d'indipendenza del Camerun: contro il capitalismo globalizzato dell'Occidente e contro la corruzione che tiene in ostaggio l'Africa Nera. Adesso, dopo la vittoria, l'eroe delle cosce nostrane è tornato tra la sua gente. Non è più un anonimo funzionario del sindacato dei contadini. Lascia l'ufficio dietro la stazione dei treni di Yaoundé su una jeep nera. Gira scortato, ha due segretarie attaccate al telefono. Sul piazzale del Marché Madagascar, invaso da baccelli di cacao, con sei carriole gli hanno arrangiato un palco. Un ragazzo con una scarpa da ginnastica in testa armeggia con il microfono. Un altro tiene sul capo, miracolosamente in equilibrio, quattro secchi pieni di carne d'istrice affumicata, pane, latte e papaye a spicchi. Incita la folla e regola le danze propiziatorie di tre sfiniti stregoni. Dalla polvere salgono vapori arroventati. Ad un cenno della mano di Njonga, si sparge il silenzio. «Non siamo la pattumiera dell'Europa — grida —. Dobbiamo unirci per ricostruire la nostra economia e la nostra indipendenza alimentare. Lottiamo contro la globalizzazione: in Africa vuole Stati deboli, per manovrarli come burattini, comprando ministri e presidenti».
Queste parole piacciono molto. La massa di poveri, per assentire, ondeggia freneticamente i fianchi: ride e applaude. «Ancora, Bernard — canta — dillo ancora». Sale sulle carriole un bianco. Agita la maniglia di una valigia, l'unica cosa che non gli hanno rubato. Lo tirano giù di peso e riprendono le invocazioni. Njonga è costretto a ripetere il comizio, parola per parola. Due, tre volte. E ancora. Dalle cosce di pollo passa alla «sete di democrazia». «Siamo sempre più poveri — dice — perché spogliati da cinici predatori. Nessuno si occupa davvero di noi». Un'orchestra fa scoppiare una makossa clamorosa. Le venditrici di pesce arrosto, enormi e gelatinose, travolgono ballando i banchi della tapioca. Il discorso finisce all'istante. Njonga viene portato in spalla a verificare il nuovo scandalo. Sacchi di riso da Cina, Vietnam e Thailandia. Cipolle dall'Olanda. Mais dagli Usa. Pomodori dalla Turchia. Pesce dalla Danimarca. Scatolame scaduto dall'Europa. Vestiti e scarpe ancora dalla Cina. Costano poco, valgono meno. Nel mercato, di africano, non restano che ananas, manghi, tuberi. Agricoltori e artigiani camerunesi non resistono alla concorrenza. Abbandonano campi e villaggi, chiudono. Ingrossano le baraccopoli che assediano Yaoundè e Duala. E adesso sperano in un altro miracolo di Bernard.
Sul Golfo di Guinea si consuma l'ennesima lotta per la sopravvivenza. La «battaglia delle cosce» è esemplare. I consumatori di Europa e America, del pollo, vogliono solo il petto. Settanta centesimi al chilo: venduto il filetto, il produttore è a posto. Il resto, invendibile in Occidente, va a chi paga l'equivalente del costo di distruzione. È così che ogni pollo esplode e diventa globale. Le zampe finiscono in Thailandia, le viscere nell'ex Urss, le ali in Cina, la cresta in Vietnam, il petto in Usa e Ue. Le cosce invadono Africa, Messico e Giappone.
La domanda modella i pennuti. Tre aziende europee, in Olanda e Germania, si spartiscono il mercato grazie ad una bestia geneticamente modificata. Il modello «Ross 708», fornito con manuale per la crescita hi-tech, sviluppa un abnorme petto da tacchino. Il resto è atrofico. Matura in un mese: un chilo e 600 grammi di mangime si trasforma in un chilo di carne.
Per il Camerun e l'Africa centrale è stata la catastrofe. Navi di fuselli surgelati hanno sommerso i bidoni della benzina, trasformati in profumate griglie ad ogni angolo di strada. Dall'oggi al domani le galline vive, vendute in gabbia, sono scomparse dai mercati.
Allevatori come Fridolin Mvogo di Sangmelimà, che aveva appena comprato duemila pulcini, sono falliti. «Ho scaricato i pollastri davanti al palazzo presidenziale — dice — poi ho appiccato il fuoco. Fumo, starnazzi e odore di bruciato hanno fatto accorrere gli abitanti della giungla. Dalla presidenza non è uscita nemmeno la donna dei bagni». Il rogo ha avvertito i camerunesi che si stava spegnendo la loro possibilità di sopravvivere. È allora che è intervenuto Njonga.
Ha fondato l'Associazione civica per la difesa degli interessi collettivi. Con 7 mila euro, racimolati con una colletta tra 14 mila contadini, ha corrotto un doganiere di Duala. Ha scoperto chi esporta dall'Europa le cosce surgelate, chi le importa a tonnellate in Camerun, falsificando i documenti. Alla voce provenienza si legge: «Mare aperto». Ma soprattutto l'Istituto Pasteur della capitale, nonostante minacce politiche e sparizioni di documenti, ha certificato che l'83,5% del pollo Ue scaricato in Africa «non è adatto al consumo umano». Carne avariata, trasportata senza celle-frigo. Per la prima volta la denuncia di un cittadino africano ha avuto conseguenze. Il presidente Paul Biya, dittatore al potere da 27 anni, è stato costretto a cacciare il ministro dell'agricoltura e ad arrestare un pugno di funzionari.
Non che abbia a cuore le condizioni del suo popolo: è che, ogni tanto, un isolato gesto populista rafforza il regime. Il principale importatore locale ha ripiegato sul pesce. Una petizione popolare per «regole nuove in agricoltura e contro l'Organizzazione mondiale del commercio» ha raccolto oltre 1 milione di firme. Il governo ha posto il dazio sui polli europei e brasiliani, fissato un tetto alle importazioni, levato l'Iva agli allevatori camerunesi. Le «ziette» dei chioschi di «galletto alla direttore generale», come certificato di genuinità ora sistemano le piume nei piatti. Le cosce surgelate made in Ue fanno rotta sul Ghana, dove è crollata la produzione di manzi. Le accolgono però i manifesti inviati dai camerunesi: una gallina bianca, un teschio nero, una scritta rossa che avverte «Pericolo di morte». Da Yaoundè, in attesa delle presidenziali del 2011, la lotta si sposta invece nei villaggi in miseria, nella foresta rubata alle tribù pigmee dalle industrie del legname. Europa e Oriente, con navi di scarti agricoli e alimentari, decimano le piantagioni locali di cereali, ortaggi e frutta.
Il ketchup è un simbolo. Da quando è arrivato, nerastro e cristalizzato, nessuno coltiva più pomodori. Migliaia i contadini alla fame. «Il 70 per cento del Paese — dice il cardinale Christian Turni, unica voce critica, coraggiosa e rispettata — vive di agricoltura, come tutta l'Africa. È un fatto essenziale: per svilupparsi, il continente deve potersi sfamare da solo. Per questo le spinte democratiche non possono che partire dalla terra. Il problema è che manca lo Stato. Il potere non pensa alla gente. Accumula tesori all'estero. Ognuno è costretto ad arrangiarsi. La corruzione è un sistema di vita: ma a riempire le tasche dei nostri dittatori, non dimentichiamolo, è l'Occidente».
Un labirinto senza uscita, in Camerun. L'Europa paga il governo, svuota i propri magazzini, devasta le produzioni locali e affama la nazione. Poi invia gli aiuti umanitari, ultimo stadio delle nostre eccedenze. La nomenclatura incassa ancora, la gente smette di lavorare, le periferie delle città crescono come lager infernali, il territorio resta deserto. È allora che il potere si mette in affari, preferibilmente con Cina, Usa e Francia. La meravigliosa foresta equatoriale, al Sud e nell'Ovest, è pressoché consumata. False licenze e finte concessioni, con timbri ufficiali, autorizzano devastazioni senza limiti. «Se paghi le persone giuste — ammette uno dei tredici commercianti italiani che esportano il 33% del legname centrafricano — puoi abbattere le essenze che vuoi, dove ti pare e nella quantità che ti serve». È lo schema applicato per il petrolio della penisola di Bakassi, o nei nuovi giacimenti di oro. «Fra dieci anni — dice il leader storico dell'opposizione, John Fru-Ndi — saremo un sacco vuoto.
Abbiamo perso il treno dell'educazione, della cultura e dell'istruzione: lo sviluppo è paralizzato». A Yaoundé, fino al 1985 capitale dello Stato più ricco e avanzato dell'Africa nera, è rimasto un solo primato: dominare il Paese più corrotto del mondo, davanti a Bangladesh e Nigeria. Un ministro ufficialmente guadagna 600 euro al mese. Dopo quattro anni però fa vivere di rendita, in Francia o in Svizzera, tutto il suo clan. Il 65% dei fondi internazionali per farmaci, ospedali e scuole, scompare nelle tasche dei funzionari che li gestiscono. La metà degli adolescenti, abbandonata, vive per strada. Ngonò, 12 anni, fa la prostituta a Kribì. Per 80 centesimi si vende sulla spiaggia che argina l'oceano Atlantico. Il fratello la porta al lavoro in piroga, prima di andare a recitare come «pigmeo selvaggio» oltre le cascate di Lobè. Guadagnare è sempre più difficile. Gruppi di prostitute cinesi si offrono per 40 centesimi. Un albergo promuove le stanze con la foto delle ragazze incollate sul portachiavi: «Mi trovi sul letto — si legge — 24 ore su 24». Nel giorno libero le schiave si intossicano annusando colla. Oppure si drogano. Prendono una baguette fresca e la infilano nel tubo di scappamento di un camion. Quando è ben impregnata di biossido di carbonio, se la mangiano.
Ufficialmente è sieropositivo un camerunese su venti. La realtà è che oltre il 10% muore di Aids. Dei 43 mila bambini infetti, la metà non arriva ai due anni. I farmaci sono disponibili per uno su dieci.
Per le femmine crescere è un incubo. Chi non viene venduta come sposa a 9 anni, è sottoposta alla stiratura dei seni. Una tortura atroce. La madre, o i cugini minori, strofinano pietre incandescenti sul torace per arrestare lo sviluppo delle mammelle.
Con bucce e spatole di legno infuocato, bruciano le ghiandole mammarie. Nel nord musulmano vengono usate le camere d'aria delle biciclette. Le madri sono convinte che in questo modo le figlie non solleticheranno troppo presto gli appetiti dei maschi. «Per sei mesi — dice Yvonne Nfor nell'ospedale di Limbe — sono stata ustionata con un mattone. Mia mamma diceva di dover sradicare il nocciolo. Alla fine sono scappata da uno zio, che mi ha violentato. Nonostante le cicatrici, quando a 11 anni sono rimasta incinta, mi sono esplosi due seni giganteschi».
Il 58% delle bambine camerunesi è vittima di tali sevizie. La stiratura dei seni innesca insuperabili traumi psicologici. Chi si oppone è espulso dalla famiglia. Come il piccolo Atanganà, che non ha voluto appiattire la sorella. Accusato di essere posseduto da spiriti malvagi, dopo la morte del padre non ha più avuto diritto al cibo ed è stato scacciato. «Quando è nato — assicura la nonna — sono andato a vederlo. Sul letto mi è apparso un vecchio con un libro in mano». Atanganà adesso ha otto anni e possiede una carriola. Scarica plantani, arachidi e semi di cola nel Marché General di Yaoundé. Per tre ore al giorno affitta la carriola ad un altro bambino, che trasporta carne di cane, gatto e serpente in un ristorante. A sua volta questo, per un'ora, subaffitta il mezzo ad un amico che distribuisce vino di palma ai commercianti.
Il rifiuto di un rito crudele sfama tre bambini di strada. Per la maggioranza, però, il destino è spietato.
L'approdo maledetto è il carcere della capitale. Migliaia di ragazzi, affamati, finiscono qui per stupri, omicidi, rapine, furti. In Camerun la tariffa di un killer è 50 euro, trattabili.
In cella non c'è acqua, un secchio da muratore fa da latrina per trecento. Malaria e tubercolosi provvedono dove falliscono le guardie. Chi paga viene appeso per le mani e pestato come un sacco da pugile. Quelli che non possono, finiscono dal «sarto». La domanda è: «Pantaloni o mutande»? Poi viene amputato il piede, o la gamba. Due straordinari missionari cattolici non si rassegnano all'inferno.
Maurizio Bezzi vive con detenuti e ragazzi di strada. Sergio Janeselli sta con ciechi, sordomuti, handicappati e vittime della poliomelite. Un'oasi di dignità e coraggio nel deserto di una Chiesa ossequiosa e spesso complice del regime. Vescovi e preti hanno la precedenza, tra la generosa clientela di stregoni, ciarlatani e minacciosi guaritori animisti. «Tradizioni e usi di 252 tribù —dice Jacob Kotcho, uno dei capi del movimento per la difesa dei cittadini — formano un intrico incredibilmente complicato e misterioso. L'essenza del Camerun si nasconde nella sua varietà. La violenza del nuovo potere africano, il pensiero europeo, hanno bisogno invece di certezze elementari, dove sia chiaro un interesse finanziario personale».
La guerra alle cosce di pollo Ue, la lotta per salvare brandelli della foresta dei pigmei, per affermare i diritti delle donne, per sottrarre alla violenza bambini e dissidenti, cominciano però a non essere più campagne isolate. Nelle baracche delle città e sotto le capanne di campagna, i poveri discutono sempre meno di pace e indipendenza. Oggi parlano di democrazia e sviluppo. Mettono sotto accusa gli inamovibili, miliardari autocrati africani appoggiati da Occidente e Cina. A Yauondè i sostenitori del «pollo con le piume» sono diventati la «Generazione 2011», termine costituzionale del regno di Paul Biya. Sognano la fine degli eroi post-coloniali, ridotti a servi arricchiti degli antichi padroni. Dal 1960, anno della decolonizzazione e dell'ascesa di Ahmadou Ahidjo, è la prima volta che un movimento civile non naufraga subito nelle risse etniche tra bamilekè, fulani, choa e kotoko. «Il nostro destino — dice Turni — non è una ineluttabile condanna. Forse cominciamo a capire la forza rivoluzionaria, politica, che nasce dal riconoscere il valore di ogni vita umana».
Questa sera Bernard Njonga cena con i pastori di Maga, nascosto nella profondità del parco di Waza. La tenebra è assoluta, più del silenzio. Soffia il vapore del Sahel, calmo e saggio, come infine un amore. Il carbone abbrustolisce termiti e serpente dolce. Il capo tribù chiede perché la pelle di capra, cucita intera per conservare l'acqua, non si venda più ai mercanti del Ciad. Ascolta pensieroso la storia delle cosce di pollo, rispedite «al di là del mare». Vorrebbe lottare anche per le sue otri di cuoio, contro le taniche di plastica. Ma Njonga dice che il globo non è più piccolo: è diventato grande, infinito. E il Camerun deve sapere «che il mondo si dilata ogni giorno e ci scappa ancora». L'Africa Nera non si illude più: adesso sente che sarà impossibile conoscere e capire tutto quel che compone l'esistenza in un villaggio di sette miliardi di persone.
La Repubblica del 7 gennaio 2008, pag. 27
di Giampaolo Visetti
La luce, per Bernard Njonga, si è accesa grazie alle cosce. Aveva riflettuto lungamente su quei muscoletti di carne bianca, protetti da succosa pelle gialla. Poi, un sabato mattina di tre anni fa, è salito su un secchio rovesciato nel mercato di Mokolò, sconfinato, brulicante di gente e violentissimo. «Quelle cosce — ha urlato ai divertiti venditori di polli — devono sparire». È iniziata così l'ultima guerra d'indipendenza del Camerun: contro il capitalismo globalizzato dell'Occidente e contro la corruzione che tiene in ostaggio l'Africa Nera. Adesso, dopo la vittoria, l'eroe delle cosce nostrane è tornato tra la sua gente. Non è più un anonimo funzionario del sindacato dei contadini. Lascia l'ufficio dietro la stazione dei treni di Yaoundé su una jeep nera. Gira scortato, ha due segretarie attaccate al telefono. Sul piazzale del Marché Madagascar, invaso da baccelli di cacao, con sei carriole gli hanno arrangiato un palco. Un ragazzo con una scarpa da ginnastica in testa armeggia con il microfono. Un altro tiene sul capo, miracolosamente in equilibrio, quattro secchi pieni di carne d'istrice affumicata, pane, latte e papaye a spicchi. Incita la folla e regola le danze propiziatorie di tre sfiniti stregoni. Dalla polvere salgono vapori arroventati. Ad un cenno della mano di Njonga, si sparge il silenzio. «Non siamo la pattumiera dell'Europa — grida —. Dobbiamo unirci per ricostruire la nostra economia e la nostra indipendenza alimentare. Lottiamo contro la globalizzazione: in Africa vuole Stati deboli, per manovrarli come burattini, comprando ministri e presidenti».
Queste parole piacciono molto. La massa di poveri, per assentire, ondeggia freneticamente i fianchi: ride e applaude. «Ancora, Bernard — canta — dillo ancora». Sale sulle carriole un bianco. Agita la maniglia di una valigia, l'unica cosa che non gli hanno rubato. Lo tirano giù di peso e riprendono le invocazioni. Njonga è costretto a ripetere il comizio, parola per parola. Due, tre volte. E ancora. Dalle cosce di pollo passa alla «sete di democrazia». «Siamo sempre più poveri — dice — perché spogliati da cinici predatori. Nessuno si occupa davvero di noi». Un'orchestra fa scoppiare una makossa clamorosa. Le venditrici di pesce arrosto, enormi e gelatinose, travolgono ballando i banchi della tapioca. Il discorso finisce all'istante. Njonga viene portato in spalla a verificare il nuovo scandalo. Sacchi di riso da Cina, Vietnam e Thailandia. Cipolle dall'Olanda. Mais dagli Usa. Pomodori dalla Turchia. Pesce dalla Danimarca. Scatolame scaduto dall'Europa. Vestiti e scarpe ancora dalla Cina. Costano poco, valgono meno. Nel mercato, di africano, non restano che ananas, manghi, tuberi. Agricoltori e artigiani camerunesi non resistono alla concorrenza. Abbandonano campi e villaggi, chiudono. Ingrossano le baraccopoli che assediano Yaoundè e Duala. E adesso sperano in un altro miracolo di Bernard.
Sul Golfo di Guinea si consuma l'ennesima lotta per la sopravvivenza. La «battaglia delle cosce» è esemplare. I consumatori di Europa e America, del pollo, vogliono solo il petto. Settanta centesimi al chilo: venduto il filetto, il produttore è a posto. Il resto, invendibile in Occidente, va a chi paga l'equivalente del costo di distruzione. È così che ogni pollo esplode e diventa globale. Le zampe finiscono in Thailandia, le viscere nell'ex Urss, le ali in Cina, la cresta in Vietnam, il petto in Usa e Ue. Le cosce invadono Africa, Messico e Giappone.
La domanda modella i pennuti. Tre aziende europee, in Olanda e Germania, si spartiscono il mercato grazie ad una bestia geneticamente modificata. Il modello «Ross 708», fornito con manuale per la crescita hi-tech, sviluppa un abnorme petto da tacchino. Il resto è atrofico. Matura in un mese: un chilo e 600 grammi di mangime si trasforma in un chilo di carne.
Per il Camerun e l'Africa centrale è stata la catastrofe. Navi di fuselli surgelati hanno sommerso i bidoni della benzina, trasformati in profumate griglie ad ogni angolo di strada. Dall'oggi al domani le galline vive, vendute in gabbia, sono scomparse dai mercati.
Allevatori come Fridolin Mvogo di Sangmelimà, che aveva appena comprato duemila pulcini, sono falliti. «Ho scaricato i pollastri davanti al palazzo presidenziale — dice — poi ho appiccato il fuoco. Fumo, starnazzi e odore di bruciato hanno fatto accorrere gli abitanti della giungla. Dalla presidenza non è uscita nemmeno la donna dei bagni». Il rogo ha avvertito i camerunesi che si stava spegnendo la loro possibilità di sopravvivere. È allora che è intervenuto Njonga.
Ha fondato l'Associazione civica per la difesa degli interessi collettivi. Con 7 mila euro, racimolati con una colletta tra 14 mila contadini, ha corrotto un doganiere di Duala. Ha scoperto chi esporta dall'Europa le cosce surgelate, chi le importa a tonnellate in Camerun, falsificando i documenti. Alla voce provenienza si legge: «Mare aperto». Ma soprattutto l'Istituto Pasteur della capitale, nonostante minacce politiche e sparizioni di documenti, ha certificato che l'83,5% del pollo Ue scaricato in Africa «non è adatto al consumo umano». Carne avariata, trasportata senza celle-frigo. Per la prima volta la denuncia di un cittadino africano ha avuto conseguenze. Il presidente Paul Biya, dittatore al potere da 27 anni, è stato costretto a cacciare il ministro dell'agricoltura e ad arrestare un pugno di funzionari.
Non che abbia a cuore le condizioni del suo popolo: è che, ogni tanto, un isolato gesto populista rafforza il regime. Il principale importatore locale ha ripiegato sul pesce. Una petizione popolare per «regole nuove in agricoltura e contro l'Organizzazione mondiale del commercio» ha raccolto oltre 1 milione di firme. Il governo ha posto il dazio sui polli europei e brasiliani, fissato un tetto alle importazioni, levato l'Iva agli allevatori camerunesi. Le «ziette» dei chioschi di «galletto alla direttore generale», come certificato di genuinità ora sistemano le piume nei piatti. Le cosce surgelate made in Ue fanno rotta sul Ghana, dove è crollata la produzione di manzi. Le accolgono però i manifesti inviati dai camerunesi: una gallina bianca, un teschio nero, una scritta rossa che avverte «Pericolo di morte». Da Yaoundè, in attesa delle presidenziali del 2011, la lotta si sposta invece nei villaggi in miseria, nella foresta rubata alle tribù pigmee dalle industrie del legname. Europa e Oriente, con navi di scarti agricoli e alimentari, decimano le piantagioni locali di cereali, ortaggi e frutta.
Il ketchup è un simbolo. Da quando è arrivato, nerastro e cristalizzato, nessuno coltiva più pomodori. Migliaia i contadini alla fame. «Il 70 per cento del Paese — dice il cardinale Christian Turni, unica voce critica, coraggiosa e rispettata — vive di agricoltura, come tutta l'Africa. È un fatto essenziale: per svilupparsi, il continente deve potersi sfamare da solo. Per questo le spinte democratiche non possono che partire dalla terra. Il problema è che manca lo Stato. Il potere non pensa alla gente. Accumula tesori all'estero. Ognuno è costretto ad arrangiarsi. La corruzione è un sistema di vita: ma a riempire le tasche dei nostri dittatori, non dimentichiamolo, è l'Occidente».
Un labirinto senza uscita, in Camerun. L'Europa paga il governo, svuota i propri magazzini, devasta le produzioni locali e affama la nazione. Poi invia gli aiuti umanitari, ultimo stadio delle nostre eccedenze. La nomenclatura incassa ancora, la gente smette di lavorare, le periferie delle città crescono come lager infernali, il territorio resta deserto. È allora che il potere si mette in affari, preferibilmente con Cina, Usa e Francia. La meravigliosa foresta equatoriale, al Sud e nell'Ovest, è pressoché consumata. False licenze e finte concessioni, con timbri ufficiali, autorizzano devastazioni senza limiti. «Se paghi le persone giuste — ammette uno dei tredici commercianti italiani che esportano il 33% del legname centrafricano — puoi abbattere le essenze che vuoi, dove ti pare e nella quantità che ti serve». È lo schema applicato per il petrolio della penisola di Bakassi, o nei nuovi giacimenti di oro. «Fra dieci anni — dice il leader storico dell'opposizione, John Fru-Ndi — saremo un sacco vuoto.
Abbiamo perso il treno dell'educazione, della cultura e dell'istruzione: lo sviluppo è paralizzato». A Yaoundé, fino al 1985 capitale dello Stato più ricco e avanzato dell'Africa nera, è rimasto un solo primato: dominare il Paese più corrotto del mondo, davanti a Bangladesh e Nigeria. Un ministro ufficialmente guadagna 600 euro al mese. Dopo quattro anni però fa vivere di rendita, in Francia o in Svizzera, tutto il suo clan. Il 65% dei fondi internazionali per farmaci, ospedali e scuole, scompare nelle tasche dei funzionari che li gestiscono. La metà degli adolescenti, abbandonata, vive per strada. Ngonò, 12 anni, fa la prostituta a Kribì. Per 80 centesimi si vende sulla spiaggia che argina l'oceano Atlantico. Il fratello la porta al lavoro in piroga, prima di andare a recitare come «pigmeo selvaggio» oltre le cascate di Lobè. Guadagnare è sempre più difficile. Gruppi di prostitute cinesi si offrono per 40 centesimi. Un albergo promuove le stanze con la foto delle ragazze incollate sul portachiavi: «Mi trovi sul letto — si legge — 24 ore su 24». Nel giorno libero le schiave si intossicano annusando colla. Oppure si drogano. Prendono una baguette fresca e la infilano nel tubo di scappamento di un camion. Quando è ben impregnata di biossido di carbonio, se la mangiano.
Ufficialmente è sieropositivo un camerunese su venti. La realtà è che oltre il 10% muore di Aids. Dei 43 mila bambini infetti, la metà non arriva ai due anni. I farmaci sono disponibili per uno su dieci.
Per le femmine crescere è un incubo. Chi non viene venduta come sposa a 9 anni, è sottoposta alla stiratura dei seni. Una tortura atroce. La madre, o i cugini minori, strofinano pietre incandescenti sul torace per arrestare lo sviluppo delle mammelle.
Con bucce e spatole di legno infuocato, bruciano le ghiandole mammarie. Nel nord musulmano vengono usate le camere d'aria delle biciclette. Le madri sono convinte che in questo modo le figlie non solleticheranno troppo presto gli appetiti dei maschi. «Per sei mesi — dice Yvonne Nfor nell'ospedale di Limbe — sono stata ustionata con un mattone. Mia mamma diceva di dover sradicare il nocciolo. Alla fine sono scappata da uno zio, che mi ha violentato. Nonostante le cicatrici, quando a 11 anni sono rimasta incinta, mi sono esplosi due seni giganteschi».
Il 58% delle bambine camerunesi è vittima di tali sevizie. La stiratura dei seni innesca insuperabili traumi psicologici. Chi si oppone è espulso dalla famiglia. Come il piccolo Atanganà, che non ha voluto appiattire la sorella. Accusato di essere posseduto da spiriti malvagi, dopo la morte del padre non ha più avuto diritto al cibo ed è stato scacciato. «Quando è nato — assicura la nonna — sono andato a vederlo. Sul letto mi è apparso un vecchio con un libro in mano». Atanganà adesso ha otto anni e possiede una carriola. Scarica plantani, arachidi e semi di cola nel Marché General di Yaoundé. Per tre ore al giorno affitta la carriola ad un altro bambino, che trasporta carne di cane, gatto e serpente in un ristorante. A sua volta questo, per un'ora, subaffitta il mezzo ad un amico che distribuisce vino di palma ai commercianti.
Il rifiuto di un rito crudele sfama tre bambini di strada. Per la maggioranza, però, il destino è spietato.
L'approdo maledetto è il carcere della capitale. Migliaia di ragazzi, affamati, finiscono qui per stupri, omicidi, rapine, furti. In Camerun la tariffa di un killer è 50 euro, trattabili.
In cella non c'è acqua, un secchio da muratore fa da latrina per trecento. Malaria e tubercolosi provvedono dove falliscono le guardie. Chi paga viene appeso per le mani e pestato come un sacco da pugile. Quelli che non possono, finiscono dal «sarto». La domanda è: «Pantaloni o mutande»? Poi viene amputato il piede, o la gamba. Due straordinari missionari cattolici non si rassegnano all'inferno.
Maurizio Bezzi vive con detenuti e ragazzi di strada. Sergio Janeselli sta con ciechi, sordomuti, handicappati e vittime della poliomelite. Un'oasi di dignità e coraggio nel deserto di una Chiesa ossequiosa e spesso complice del regime. Vescovi e preti hanno la precedenza, tra la generosa clientela di stregoni, ciarlatani e minacciosi guaritori animisti. «Tradizioni e usi di 252 tribù —dice Jacob Kotcho, uno dei capi del movimento per la difesa dei cittadini — formano un intrico incredibilmente complicato e misterioso. L'essenza del Camerun si nasconde nella sua varietà. La violenza del nuovo potere africano, il pensiero europeo, hanno bisogno invece di certezze elementari, dove sia chiaro un interesse finanziario personale».
La guerra alle cosce di pollo Ue, la lotta per salvare brandelli della foresta dei pigmei, per affermare i diritti delle donne, per sottrarre alla violenza bambini e dissidenti, cominciano però a non essere più campagne isolate. Nelle baracche delle città e sotto le capanne di campagna, i poveri discutono sempre meno di pace e indipendenza. Oggi parlano di democrazia e sviluppo. Mettono sotto accusa gli inamovibili, miliardari autocrati africani appoggiati da Occidente e Cina. A Yauondè i sostenitori del «pollo con le piume» sono diventati la «Generazione 2011», termine costituzionale del regno di Paul Biya. Sognano la fine degli eroi post-coloniali, ridotti a servi arricchiti degli antichi padroni. Dal 1960, anno della decolonizzazione e dell'ascesa di Ahmadou Ahidjo, è la prima volta che un movimento civile non naufraga subito nelle risse etniche tra bamilekè, fulani, choa e kotoko. «Il nostro destino — dice Turni — non è una ineluttabile condanna. Forse cominciamo a capire la forza rivoluzionaria, politica, che nasce dal riconoscere il valore di ogni vita umana».
Questa sera Bernard Njonga cena con i pastori di Maga, nascosto nella profondità del parco di Waza. La tenebra è assoluta, più del silenzio. Soffia il vapore del Sahel, calmo e saggio, come infine un amore. Il carbone abbrustolisce termiti e serpente dolce. Il capo tribù chiede perché la pelle di capra, cucita intera per conservare l'acqua, non si venda più ai mercanti del Ciad. Ascolta pensieroso la storia delle cosce di pollo, rispedite «al di là del mare». Vorrebbe lottare anche per le sue otri di cuoio, contro le taniche di plastica. Ma Njonga dice che il globo non è più piccolo: è diventato grande, infinito. E il Camerun deve sapere «che il mondo si dilata ogni giorno e ci scappa ancora». L'Africa Nera non si illude più: adesso sente che sarà impossibile conoscere e capire tutto quel che compone l'esistenza in un villaggio di sette miliardi di persone.
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