Washington e Gerusalemme: 60 anni di relazioni speciali e contraddittorie
Il Riformista del 10 gennaio 2008, pag. 5
di Claudio Vercelli
Si può senz'altro parlare di Special Relationship tra Stati Uniti e Israele a patto, tuttavia, che si precisino i termini e le modalità attraverso le quali tale legame si è articolato nel corso del tempo. Poiché se esiste un tema che è stato fatto oggetto di fraintendimenti ripetuti, di equivoci reiterati se non di pregiudizi totali, è proprio ciò che riguarda la qualità e la natura del legame che intercorre tra questi due paesi.
L'ampia diffusione del fortunato libro di Edward Said, Orientalism, divenuto il testo di riferimento per la critica all'imperialismo" culturale ed economico occidentale, ha contribuito a rafforzare quelle posizioni che riducono l'ampiezza e la complessità della politica statunitense a pochi, netti e costantemente ripetuti calcoli d'interesse.
In realtà le scelte praticate da Washington, dalla nascita d'Israele ad oggi, sono state spesso così diversificate, di amministrazione in amministrazione, da risultare tra di loro spesso contraddittorie. Inoltre, ogni azione era e rimane il risultato della mediazione all'interno delle diverse componenti della burocrazia amministrativa e politica. Una policrazia, un complesso di apparati decisionali, si contende l'ultima parola sul cosa fare e sul come realizzarlo. Fondamentale, da questo punto di vista, è il trattamento delle informazioni, ovvero cosa si ritiene sia importante (e chi sia chiamato a stabilire l'ordine delle priorità). Poiché è solo sulla scorta di ciò che si assumono le decisioni che, di volta in volta, vengono poi trasformate in atti concreti.
Storicamente, negli ultimi cinquant'anni, gli Usa hanno costruito una serie di robusti rapporti bilaterali con alcuni paesi della regione, soprattutto l'Egitto e l'Arabia Saudita (prima del 1979 anche l'Iran della dinastia Pahlevi), sostituendosi negli anni Cinquanta alla Gran Bretagna e istituendo relazioni privilegiate con le élite politiche locali, nell'ottica della cooperazione per la sicurezza più che della innovazione socioeconomica.
Per due decenni, tra il 1950 e la fine degli anni Sessanta, è l'Egitto ad essere al centro delle preoccupazioni statunitensi e a determinare i passi compiuti dalle diverse amministrazioni succedutesi, da quella Truman a Johnson. Fino ad una certa data i protettori d'Israele nel consesso internazionale erano da cercarsi nella Gran Bretagna e nella Francia.
Se Harry Truman non aveva mai fatto mistero della sua simpatia per la causa sionista, buona parte dell'amministrazione statunitense riteneva inderogabile il proseguimento della politica di appeasement verso gli arabi. Si ingenerò così una duplice condotta politica, dove alle aperture della Presidenza verso Gerusalemme facevano seguito le calcolate chiusure del Dipartimento.
La Special Relationship con Gerusalemme data quindi ad anni recenti e ruota su alcuni elementi che dal 1967 fanno premio riguardo ad altri aspetti, fino ad allora invece prevalenti. La guerra dei Sei giorni è l'evento periodizzante, nella misura in cui introduce un ulteriore fattore di tensione tra Est ed Ovest - quindi di divisione e allineamento tra fronti contrapposti - che era in parte mancato nei lustri precedenti.
Più per necessità che per una qualche virtù, quindi, è in questo scenario che l'opzione cade su Gerusalemme, per impedire che il nazionalismo arabo, nella sua versione più militante e radicale, quella nasseriana, abbia la meglio e con esso i suoi patrocinatori moscoviti. In realtà la scelta degli Usa, è di mantenere l'equilibrio militare tra Israele e i vicini arabi, essendo questi foraggiati abbondantemente dall'Urss. In altre parole, il sostegno al paese ha più una valenza contenitiva delle spinte altrui che non una sua promozione come interlocutore privilegiato. Si tratta, nella logica americana, di un atto di "realismo" più che di idealismo. Gli Stati Uniti inaugurano così una politica di "grand design", basata sul bilanciamento dei poteri con l'Urss, marcandola strettamente in ogni suo passo compiuto nella regione.
Il maggiore promotore della svolta che si compie negli anni Settanta è Henry Kissinger, la cui linea interventista (in sostanza, maggiore sostegno ad Israele) si confronta con la cautela di non poca parte delle Amministrazioni Nixon e Ford.
Negli anni Ottanta che il quadro muta ancora. Sulla scena campeggia l'Iran della "rivoluzione islamica". Non di meno il rinnovato attivismo del regime sovietico diventa fonte di nuova preoccupazione. Il conflitto arabo-israeliano perde temporaneamente la sua centralità regionale, sostituendosi ad esso il Golfo Persico e l'Afghanistan (invaso dai sovietici nel dicembre del 1979). E in questo contesto, ancora una volta fortemente polarizzato, che il rapporto tra Usa e Israele si intensifica. L'Amministrazione Reagan, sia pure accordando un rapporto di partnership militare anche a Arabia Saudita, Egitto e Giordania, stabilisce e sottoscrive nel novembre del 1981 un memorandum di intesa strategica con Israele. La politica di Strategie Cooperativa si traduce così in un rapporto di mutua assistenza su tutti gli ambiti legati alla sicurezza.
I successivi sviluppi del quadro geopolitico, dominati dal declino dell'Unione Sovietica, porteranno gli americani a superare la politica kissingeriana dei "piccoli passi" per optare verso un disegno di più ampio respiro, dove l'obiettivo di una destinazione finale dei Tenitori palestinesi si accompagni alla contemporanea transizione verso l'autonomia palestinese.
NOTE
Tratto da Israele. Storia dello Stato. Dal sogno alla realtà (1881-3307), Editice La Giuntina
Il Riformista del 10 gennaio 2008, pag. 5
di Claudio Vercelli
Si può senz'altro parlare di Special Relationship tra Stati Uniti e Israele a patto, tuttavia, che si precisino i termini e le modalità attraverso le quali tale legame si è articolato nel corso del tempo. Poiché se esiste un tema che è stato fatto oggetto di fraintendimenti ripetuti, di equivoci reiterati se non di pregiudizi totali, è proprio ciò che riguarda la qualità e la natura del legame che intercorre tra questi due paesi.
L'ampia diffusione del fortunato libro di Edward Said, Orientalism, divenuto il testo di riferimento per la critica all'imperialismo" culturale ed economico occidentale, ha contribuito a rafforzare quelle posizioni che riducono l'ampiezza e la complessità della politica statunitense a pochi, netti e costantemente ripetuti calcoli d'interesse.
In realtà le scelte praticate da Washington, dalla nascita d'Israele ad oggi, sono state spesso così diversificate, di amministrazione in amministrazione, da risultare tra di loro spesso contraddittorie. Inoltre, ogni azione era e rimane il risultato della mediazione all'interno delle diverse componenti della burocrazia amministrativa e politica. Una policrazia, un complesso di apparati decisionali, si contende l'ultima parola sul cosa fare e sul come realizzarlo. Fondamentale, da questo punto di vista, è il trattamento delle informazioni, ovvero cosa si ritiene sia importante (e chi sia chiamato a stabilire l'ordine delle priorità). Poiché è solo sulla scorta di ciò che si assumono le decisioni che, di volta in volta, vengono poi trasformate in atti concreti.
Storicamente, negli ultimi cinquant'anni, gli Usa hanno costruito una serie di robusti rapporti bilaterali con alcuni paesi della regione, soprattutto l'Egitto e l'Arabia Saudita (prima del 1979 anche l'Iran della dinastia Pahlevi), sostituendosi negli anni Cinquanta alla Gran Bretagna e istituendo relazioni privilegiate con le élite politiche locali, nell'ottica della cooperazione per la sicurezza più che della innovazione socioeconomica.
Per due decenni, tra il 1950 e la fine degli anni Sessanta, è l'Egitto ad essere al centro delle preoccupazioni statunitensi e a determinare i passi compiuti dalle diverse amministrazioni succedutesi, da quella Truman a Johnson. Fino ad una certa data i protettori d'Israele nel consesso internazionale erano da cercarsi nella Gran Bretagna e nella Francia.
Se Harry Truman non aveva mai fatto mistero della sua simpatia per la causa sionista, buona parte dell'amministrazione statunitense riteneva inderogabile il proseguimento della politica di appeasement verso gli arabi. Si ingenerò così una duplice condotta politica, dove alle aperture della Presidenza verso Gerusalemme facevano seguito le calcolate chiusure del Dipartimento.
La Special Relationship con Gerusalemme data quindi ad anni recenti e ruota su alcuni elementi che dal 1967 fanno premio riguardo ad altri aspetti, fino ad allora invece prevalenti. La guerra dei Sei giorni è l'evento periodizzante, nella misura in cui introduce un ulteriore fattore di tensione tra Est ed Ovest - quindi di divisione e allineamento tra fronti contrapposti - che era in parte mancato nei lustri precedenti.
Più per necessità che per una qualche virtù, quindi, è in questo scenario che l'opzione cade su Gerusalemme, per impedire che il nazionalismo arabo, nella sua versione più militante e radicale, quella nasseriana, abbia la meglio e con esso i suoi patrocinatori moscoviti. In realtà la scelta degli Usa, è di mantenere l'equilibrio militare tra Israele e i vicini arabi, essendo questi foraggiati abbondantemente dall'Urss. In altre parole, il sostegno al paese ha più una valenza contenitiva delle spinte altrui che non una sua promozione come interlocutore privilegiato. Si tratta, nella logica americana, di un atto di "realismo" più che di idealismo. Gli Stati Uniti inaugurano così una politica di "grand design", basata sul bilanciamento dei poteri con l'Urss, marcandola strettamente in ogni suo passo compiuto nella regione.
Il maggiore promotore della svolta che si compie negli anni Settanta è Henry Kissinger, la cui linea interventista (in sostanza, maggiore sostegno ad Israele) si confronta con la cautela di non poca parte delle Amministrazioni Nixon e Ford.
Negli anni Ottanta che il quadro muta ancora. Sulla scena campeggia l'Iran della "rivoluzione islamica". Non di meno il rinnovato attivismo del regime sovietico diventa fonte di nuova preoccupazione. Il conflitto arabo-israeliano perde temporaneamente la sua centralità regionale, sostituendosi ad esso il Golfo Persico e l'Afghanistan (invaso dai sovietici nel dicembre del 1979). E in questo contesto, ancora una volta fortemente polarizzato, che il rapporto tra Usa e Israele si intensifica. L'Amministrazione Reagan, sia pure accordando un rapporto di partnership militare anche a Arabia Saudita, Egitto e Giordania, stabilisce e sottoscrive nel novembre del 1981 un memorandum di intesa strategica con Israele. La politica di Strategie Cooperativa si traduce così in un rapporto di mutua assistenza su tutti gli ambiti legati alla sicurezza.
I successivi sviluppi del quadro geopolitico, dominati dal declino dell'Unione Sovietica, porteranno gli americani a superare la politica kissingeriana dei "piccoli passi" per optare verso un disegno di più ampio respiro, dove l'obiettivo di una destinazione finale dei Tenitori palestinesi si accompagni alla contemporanea transizione verso l'autonomia palestinese.
NOTE
Tratto da Israele. Storia dello Stato. Dal sogno alla realtà (1881-3307), Editice La Giuntina
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