lunedì 21 gennaio 2008

Memoria. Centinaia di prigionieri morirono di stenti nel campo di Giado tra il 1942 e il '43

Corriere della Sera 21.1.08
Memoria. Centinaia di prigionieri morirono di stenti nel campo di Giado tra il 1942 e il '43
Libia, l'orrore nel lager italiano
L'ordine: sterminate i deportati ebrei. All'ultimo momento la revoca
di Dario Fertilio

Giado, centottanta chilometri a sud di Tripoli, praticamente il nulla nel nulla. Era un campo di concentramento italiano costruito nel 1942 e riservato agli ebrei libici, un nome taciuto per anni e invece ora da sottolineare con l'inchiostro nero. Perché fu là, dove oggi spuntano solo rovine e filo spinato mezzo inghiottiti dal deserto, che l'esercito del Duce si macchiò del delitto più grave in termini numerici, una violenza gratuita sui prigionieri: almeno 560 uomini, donne e bambini morti di fame, di malattie, di stenti e brutalità. Gente colpevole soltanto di essere ebrea.
Nessun altro luogo, includendo l'isola di Arbe nel Quarnero, fu teatro di stragi «italiane» numericamente più rilevanti. E avrebbe potuto andare ancor peggio se l'ordine estremo, annunciato e sul punto d'essere eseguito, fosse stato confermato. Invece una revoca, letteralmente dell'ultima ora, evitò ai circa duemila prigionieri maschi del campo, già in fila per l'esecuzione, una soluzione finale alla nazista.
Proprio quella agghiacciante disposizione, Uccideteli tutti, dà il titolo al saggio dello storico- giornalista Eric Salerno, appena uscito dal Saggiatore. Già autore di reportage sulle guerre coloniali italiane, e corrispondente dal Medio Oriente, Eric Salerno punta questa volta sui rari superstiti, spesso testimoni oculari, di quei tempi ormai lontani, sforzandosi di confrontare i racconti, svelare le connivenze, soffiare via dai nomi delle vittime la polvere dell'oblio. Non tutti gli obiettivi sono raggiunti: le testimonianze orali non compensano la scarsità dei documenti; le date degli eventi sono approssimative; i nomi degli aguzzini in divisa italiana restano sconosciuti. Anche quello del comandante del campo — un ufficiale dell'esercito — è disperso negli archivi oppure (come ipotizza l'autore) forse in passato è stato fatto sparire per sviare le ricerche. E soprattutto manca il nome di chi diede quell'ordine di uccidere.
Eppure, nonostante tanti lati oscuri, il racconto di Eric Salerno prende alla gola, soprattutto per le vivide testimonianze. La scena culminante è del 1943, «una ventina di giorni prima della vittoria britannica», quando a Giado gli italiani hanno i nervi a fior di pelle perché sanno che presto arriveranno gli inglesi, e forse toccherà a loro stessi finire in prigionia. Temono che, rovesciati i ruoli, gli ebrei siano destinati a trasformarsi in accusatori? Meditano di far terra bruciata preventiva per salvarsi? È possibile: così si spiegherebbe perché decidano di radunare sotto la bandiera tutti gli ebrei maschi; ecco perché il comandante italiano «in tono tranquillo» annuncia ai prigionieri «una cattiva giornata», aggiungendo sadicamente «abbiamo ricevuto l'ordine di uccidervi tutti». Per non parlare dell'avviso: i 480 malati ricoverati nell'ospedale del campo «saranno fatti scendere nello scantinato e bruciati ». I racconti abbondano di altri particolari drammatici: gente che si getta a terra invocando Dio; il rabbino Yosef, avvolto nel suo scialle per la preghiera, trascinato nel centro del campo da un militare imbestialito («questo è il momento per uccidere, non per pregare!»). E tre ore di attesa mortale, fra le otto e le undici del mattino, con i reclusi affamati e assetati in attesa dell'ordine di esecuzione. Infine, alle undici e mezzo, il telefono squilla. Una voce annuncia che la disposizione è annullata: liberi tutti i prigionieri. Il che non evita episodi di sadismo gratuito: uno dei rabbini è costretto a spazzare il recinto del campo con la barba.
Resta il dubbio: quell'ordine di liquidazione risaliva davvero a Mussolini? Avrebbe potuto macchiarsi di un simile delitto quello stesso Duce che nel marzo 1937, un anno e mezzo prima della promulgazione delle leggi razziali, era stato accolto dalla comunità israelita di Tripoli con fiori, ovazioni e benedizioni, constatando che i commercianti ebrei italiani si erano dimostrati il vero, prezioso tessuto connettivo delle colonie africane? Per quei meriti avevano ricevuto in realtà una terribile ricompensa: deportati dalla Cirenaica in Tripolitania, costretti ai lavori pesanti, infine rinchiusi a migliaia a Giado. Il cinismo di Mussolini, del resto, è testimoniato dallo scambio di messaggi con il governatore della Libia Italo Balbo: quest'ultimo, ancora nel gennaio del '39, si sforzava di indurlo a «non infierire», dal momento che «gli ebrei erano già morti». Ma la risposta del capo del fascismo era stata: «Ti autorizzo all'applicazione delle leggi razziali», «ricordandoti che gli ebrei sembrano ma non sono mai definitivamente morti». Restano, oggi, pallidi ricordi di quelle vittime, ancora più struggenti perché anonimi (di soli ottanta scomparsi a Giado Eric Salerno ha potuto ritrovare le generalità). Con un risvolto amaramente ironico: tutta la vicenda anche in Israele è poco conosciuta. Forse perché, come ricorda Salerno, «per decenni venne insegnato che l'Olocausto era patrimonio degli ebrei europei, soprattutto ashkenaziti».
Su quel che accadde in Libia, e sugli aguzzini italiani, dovunque calò un silenzio piuttosto assordante. «I non pochi criminali di guerra italiani, per volontà degli Alleati, non sono mai stati processati o puniti».

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