domenica 27 gennaio 2008

La delusione farmacologica è solo il segno di un errore di strategia

Corriere della Sera Salute 27.1.08
L'opinione di Vittorino Andreoli
Non possiamo ridurre tutto alla biologia

La delusione farmacologica è solo il segno di un errore di strategia

Cominciai a frequentare il manicomio di Verona nel 1959 e si respirava un'aria profetica per la recente nascita della imipramina (il Tofranil). Dalla sua «venuta» sono passati 50 anni. E, occorre ammetterlo, sono stati cinquant'anni «di solitudine » e di delusione se solo si considera un impegno senza precedenti delle aziende farmaceutiche e della ricerca psicofarmacologica per un disturbo mentale che oggi colpisce il 14 per cento della popolazione europea. La imipramina era efficace, ma dava effetti collaterali di grande dimensione; occorreva cercare imipramine più sicure. Non si scoprì nulla in questa direzione anche se uscirono in commercio molti farmaci appartenenti alla stessa famiglia, i triciclici.
Si è imboccato un sentiero, quello degli SSRI, da quindici anni ormai nel mercato. Si tratta di farmaci di identica efficacia clinica della imipramina, ma con effetti collaterali diminuiti. Dal punto di vista dei meccanismi d'azione sono molecole più specifiche in quanto agiscono solo sulla serotonina: azione che aveva in maniera più spuria anche la imipramina. Per quanto riguarda gli effetti indesiderati, che portano all'abbandono più rapido possibile, occorre dire che sono solo diversi e, basterebbe a sostenerlo, il problema della dipendenza e le azioni sulla sfera genitale. Questo è lo status quo e non c'è all'orizzonte niente di veramente promettente. I farmaci antidepressivi disponibili sono attivi in circa la metà dei pazienti e in quelli che rispondono l'effetto è per lo più parziale, come se l'azione fosse in grado di migliorare ma non certo di guarire né il singolo episodio né la malattia che ha un andamento ritmico (cronico).
A cinquant'anni di delusione, occorre chiedersi cosa succeda. E si giunge a due ipotesi. La prima è che si tratti di una ricerca non fortunata, in un campo complicato (la psichiatria) e in un organo (il cervello) che appare sempre più come un mondo straordinario ma difficile, una ricerca che comunque occorre continuare in attesa di un nuovo «miracolo ». La seconda, a cui io sono più legato, sostiene invece che la ricerca non ha prodotto granché semplicemente perché non può dare di più. La vera scoperta è che la depressione è il risultato di tre fattori: un fattore biologico (dunque genetico e cerebrale) che certamente avvalla la ricerca biologica e le considerazioni familiari di alcune forme depressive; un fattore legato alle esperienza del singolo, in particolare a quelle dei primi anni di vita (da zero a tre anni): e questo aspetto non ha, o non ha ancora, una dimensione molecolare, ma rientra nella grande possibilità della plasticità del cervello, capace di modificarsi in seguito ad una esperienza e senza un programma di tipo deterministico (come è la genetica). Infine, un terzo fattore che si lega all'ambiente in cui uno si ammala: un ambiente, più che geografico, relazionale e anche questo manca di una traduzione in termini biologici. Se è così, risulta che la terapia con i farmaci rappresenta solo l'azione su uno di questi fattori; per il resto occorre agire con strumenti clinici che si legano al medico e alle tecniche psicoterapiche. Se è cosi, la delusione farmacologica è segno di un errore di strategia, della convinzione di ridurre tutto a biologia. E bisogna semplicemente cambiare rotta e seguire nella ricerca le direzioni della clinica. Ne deriva anche che la terapia deve essere una combinazione di farmaci e di interventi psicoterapici.

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