sabato 6 ottobre 2007

Perché non possiamo non dirci pagani

Repubblica 1.8.07
Perché non possiamo non dirci pagani
I greci e l'uguaglianza di fronte alla legge
di Lucio Villari

Ripubblicata l'opera di Santo Mazzarino: l'antichista
vedeva in Sparta e Atene e nella loro religione il
fondamento della nostra civiltà
Da Epicuro a Seneca l'arte di credere in se stessi e
l'idea di giustizia
Qui l'etica laica, in Oriente un fanatismo che è il
simbolo della vita nazionale stessa

Una lieve ansia di rientrare in se stessi, il
desiderio di qualche terapia intellettuale e di idee
chiare e disarmate di cui si percepisce l´assenza,
forse sono questi stati interni a far parlare di
religioni e di religiosità e a far sospettare più che
l´inquietudine di chi cerca una fede, la stanchezza e
la noia del vuoto. Una medicina per questi sentimenti
potrebbe essere, ad esempio, un richiamo al perché non
possiamo non dirci pagani, al lascito eterno della
cultura classica, della storia del mondo antico e
persino dell´universo degli «dei falsi e bugiardi».
Anche se quest´ultimi non pare fossero veramente tali.
«Gli dei non sono dotati di nessuna trascendenza; -
diceva Marc Augé nel 2005 a un convegno a Rimini sul
mondo antico, sul tema Antico/Presente - appartengono
allo stesso mondo degli uomini e rivestono
essenzialmente un ruolo simbolico in senso letterale:
mettono in relazione gli uomini tra loro. La "fede"
negli dei passa attraverso l´accettazione del vivere
quotidiano». Era in sostanza un rifarsi alla
«concretezza storica» della mitologia di cui parlava
Kàroly Kerényi nel l955 a proposito dei greci. Tesi
ribadita l´anno dopo dal filologo e storico Walter
Friedrich Otto nel saggio Il mito originario alla luce
della simpatia di uomo e mondo. Ed era anche dalla
differenza e opposizione tra la religiosità greca e
quella orientale che si doveva partire per avvertire
la contiguità della religione greca con il nostro
Occidente, il solo spazio, aveva scritto Santo
Mazzarino nel l947, «dove vibra l´anima della storia
greca».
Un´anima che va percepita per contrasto con l´Oriente
«e proprio per rivelare la sua originalità e
fisionomia caratteristica».
Anche attraverso questa immagine umano-divina della
religione greca (e romana) riemerge l´esigenza antica
di razionalità di cui Marco Aurelio in uno dei
«Pensieri» vede privi i cristiani, portatori di un
culto orientale. E´ questa la Grecia che «entra» a
Roma nella transizione tra repubblica e impero e, pur
confrontandosi con tempi politici e sociali disumani e
violenti, ha introdotto la limpida filosofia dello
stoicismo.
Era un pagano pragmatismo morale che, da Epicuro a
Seneca a Epitteto a Marco Aurelio, ha insegnato l´arte
del credere in se stessi e l´idea di giustizia come
fondamento della società civile.
La Stoà fu anche un movimento spirituale e filosofico,
una etica laica che il monoteismo cristiano ha poi in
parte inglobato nella sua dottrina e in parte
sopraffatto innestandovi sentimenti e comportamenti
sconosciuti agli antichi, come il timore verso un
misterioso trascendente (gli dei sono invece umani,
quindi non misteriosi) e la convinzione, come
sosteneva Paolo di Tarso nella Lettera ai Corinzi, che
«la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a
Dio».
Comunque la Stoà - ha scritto nel 1943 uno dei suoi
maggiori studiosi, Max Pohlenz - «ha dato per mezzo
millennio a innumerevoli uomini una base morale e la
pace interiore». Il suo più agguerrito avversario,
Agostino - lo ha ricordato Italo Sciuto ne L´etica del
Medioevo (Einaudi, 2007) - rimproverava ai filosofi
pagani, di cui però sentiva il fascino, di avere sì
pensato ad una società giusta, ma di non averla saputa
realizzare.
In realtà l´idea di giustizia, anche se la sua origine
politica era greca, fu, accomunata dai cristiani al
rifiuto della schiavitù, fu l´insidia più pericolosa
il tarlo che indebolì mortalmente Roma.
Chi riconosce però nella filosofia pagana una delle
premesse del pensiero moderno - dall´Umanesimo a
Erasmo, Spinoza, Kant, l´Illuminismo - sa che questa
pace interiore, il tecum fugis di Seneca, la moralità
dell´esistenza, suggerite più che predicate o imposte,
erano fondate sul piacere del vivere e sul vivere
conoscendo; sentimenti che potevano essere sconvolti
da eventi esterni (alcuni stoici erano attraversati da
queste inquietudini preferendo alla violenza
psicologica o politica un calmo suicidio) e quindi
delicati, inermi. Un piacere fondato sul principio del
«conservare il proprio essere», come dirà Spinoza, di
«individuazione» dell´individuo, che in traduzione
attuale potrebbe essere il principio della
salvaguardia della «persona».
Era attenzione filosofica verso l´anima umana, anzi,
la «therapia animae», di Panezio di Rodi, il filosofo
greco che più influenzò gli stoici romani, a
cominciare da Cicerone, sul problema dell´etica che
aveva il segno aurorale della libertà dell´uomo.
Forse questa lezione l´avrebbe oggi ripensata un
conoscitore della classicità come Santo Mazzarino, ma
venti anni or sono, nel l987, la sua scomparsa ha
privato la cultura italiana di una intelligenza
straordinaria e di un indagatore
dell´«Antico/Presente» che manifestava con franchezza
anche la propria passione politica, sia nel giudizio
storico preciso e filologicamente implacabile sulla
classicità, sia nella interpretazione della classicità
nella storia contemporanea del mondo occidentale.
Sono stato suo allievo nell´Università di Messina
(insegnavano con lui Giacomo Debenedetti, Galvano
della Volpe, Ruggero Moscati, Lucio Gambi, Giorgio
Petrocchi, Rosario Romeo) e posso testimoniare che gli
altri storici moderni (ma lo stesso succederà quando
Mazzarino si trasferì all´Università di Roma) non si
ponevano, né risolvevano, i problemi complessi della
storia del Novecento come invece Mazzarino faceva
spesso, con la naturalezza dello storico totale e il
gusto di occuparsi di cose diverse. I problemi
novecenteschi che lo incuriosivano - ne discuteva
spesso con alcuni allievi in privati conversari -
avevano una dimensione europea, occidentale ed erano
di una «qualità» diversa dalle pur fondamentali
questioni della prima guerra mondiale, del fascismo,
del comunismo, del nazismo, con relative guerre e
damnatio memoriae. Una storia politica e soprattutto
sociale che Mazzarino invece sentiva intensamente e
«vedeva» - scoprendo personaggi e eventi fondamentali
che allora parevano sfuggire alla storiografia
italiana corrente - dall´interno, con lo spirito
critico con in quale investigava l´interno della
classicità. In fondo applicava al tempo presente la
«istorin» greca, cioè la «problematica illustrazione
del fatto che si indaga» più che «raccontarne una
serie», cioè «la narrazione continuata che è propria
degli Orientali».
Quando, nel l959, apparve La fine del mondo antico,
nella breve Premessa c´era l´indicazione del metodo:
«Credo che il tema della "morte di Roma" presenti un
particolare interesse: sentiamo così il bisogno di
percorrere il cammino delle idee di "decadenza" e
"fine" del mondo antico, come di chiederci ancora, per
nostro conto, quale spiegazione di quella "fine"
appaia, all´uomo di oggi, necessaria e sufficiente.
Ma, proprio per questo, un "dialogo" siffatto è in
realtà inesauribile...». Il dialogo, dunque tra antico
e presente, parafrasi del dialogo fra Oriente e
Occidente (dialogo e insieme distinzione) al quale nel
l947 Mazzarino dedicò una ricerca fondamentale: Fra
Oriente e Occidente. Ricerche di storia greca arcaica.
Sessanta anni dopo l´opera è stata ripubblicata da
Bollati Boringhieri (una edizione Rizzoli risale al
l989) e ha una introduzione di Filippo Cassola e in
appendice la recensione critica che del libro fece nel
`47 Arnaldo Momigliano e la puntuale replica di
Mazzarino al quale in realtà le polemiche accademiche
non interessavano affatto, e che quindi non volle
allora pubblicare. Con questo libro Mazzarino toccava
infatti i nervi scoperti di alcuni storici della
classicità e contestava nettamente l´opinione, di cui
era portatore Momigliano, che il tema
Oriente-Occidente fosse ormai storiograficamente
risolto e che si trattasse di un «problema fantasma».
Mazzarino sosteneva al contrario che «chi studia
storia arcaica ha il compito di rievocare Oriente e
Grecia e studiare in che modo "il tempo della storia
orientale" si sia poi risolto nel "tempo della storia
greca"».
Dalla ricchezza e pluralità della ricerca di Mazzarino
credo sia possibile qui riproporre soltanto qualche
spunto. Muovendo dalla Grecia arcaica, come dice il
titolo dell´opera, Mazzarino voleva stabilire, sulla
base di innumerevoli fonti poetiche, letterarie,
politiche, linguistiche, archeologiche i confini
dell´«Asia», il cui nome rinvia allo stato di Asswa in
Lidia, e i confini della Grecia «barbarizzata», cioè
incrociata dagli «stranieri», per identificare sia le
relazioni e contaminazioni tra i popoli e gli Stati
dell´Asia minore e la Grecia arcaica, sia il processo
di distinzione tra i due mondi, appunto tra Oriente e
Occidente. Alla fine la differenza è netta e non è
soltanto la diversità tra la polis e il potere non
democratico degli stati orientali, ma l´originalità di
una via culturale e politica che Mazzarino individua
nel «travaglio costituzionale» che connota la Grecia
classica. Ma leggiamo questa pagina esemplare. «Il
travaglio costituzionale ci è apparso come l´opera di
tutti i Greci; ed è un travaglio gelosamente, diremmo,
greco, senza alcun "emprunt" lidio o comunque
straniero. In esso l´anima dell´Occidente si è, la
prima volta, rivelata. Partendo da condizioni analoghe
a quelle delle città-stato orientali, i Greci tuttavia
hanno "scoperto" qualcosa che gli Orientali non
sospettavano: l´esigenza isonomica. Questa fu la
nascita dell´Occidente».
Isonomia è una voce della democrazia greca che
significa uguaglianza di fronte alla legge. La
rivoluzione francese l´ha consacrata per sempre
fondando l´Occidente moderno. A Mazzarino questo era
chiaro con in più la convinzione «illuministica» che
un altra differenza c´era nel fatto che «mancava ai
Greci quel fanatismo religioso che per gli Orientali è
simbolo della vita stessa nazionale». Ma c´è un punto
sul quale credo si debba riflettere che capire le
dimensioni di questo storico straordinario. Mazzarino
parlava di «travaglio costituzionale» della Grecia
proprio nell´anno, il l947, nel quale l´Italia stava
elaborando una nuova Costituzione. Mazzarino scriveva
il suo libro seguendo i lavori dell´Assemblea
Costituente, cioè il travaglio costituzionale di un
paese che, come la Grecia classica, scopriva i valori
della democrazia. A mio parere il rapporto cui egli
era, come si è detto, particolarmente sensibile tra
mondo contemporaneo e mondo classico, emerge qui con
una grande forza ideale e morale. Solo questa
sensibilità storica e politica può separare, senza
contrapporli, l´Oriente e l´Occidente. Mazzarino ha
spiegato, con molto stile, il senso di questa
separazione - dialogo parlando di un tempo nel quale
«si formò una cultura che è la nostra. E che, grosso
modo, si può dire greca per la politica e orientale
per la religione. Ma la stessa unità di questa nostra
cultura è prova, dunque, che nell´anima occidentale
(nell´anima greca, cioè) non c´era chiusa avversione
all´Oriente, ma aperta ansia di comprensione e di
assimilazione».
Varie volte torna la parola anima nella razionale
scrittura di Mazzarino; forse era un segreto richiamo
anche allo stoicismo e a pagani pensieri e sentimenti
di un Occidente libero e aperto a tutti.

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