venerdì 19 ottobre 2007

Quando la Chiesa detta legge allo Stato

Repubblica 17.10.07
Quando la Chiesa detta legge allo Stato
di Gustavo Zagrebelsky

Solo una forza religiosa, dice il costituzionalista,
può tenere unito il mondo
Le stesse affermazioni si trovano in molta letteratura
anti-liberale
Ma in una struttura fondata sulla libertà tutte le
credenze hanno cittadinanza
Ma è vero che le democrazie hanno bisogno della fede
per sopravvivere? I pericoli delle tesi di Böckenförde

«LO Stato liberale secolarizzato vive di presupposti
che esso stesso non può garantire. Questo è il grande
rischio che si è assunto per amore della libertà»:
così il celebre dictum del costituzionalista E.W.
Böckenförde, assurto a manifesto ideologico di quanti
sostengono l´incapacità delle democrazie liberali di
sopravvivere a se stesse e la necessità della
religione come loro presupposto. Attira la nostra
attenzione l´uso del verbo "potere": "presupposti che
non può garantire". Sono possibili due comprensioni:
non può perché non ci riesce de facto, o perché non
gli è lecito de iure. Nel primo senso, la proposizione
è descrittiva; nel secondo, normativa. La differenza è
notevole, anche rispetto alle conseguenze.
L´accento cade innanzitutto sull´impossibilità de
facto e da cui deriva un fosco vaticinio. Il focus sta
negli aggettivi liberale e secolarizzato. Lì si
troverebbe la ragione del deficit delle forze che
"tengono unito il mondo" e "creano vincolo" sociale,
senza le quali lo Stato si troverebbe come appoggiato
sul niente. Ecco un crescendo di interrogativi
retorici: «Di che cosa vive lo Stato e dove trova la
forza che lo regge e gli garantisce omogeneità, dopo
che la forza vincolante proveniente dalle religione
non è e non può più essere essenziale per lui? È
possibile fondare e conservare l´eticità in maniera
tutta terrena, secolare? Fondare lo Stato su una
"morale naturale"? E se ciò non fosse possibile, lo
Stato potrebbe vivere sulla sola base della
soddisfazione delle aspettative eudemonistiche dei
suoi cittadini?».
L´accenno alle "aspettative eudemonistiche", cioè alle
aspettative di "bella vita", getta una luce
particolare sul significato catastrofistico di queste
domande.
Uno Stato basato sulla libertà, che non possa
confidare in forze vincolanti interiori dei suoi
membri, sarà indotto, per garantire la propria
legittimità, ad accrescere illusoriamente le promesse
di benessere, con ciò avvolgendosi da sé in una
spirale mortale di aspettative d´ogni genere che,
oltre un certo limite, non potrà più mantenere.
Non sono affermazioni originali. In una forma o in
un´altra, le troviamo nella letteratura anti-liberale,
anti-individualista e anti-ugualitaria, dall´Ottocento
a oggi. Ora, però, l´impotenza dello Stato basato
sulla libertà, come impotenza de facto, è ricondotta
anche all´impossibilità de iure. Questo Stato non può
cercare di rinsaldare l´ethos di cui ha bisogno
percorrendo la strada a ritroso verso la res publica
christiana. Non può farlo perché così rinnegherebbe se
stesso, la libertà, la laicità, la tolleranza,
l´uguaglianza, il pluralismo: tutti principi dati per
acquisiti. Dunque, l´impotenza di cui parliamo
comprende entrambi i significati del "non può",
l´esistenziale e il normativo. Le premesse di cui
abbiamo bisogno devono prendere corpo non a opera
dello Stato ma in seno alla società. Sono i cittadini,
e tra questi ovviamente anche i cittadini cristiani in
nome della loro fede, a dover assumere l´habitus etico
necessario alla sopravvivenza dello Stato basato sulla
libertà. Sono i cittadini a potere e dovere garantire
gli impulsi e le forze di unificazione interiori di
cui lo Stato ha bisogno; non può (in entrambi i sensi)
essere lo Stato poiché, nelle sue mani, la religione
diventerebbe instrumentum regni.
La ricezione di queste posizioni, attraverso una
lettura semplificante del dictum sopra ricordato, non
è stata però, prevalentemente, questa. Parlerei
perfino di strumentalizzazione, se in quelle non ci
fosse un certo margine di ambiguità. La ricezione è
avvenuta nel senso che lo Stato basato sulla libertà –
in quanto Stato, non in quanto società - non può di
fatto, con le sue sole forze, darsi i propri
presupposti, ma che può, sempre in quanto Stato,
legittimamente cercarli altrove, nel cristianesimo.
Questa diversa interpretazione del "non può" è
rappresentata in modo efficace dalle parole, scritte
dal cardinale Joseph Ratzinger in un saggio del 1984:
dalla tesi che l´attuale Stato liberale e
secolarizzato non è più societas perfecta e perciò
vive di presupposti «che esso stesso non può
garantire» deriverebbe che esso ha bisogno di forze
dall´esterno che lo sostengano. Le uniche forze
disponibili sarebbero quelle del cristianesimo e con
queste lo Stato potrebbe e dovrebbe stringere
alleanza, un´alleanza, per sovrappiù, che assume il
colore di una certa sottomissione: chi accetta che un
altro getti le basi che garantiscono la sue esistenza
non deve accettare anche la dipendenza da questo
altro? La Chiesa pone la sua candidatura, in quanto
afferma la propria "rilevanza pubblica assoluta" e
rifiuta di farsi confinare nella dimensione privata
dalle coscienza. Lo stesso Ratzinger, però, mette in
luce la difficoltà: «ci troviamo di fronte a
un´aporia: se la Chiesa rinuncia a questa pretesa, non
è più per lo Stato quella di cui lo Stato ha bisogno,
se però lo Stato l´accetta, smette di essere
pluralistico e così sia lo Stato che la Chiesa perdono
sé stessi». Poiché tuttavia "nell´attuale situazione
generale della cultura il pericolo teocratico è
scarso" – così prosegue Ratzinger – "la pretesa di
riconoscimento pubblico della fede [cattolica] non può
compromettere il pluralismo e la tolleranza religiosa
dello Stato. Da qui (dal pluralismo e dalla
tolleranza) non si potrebbe dedurre la piena
neutralità dello Stato di fronte ai valori. Esso deve
riconoscere che un patrimonio fondamentale di valori,
fondati sulla tradizione cristiana, è il presupposto
della sua consistenza. Deve in questo senso
semplicemente, per così dire, riconoscere il proprio
luogo storico". Onde, conseguentemente, la richiesta
di uno status differenziato, a favore della religione
cristiano-cattolica e della Chiesa, richiesta che
inizia riguardando la questione dei simboli, ma si
estende facilmente al sostegno delle scuole
cattoliche, all´insegnamento religioso nelle scuole
pubbliche, al finanziamento agevolato delle sue
attività, per finire a una sorta di diritto d´ultima
parola nelle questioni legislative che hanno rilievo
per l´identità cristiana dello Stato.
Böckenförde dice di prendere le distanze. A me,
sinceramente, non pare. L´ordine pubblico di una
situazione costituzionale pluralista – dice - non può
appiattirsi sull´ethos di una sola religione: tutte le
religioni e confessioni devono essere incluse nel
diritto di avere e proclamare, in pubblico e in
privato, la propria fede. Ma, aggiunge, questo non
deve comportare la pretesa di un livellamento
dell´impronta religiosa che assicura l´identità dello
Stato. "Livellamento" è una parola che suona male e,
soprattutto, può significare una cosa che nessuno
richiede: un´azione di forza che mai, in una società
libera, sarebbe ammissibile. Se però sostituiamo
livellamento con uguaglianza, ci si accorge che questo
è per l´appunto ciò di cui abbiamo bisogno affinché
l´ordine pubblico si apra al pluralismo. Nello Stato
secolare fondato sulla libertà, tutte le fedi, tutte
le religioni, tutte le credenze anche non religiose o
antireligiose hanno lo stesso diritto di cittadinanza
ed è questo che costituisce "l´impronta" di questo
tipo di Stato. Rispetto a questa impronta, è
contraddittoria e pericolosa l´affermazione di
Böckenförde, che ha fatto su di me molta e negativa
impressione, che «le minoranze religiose debbano
vivere nella diaspora». Dire così significa negare
l´esistenza di un comune e unico vincolo di
cittadinanza e consentire status sociali, giuridici e
politici differenziati, a favore dei membri della
religione di maggioranza, secondo esperienze del
passato di infelice memoria. Come si possa sostenere
questo genere di posizioni e, al tempo stesso, non
contraddire l´esigenza di "assoluta neutralità" dello
Stato, esigenza che costituisce certamente il
contenuto minimo necessario di qualsiasi concezione
della laicità, e come in tal modo non si neghino i
fondamenti dello Stato secolare basato sulla libertà è
per me – lo confesso – un mistero.
Anche una seconda proposizione merita di essere
indagata: «Fino a che punto i popoli uniti in stati
possono vivere sulla base della sola garanzia della
libertà, senza avere un legame unificante che preceda
tale libertà?»
Qui, l´attenzione cade su quel "precedere". Se la
garanzia precede la libertà, non può che essere un
legame che viene da fuori, non dall´autonomia dei
singoli: un legame in qualche modo indotto, se non
imposto, per via di autorità. La Chiesa, ammesso
ch´essa possegga la riserva delle risorse etiche,
potrebbe allora legittimamente chiedere che le si
assicurino i mezzi per farle valere vincolativamente.
Questo ci dice quel "precedere". A me pare di vedere
in questa offerta di collaborazione qualcosa di
oltraggioso nei confronti della religione di Gesù di
Nazareth, perché mi sovviene di Giovanni Botero, il
teorico secentesco della ragion di Stato, dello Stato
della Controriforma: «Tra tutte le leggi non ve n´è
più favorevole a Principi, che la Christiana; perché
questa sottomette loro, non solamente i corpi, e le
facoltà de´ sudditi, dove conviene, ma gli animi
ancora, e le conscienze; e lega non solamente le mani,
ma gli affetti ancora, e i pensieri». «Questa è la
ragion di Stato, fratel mio, obedir alla Chiesa
cattolica», scriveva un discepolo di Botero, Giulio
Cesare Capaccio, nel 1634.
Non risulta facilmente comprensibile come questa
"precedenza" del legame unificante si accordi con
l´altra affermazione di Böckenförde, questa sì
pienamente conforme all´idea dello Stato secolare
basato sulla libertà, che «la religione si dispiega
[…] nella società civile e nel suo ordinamento» e che
da lì, dalla società, potrebbe influenzare lo Stato,
quale «organizzazione vincolante dell´umana
convivenza». Se così fosse, non ci sarebbe infatti
nessun bisogno di postulare un legame unificante che
"preceda la libertà": esso si formerebbe infatti,
precisamente, nella libertà.
È in questa "precedenza" che si annida la questione.
Le fedi religiose non sono affatto un problema per la
democrazia liberale – l´odierno Stato secolare basato
sulla libertà -, anzi ne possono essere forza
costitutiva nella misura nella quale i credenti si
impegnino, sulla base delle loro credenze, nella sfera
della società civile. Il problema non sono i credenti
ma è la Chiesa, quando chiede e ottiene alleanza con
lo Stato, per offrirgli "garanzie"; simmetricamente,
il problema è anche lo Stato, quando offre alla Chiesa
questa alleanza interessata. Noi, in Italia,
conosciamo bene questo rapporto di reciproco sostegno
e lo conosciamo nella forma più esplicita, quella del
Cattolicesimo "religione di Stato", esistente fino a
subito prima della Costituzione repubblicana, dallo
Statuto Albertino fino al fascismo.
L´idea di un legame sostanziale unificante precedente
la libertà corrisponde a un´idea di democrazia
protetta, a sovranità limitata. E infatti, nelle
discussioni odierne su problemi pubblici di pregnante
contenuto etico, sui quali la Chiesa come tale chiede
la parola, la loro dimensione costituzionale è
totalmente trascurata o oltrepassata. Sulla disciplina
delle relazioni familiari e dei legami interpersonali,
tra persone di sessi diversi o anche del medesimo
sesso; sui limiti della ricerca e della
sperimentazione scientifica, in rapporto alla dignità
dell´essere umano; sull´autodeterminazione delle
persone sottoposte a trattamenti medici forzati, ecc.,
la Costituzione e la giurisprudenza della Corte
costituzionale contengono indicazioni certo non
trascurabili, per chi pensa che i fondamenti etici
della convivenza siano da ricercare nella libertà;
invece, essi sono ignorati da parte di chi ragiona
"precedendo" l´esercizio della libertà che ha portato
alla formulazione dei principi della Costituzione.
Così come, più in generale, sono ignorati sia il
principio di laicità sia i suoi contenuti, quali
determinati dalla giurisprudenza costituzionale. Le
divagazione su "nuove", "sane" ecc. laicità che
provengono numerose da ambienti ecclesiastici e si
riversano nelle audizioni parlamentari, tutte le volte
in cui si discute di politica ecclesiastica, sembrano
non conoscere o, almeno, non tenere in conto i vincoli
costituzionali, come il principio di equidistanza e il
divieto, per lo Stato, di ricorrere a obbligazioni
religiose per rafforzare le obbligazioni civili e, al
contrario, il divieto, per la Chiesa, di ricorrere a
mezzi statali per rafforzare i vincoli religiosi. La
proposta del cristianesimo come legame unificante
precedente contraddice precisamente questa
separazione.
Lo Stato secolare basato sulla libertà deve dunque,
per così dire, reggersi e camminare con le energie
spirituali che la società deve avere in sé, senza
delegarle ad altri. E questo, naturalmente, è un
problema che non può essere trascurato. Ma è un
problema sociale, non politico o statale. Si dirà: il
legame tra la religione e la politica e quindi lo
Stato è un legame profondo, tutt´altro che
accidentale. Lo si vede all´opera dalla preistoria
fino quasi ai nostri giorni. E anche oggi, può
apparire che lo Stato secolarizzato dell´Europa
occidentale, rispetto al resto del mondo, sia soltanto
una deviazione, un Sonderweg, secondo l´espressione di
Jürgen Habermas, destinato in breve a rientrare. E
perfino il più radicale movimento politico fondato
sull´immanenza, la Rivoluzione francese, ha sentito
l´esigenza di divinizzare il suo regime. Invece, le
società secolari odierne basate sulla libertà pensano
di farne a meno, per fondare i propri Stati. Ma la
rinuncia a usare un Dio per i propri fini politici non
è forse, precisamente, la grande sfida ch´esse hanno
accettato "per amore della libertà"?

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