Se la psicoanalisi volta le spalle a Edipo
Non è certo un caso se la distruttività che impedisce
lo sviluppo del pensiero e dei processi simbolici
finisce oggi per preoccupare più delle vicissitudini
conflittuali legate all'oggetto del desiderio
di Fausto Petrella
Il grande mitografo Karol Kerényi mostra, in due
importanti saggi del 1966 e del 1968, la persistente
presenza del mito di Edipo nella cultura occidentale,
a partire dalla più illustre tra le sue espressioni
che l'antichità ci ha rimandato, la tragedia di
Sofocle, Edipo re. A subire il fascino di un mito le
cui origini si perdono nell'oscurità del passato più
remoto, e a garantirne la continuità, sono stati
moltissimi scrittori e poeti ai quali Kerényi fa
riferimento: da Seneca a Hölderlin, sino a
Hofmansthal, Cocteau e Gide nel '900. Ma furono
profondamente attratti da Edipo anche Thomas Mann,
Borges, Dürrenmatt, ognuno introducendo nuove
varianti, adattando il mito al proprio tempo e al
proprio sentire. Naturalmente, nel lungo tragitto
percorso dal mito edipico nei secoli, lo spartiacque
fondamentale resta l'incontro di Sigmund Freud con la
tragedia di Sofocle: era questo il «classico» che
studiò nel suo ultimo anno di liceo e dal quale
avrebbe sviluppato, dopo una gestazione
straordinariamente laboriosa, la nozione di «complesso
edipico», formulata nella sua versione completa a ben
dieci anni di distanza dall'Interpretazione dei sogni.
Slittamento di attenzione
La mossa freudiana fondamentale fu quella di vedere
nel mito edipico l'esteriorizzazione e la messa in
scena narrativa di quelle vicissitudini emotive che
rispecchiano i desideri infantili, sia amorosi che
ostili, presenti nei rapporti inconsci che governano
la famiglia e le generazioni. La psicoanalisi ha
insomma psicologizzato il mito, facendolo diventare
l'espressione di processi e affetti presenti, in gran
parte inconsciamente, in ogni bambino, e quindi in
ogni genitore.
Nella seconda metà del '900, tuttavia, la grande
narrazione edipica, con il suo potenziale emancipante,
ha lasciato il posto a micronarrazioni locali, a
oggetti parziali frammentari e all'iconografia
relativa, evidenziando la tendenza a dimenticarsi
dell'Edipo o a attribuirgli un valore scontato. Le
ragioni di questo progressivo oblio sono molteplici, a
partire dall'evidenza per cui la crisi del modello
familiare non impedisce che i genitori - queste «due
sfingi presenti alle soglie della vita», come scriveva
Peter Weiss nella sua autobiografia - continuino a
svolgere le loro funzioni strutturanti nella crescita
del bambino, ma in un registro svalutato e incerto,
spesso distorto e meno appariscente di quanto non lo
fosse in passato.
Del resto, fa parte del mito di Edipo, e del suo
crudele antefatto, anche il nostro destino di «navi
lasciate all'abbandono» in acque gelide, come cantava
Metastasio, nell'aria di un suo libretto d'opera.
Resta vero, comunque, che gli psicoanalisti farebbero
bene a non allontanare Edipo dalla loro cittadella
teorica e clinica, perché anche se rischiamo di non
vederlo, accecati come lui, il complesso che ne porta
il nome è ancora presente fra noi.
E se è evidente che il superamento della fase edipica
comporta ancora oggi il suo attraversamento, la sua
messa in scena nei sogni e il suo rendersi attivo
nelle dinamiche della vita, altrettanto chiaro è il
fatto che la sua mancata o abortita costituzione
caratterizzano molte personalità patologiche gravi e,
tipicamente, le perversioni. D'altra parte, il
deperimento odierno dell'Edipo nella teoria e nella
clinica psicoanalitica impedisce di vedervi il
complesso nucleare delle nevrosi.
Da vari decenni, come è noto, ci si concentra più
volentieri sulle fasi pre-edipiche e pregenitali,
nonché sul funzionamento della coppia madre-bambino -
sulla diade, dunque, e non sul triangolo tipico del
complesso edipico - quando si analizza la costruzione
del sé del bambino e la formazione del suo senso di
realtà. Ma questa unità rappresentata dalla coppia
madre-bambino è continuamente esposta a una cesura
obbligata, entro la quale fa la sua comparsa il
fantasma del terzo, che sia o meno il vero padre.
Più che uno spostamento di accento, i modelli
psicoanalitici hanno dunque subito uno spostamento del
loro fulcro: dalla considerazione primaria attribuita
all'eros e al soddisfacimento pulsionale sono passati
alla valorizzazione dei processi relazionali che
mirano a mitigare la distruttività emergente,
sacrificando la vita amorosa e la relazione con
l'altro.
Un compito ineludibile
Non è certo un caso se la distruttività che impedisce
lo sviluppo del pensiero e dei processi simbolici
finisce oggi per preoccupare più delle vicissitudini
conflittuali legate all'oggetto del desiderio.
Infatti, sembra sia tramontata quella valorizzazione
del piacere che corrispondeva a una concezione dello
sviluppo umano nata nella sicurezza del contenimento
familiare e nella costanza dell'«ambiente» morale;
questo processo era ritenuto essenziale per potere
procedere alla identificazione di sé con esempi
positivi, per fondare la calma interiore, per
ritrovare la quiete dopo le tempeste. E mentre, nel
corso del secolo passato, simili sicurezze sono andate
perdute, nella teoria e nella pratica della
psicoanalisi si è fatta strada l'idea che piacere e
sicurezza (due funzioni garantite, per il bambino
piccolo, dalle figure dei genitori) non trovino più
una chiara integrazione, anzi divorzino. La
psicoanalisi odierna ha una vocazione spiccata per
tutto ciò che è elementare, per i momenti più
infantili dello sviluppo, mentre rischia di far
mancare il suo impegno nell'analisi e nello smontaggio
dei dispositivi del carattere, che si concretano dopo
l'età della latenza e nella ripresa adolescenziale del
conflitto edipico.
Patologie identitarie
Salutiamo con gioia i momenti in cui nell'analisi si
fa strada un'idea di sé più libera, una superiore
visione dell'amore, capace di opporsi al super-Io
sociale e al senso di colpa: è qualcosa che si può
sviluppare tanto nell'analisi individuale quanto in
quella di gruppo, è un bene difficile da conquistare
nella realtà, ma che è anche facile perdere per via.
Però, la necessità di pensare sempre più profondamente
l'ingranaggio psicologico e sociale che ci circonda
impone alla psicoanalisi il compito, non più
eludibile, di ripensare l'Edipo, perché la sua
latitanza non significa che sia scomparso, bensì che
viene evitato, sia dal paziente che dal terapeuta. Ne
deriva, se ci guardiamo intorno, il proliferare di
disturbi dell'identità e di grandi fenomeni di
patologia collettiva.
Forse questo cuore pulsante della vita emotiva non
batte più, o più probabilmente nessuno lo prende in
considerazione e lo ascolta.
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commento:
non sono l'unico ad affermare e sostenere che Freud,
per condizioni culturali, non fosse capace di
comprendere il mito di Edipo.
Dati biografici della vita di Freud ci dicono che
venne turbato dal vedere nuda sua madre durante un
viaggio. Aggiungiamo il difficile rapporto con il
padre, derivante da un comportamento poco "virile"
durante un'aggressione verbale, possiamo così
comprendere come alcuni aspetti della psicanalisi di
Freud rappresentassero suoi problemi personali.
Purtroppo la visione religiosa monoteista in cui era
immerso ha ripodotto i suoi problemi su quasi tutta
l'umanità.
Francesco Scanagatta
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