invio una nota, trovata su internet, sulla battaglia
del fiume Frigido,
l'evento storico è poco conosciuto. Il testo a parte
il titolo "la fine del paganesimo" e di ipotetiche
"persecuzioni anti-cristiane" ad opera di alcuni
imperatori romani è interessante.
La battaglia del fiume Frigido ha rappresentato solo
la fine della possibilità di conservare lo spirito di
dell'Impero di Roma.
Durante l'impero di Roma i cristiani non vennero
perseguitati per la loro fede. L'impero di Roma fu
costretto ad intervenire a causa de "la follia dei
cristiani", si legga anche la voce relativa presente
in Wikipedia.
saluti.
Francesco Scanagatta
La battaglia del Frigido e la fine del paganesimo
di Francesco Lamendola - 30/09/2007
Fonte: Arianna Editrice
Sponde del fiume Frigidus (Vipacco), al di qua delle
Alpi Giulie, mattino del 5 settembre 394 d. C. Due
eserciti, entrambi "romani" di nome, ma in effetti
largamenti barbarici per composizione etnica,
consuetudini e mentalità, si fronteggiano
minacciosamente presso questo affluente dell'Isonzo
che, da sempre, costituisce la "porta" per l'invasione
dell'Italia da parte di popoli ed eserciti provenienti
da Nord e da Est. Si potrebbe pensare - e, per certi
aspetti, è proprio così - a uno dei tanti scontri di
potere fra imperatori più o meno legittimi, ovvero fra
usurpatori e tiranni come ne ha visti tanti la storia
del Basso Impero, da Massimino il Trace in poi. Posta
in gioco immediata: la grande e ricca Aquileia, sede
pochi anni prima (nel 381) di un grande concilio di
vescovi cattolici contro l'eresia ariana; obiettivo
finale: il possesso di Roma e dell'Italia e, quindi,
la signoria assoluta sull'Impero. In realtà, si tratta
di una svolta epocale: per l'ultima volta nella storia
del mondo antico stanno per darsi battaglia un
esercito pagano ed uno cristiano.
Sulle alture, in posizione imprendibile, è appostato
l'esercito di Flavio Eugenio, colui che ha restituito
ai templi gli antichi sussidi statali, sia pure sotto
forma di concessione alle famiglie sacerdotali dei
senatori pagani; che ha fatto nuovamente collocare
l'Altare della Vittoria, dopo interminabili dispute,
nell'aula del Senato; che ha tolto ogni divieto e
limitazione alle pratiche dell'antico culto. Eugenio,
ex magister scrinii elevato al rango imperiale dal
generale franco Arbogaste dopo la morte sospetta di
Valentiniano II, il 15 maggio 392, non era un pagano
ma un cristiano del partito moderato, che non
intendeva certo avviare una persecuzione
anticristiana: l'esempio fallimentare di Giuliano del
361-63 (e cioè solo trent'anni prima), era un chiaro
ammonimento. Eugenio e Arbogaste avrebbero voluto,
casomai, restaurare quel clima di felice tolleranza
religiosa, che ancora era stato possibile sotto
Valentiniano I, al 364 al 375, e al quale aspiravano
di tornare gli spiriti più equilibrati e prudenti dopo
la dura politica antipagana della dinastia di
Costantino.
Dall'altra parte avanzava l'esercito di Teodosio il
Grande, partito tre mesi prima da Costantinopoli per
"vendicare" il preteso suicidio di Valentiniano II
(suo cognato) e deciso a restaurare l'unità
dell'Impero. Teodosio, campione dell'ortodossia
cattolica contro pagani e ariani, è stato dominato
dalla poderosa figura del vescovo Ambrogio di Milano,
che per due volte gli ha imposto - umiliandolo - il
volere della Chiesa: quando gli ha fatto rimangiare
l'ordine di ricostruire la sinagoga di Callinico
(sull'Eufrate) a spese della comunità cattolica, che
l'aveva incendiata e distrutta; e quando gli ha
imposto pubblica penitenza per la strage di
Tessalonica (nel natale del 390), vera e propria
vigilia di Canossa. Nel febbraio 390 Teodosio emana
l'assoluto divieto del culto pagano in Roma;
nell'estate successiva ordina la distruzione del
tempio di Serapide ad Alessandria d'Egitto.
Nell'aprile del 392 annulla una sua precedente legge
che proibiva ai monaci, "gente che si ciba di
disordini", di risiedere nelle città, e ordina di
applicare sino in fondo tutti i precedenti editti
anti-pagani contro i templi e contro il culto degli
dèi: anche se praticati nelle case private, anche se
praticati mediante sacrifici incruenti.
Il 5 settembre 394 l'attacco dell'esercito di Teodosio
viene respinto e l'esercito orientale, a sua volta,
corre il pericolo di essere aggirato e distrutto. Ciò
non avviene solo perché un reparto dell'esercito
occidentale, sulla cui manovra l'abile Arbogaste aveva
specialmente contato, si lascia corrompere e permette,
così, alle truppe di Teodosio di salvarsi. Scrive lo
storico Corrado Barbagallo: "La dimane (6 settembre)
il combattimento fu ripreso. I soldati di Arbogaste
avevano tolto dalle loro bandiere il monogramma di
Cristo e lo avevano sostituito con l'mmagine di
Ercole, cara a Diocleziano e a tutti gli imperatori
romani fin dal secondo secolo. Sulla linea della
battaglia, come sui passi più minacciati, erano state
collocate le immagini di Giove Capitolino, armato di
folgore e rivolto contro i nemici. Paganesimo e
cristianesimo, Occidente ed Oriente si affrontavano a
pie' delle Alpi in quella giornata storica. E vinse
ancora una volta il labaro cristiano! Nembi di
polvere, sollevati dalla micidiale bora carsica,
paralizzarono, accecarono l'esercito occidentale, che
alla fine fu sopraffatto e distrutto. Flaviano che,
nella sua qualità di console dell'anno, così come
s'era usato nell'antica Repubblica, conduceva uno dei
corpi dell'esercito di Occidente, s'uccise; Eugenio,
fatto prigioniero, fu decapitato dai soldati;
Arbogaste si uccise due giornoi dopo." E lo storico
greco Zosimo: "La testa di Eugenio, conficcata su una
lunghissima asta, fu portata in giro per tutto il
campo (…). Arbogaste, al quale non importava la
clemenza di Teodosio, fuggì tra i monti più impervi;
ma quando si accorse che quelli che gli davano la
caccia perlustravano ogni luogo, si uccise con la
spada, preferendo morire con le sue mani piuttosto che
essere catturato dai nemici."
Da quel momento il paganesimo, come forza organizzata,
cessò praticamente di esistere. Sopravvisse ancora, e
a lungo, come culto marginalizzato, specialmente nelle
campagne. Agostino scrisse il De Civitate Dei per
confutare l'accusa dei pagani còlti, che il sacco di
Roma del 410 ad opera di Alarico fosse stato causato
dall'ira degli dèi abbandonati; Rutilio Namaziano, nel
De Reditu suo (scritto verso il 417) inveisce contro i
monaci e leva alti lamenti per la decadenza della Roma
pagana. Il cristianesimo, che ancora nel 303-05 aveva
dovuto subire la dura persecuzione di Diocleziano e
che solo con l'editto di Milano, nel 313, aveva
ottenuto il riconoscimento giuridico da parte dello
Stato, in soli ottant'anni aveva inferto al paganesimo
il colpo di grazia.
Eppure, tra la fine del IV e l'inizio del V secolo,
ebbe luogo una ripresa della cultura classica che
molti storici definiscono una vera e propria
rinascenza, e parte notevolissima di tale rinascenza
si colloca, più o meno esplicitamente, sotto il segno
del paganesimno. Come fu possibile che Giuliano
imperatore tentasse una restaurazione del paganesimo
nel 361 e che, meno di quarant'anni dopo, il
paganesimo avesse perduto irrimediabilmente la sua
battaglia per la sopravvivenza?
Cerchiamo di fare un po' di chiarezza, incominciando
dalla terminologia. Che cosa vuol dire paganesimo?
"Pagano" è colui che non ha aderito al cristianesimo,
rimanendo fedele all'antica religione. Ma non c'è,
ovviamente, una religione pagana, come vedremo fra
poco. E che significa "pagano"? Fino a pochi decenni
fa si dava per scontato che "pagano" fosse sinonimo di
"rustico" (Baronio, 1586): i villaggi, i pagi,
sarebbero stati l'ultimo rifugio del morente
paganesimo. Ma oggi gli storici e i filologi non sono
più tanto sicuri di questa etimologia. "Pagano"
potrebbe essere il civile, il borghese, contrapposto
al "soldato di Cristo" (secondo la celebre metafora di
Tertulliano). Sia in Tacito che in Svetonio pagani,
paganorum sta per "popolazione civile", in opposizione
ai soldati; Plinio il Giovane parla di milites et
pagani per indicare "militari e borghesi". E nel 1952
Christine Mohrmann, sulla base di alcuni testi,
propone di intendere "pagani" come "profani": infatti
nel IV secolo la metafora del "soldato di Cristo" non
era più tanto diffusa; e, d'altra parte, il culto
tradizionale non era ancora un fatto prevalentemente
"rurale". A quell'epoca, inoltre, all'interno del
cristianesimo si era pressoché esaurito il "filone"
giudeocristiano (formato dai convertiti dal giudaismo)
e i cristiani erano quasi tutti "gentili" (dal greco
éthnē, ebraico gojim che, nella Bibbia, indica i
popoli estranei al patto dell'Alleanza). Perciò quelli
che erano stati definiti come "gentili" (e che, nella
tradizione bizantina, continuao a essere definiti
"elleni") divennero "pagani", mentre i cristiani di
origine pagana, cioè la quasi totalità, non potevano
più riconoscersi come "greci" (cfr. S. Paolo, Romani,
II, 9.10), bensì come portatori di una cultura
radicalmente e orgogliosamente "altra" rispetto a
quella "greca", cioè pagana.
La nozione di paganesimo è quindi di matrice teologica
e riflette l'idea biblica di una Rivelazione rivolta
al "popolo eletto", circondato da una realtà umana
qualificata come estranea, aliena, profana: i pagani,
ossia "le genti" (Efesini, II,12), "prive di
cittadinanza in Israele". È chiaro che "pagano" è un
termine generico, che si riferisce a tutte le
religioni non cristiane (giudaismo escluso) della
tarda antichità. In Galati, IV, 9, il paganesimo è
identificato con una religione naturalistica, che
venera le forze cosmiche (sia terrestri che astrali)
ritenute capaci di influire sulla vita umana. In
contrapposizione al monoteismo biblico, il paganesimo
si presentava, specialmente nell'accezione più propria
- quella greco-romana - come una religione "etnica",
ossia tramandata con la stirpe e destinata a
consolidarla, tenendo viva la tradizione e la memoria
degli antenati; e come religione "politica" che
celebra, consacra e cementa l'unità della società
civile e la sottomissione dei suoi membri
all'autorità, simboleggiata dalla figura
dell'imperatore. Quest'ultimo, infatti, è anche
Pōntifex Maximus, "capo del collegio dei
pontefici", titolo che conservarono anche i primi
imperatori cristiani, Costantino compreso (solo
Graziano, 367-383, vi rinunciò formalmente); e che poi
passò, ovviamente con altro significato, al vescovo di
Roma e ai suoi successori.
Si tengano presenti questi tre aspetti qualificanti
del paganesimo dal punto di vista cristiano:
naturalismo, religione etnica, religione politica.
Secondo F. König, il termine "paganesimo" designa
tutte le religioni "sorte dai popoli, dal loro sangue
e spirito, e non provenienti da Dio"; secondo N.
Turchi, esso indica tutte quelle religioni o
religiosità, soprattutto popolari, accomunate dalla
credenza nelle virtù degli elementi naturali, con
caratteri superstiziosi, animistici, spiritistici,
astrologici, in contrapposizione alla fede nel Dio che
regna sulla natura e sull'uomo, da lui creati.
Fatta questa necessaria premessa metodologica, diamo
un rapidissimo sguardo al panorama complessivo delle
religioni non bibliche della tarda antichità. La
religione greco-romana sopravvive ormai quasi solo
nella dimensione politico-sociale e in quella
mitologico-letteraria. La grande crisi spirituale
degli ultimi secoli della Repubblica romana l'ha
praticamente distrutta come forza viva a livello
interiore: ridotta a mero formalismo liturgico, si
trascina per forza d'inerzia. I due secoli a cavallo
dell'èra cristiana sono stati definiti, dagli storici
moderni, come a-religiosi: l'età che va da Lucrezio e
Cicerone fino agli ultimi Antonini corrisponde a un
diffuso agnosticismo, in cui solo i culti misterici
(orfici, eleusini, dionisiaci) tengono ancora in vita
un legame vero e sentito fra l'uomo e la divinità. Né
mancano autori, come Luciano di Samosata (nel dialogo
Le sette all'incanto), che si fanno beffe delle varie
filosofie pagane e della religione tradizionale.
A partire dalla fine del II secolo arriva nell'Impero
Romano la grande invasione delle religioni orientali a
carattere soteriologico e tendenzialmente
monoteistico, che meglio rispondono alle esigenze
spirituali di quella che è stata definita (dallo
storico Charles Harold Dodd) un'"epoca di angoscia",
quale fu quella tardo-antica. I culti di Iside e
Osiride dall'Egitto, di Cibele dall'Asia Minore, di
Mithra dalla Persia fanno irruzione nella società
romana e si diffondono a macchia d'olio fin nel cuore
dell'Occidente (Gallia e Britannia comprese),
specialmente fra gli strati più umili della
popolazione e fra l'elemento militare (in particolare
il mitraismo). In effetti, nell'Occidente latino si
era prodotto in precedenza un autentico vuoto
spirituale, anche perchè il druidismo, la più diffusa
religione del mondo celtico, era stato distrutto a
viva forza dai Romani per ragioni politiche.
Generalmente si crede che i Romani siano stato
tolleranti nei confronti di tutte le religioni antiche
ad eccezione del cristianesimo; ma ciò non è esatto.
Oltre al fatto che Diocleziano perseguitò il
manicheismo prima ancora del cristianesimo (editto del
296), si dimentica che il Senato romano fin dal 54 d.
C. aveva emesso un decreto che aboliva la religione
druidica; e che, sette anni dopo, venne lanciata una
campagna per debellare le ultime vestigia di essa. Lo
scontro finale ebbe per teatro l'siola di Mona
(Anglesey), di fronte alla costa nord-occidentale
dell'odierno Galles, una delle maggiori roccaforti del
druidismo. Secondo il racconto di Tacito, quando le
imbarcazioni romane raggiunsero la riva, dai boschi
sbucarono sacerdoti druidi dalle lunghe barbe e donne
munite di torce, lanciando terribili maledizioni
contro gli invasori (Annales, XIV, 30). Ma i soldati
romani avanzarono massacrando uomi e donne e
macchiando di sangue gli alberi del banchetto sacro.
Il comandante Svetonio Paolino stabilì una guarnigione
sull'isola col preciso compito di sorvegliare i vinti
e abbattere i boschi "consacrati alle selvagge
superstizioni dei Celti". Scrive Tacito: "Tra
l'altro[i druidi] ritenevano un sacro dovere
cospargere gli altari con il sangue dei prigionieri e
consultare gli dèi spiando nelle viscere umane": "nam
cruore captivo adolere aras et hominum fibris
consūlěre deos fas habebant".
Ma torniamo alla penetrazione delle religioni
orientali nel mondo tardo romano. Giustamente si è
chiesto Franz Cumont, uno dei massimi esperti in
materia: "Ma si può parlare di una religione pagana?
Il mescolamento delle razze non aveva avuto per
risultato di moltiplicare la varietà dei dissensi?
L'urto confuso delle credenze non aveva prodotto un
frazionamento, una frantumazione di esse, e le
compiacenze del sincretismo un pullulamento di sette?
'Gli elleni, diceva Temistio all'imperatore Valente,
hanno trecento maniere di concepire e d'onorare la
divinità, che si rallegra di questa varietà di
omaggi.' Nel paganesinmo, i culti non periscono di
morte violenta, ma si spengono dopo una lunga
decrepitezza. Una dottrina nuova non si sostituisce
necessariamente ad una più antica. Esse possono
coesistere per molto tempo, come possibilità contrarie
suggerite dall'intelligenza o dalla fede, e tutte le
opinioni, tutte le pratiche vi appaiono rispettabili.
Le trasformazioni non vi sono mai radicali né
rivoluzionarie. Certo, nel IV secolo come
precedentemente, le credenze pagane non vi ebbero la
coesione di un sistema metafisico o il vigore di
canoni conciliari. Vi è sempre una distanza
considerevole tra la fede popolare e quella degli
spiriti colti, e questa distanza doveva essere grande
soprattutto in un impero aristocratico, in cui le
classi sociali erano nettamente separate. La devozione
delle folle è immutabile come le acque profonde dei
mari; essa non è trascinata, né riscaldata dalle
correnti superiori. I campagnuoli continuavano, come
per il passato, a praticare pii riti presso pietre
unte, sorgenti sacre, alberi coronati di fiori, e a
celebrare le loro feste rustiche alle semine o alle
vendemmie. Ess isi tenevano stretti con una tenacia
invincibile ai loro usi tradizionali. Questi dovevano
persistere, degradati, caduti al livello di
superstizioni, sotto l'ortodossia cristiana senza
metterla seriamente in pericolo, e se non sono più
notati nei calendari liturgici, lo sono qualche volta
nelle raccolte di folklore.
"All'altro polo della società, i filosofi potevano
compiacersi a velare la religione col tessuto
brillante e fragile delle loro speculazioni. Essi
potevano, come l'imperatore Giuliano, improvvisare a
proposito del mito della Gran Madre interpretazioni
ardite e sottili, che erano accolte e gustate in un
ristretto cerchio di letterati. Ma queste licenze
della fantasia esegetica non sono, nel IV secolo, che
un'applicazione arbitraria di princìpi incontestati.
L'anarchia intellettuale è allora assai minore del
tempo in cui Luciano metteva 'le sette all'incanto';
un accordo relativo s'è stabilito fra i pagani da
quando essi sono all'opposizione. Una sola scuola, il
nepolatonismo, regna su tutti gli spiriti e questa
scuola non è soltanto rispettosa della religione
positiva, come già l'antico stoicismo, ma la venera,
perché vede in essa l'espressione di un'antica
rivelazione, trasmessa dalle generazioni scomparse.
Essa considera come ispirati dal cielo i suoi libri
sacri, quelli d'Ermete Trismegisto, d'Orfeo, gli
Oracoli caldaici, Omero stesso, soprattutto le
dottrine esoteriche dei misteri, e subordina le sue
teorie ai loro insegnamenti. Poiché fra tutte queste
tradizioni disparate, venute da paesi così diversi e
datanti da epoche così differenti, non vi può essere
contraddizione, poiché esse emanano da un'autorità
unica, la filosofia, ancilla theologiae, si adopererà
a metterle d'accordo, ricorrendo all'allegoria. Ed in
tal modo si stabilisce a poco a poco, per mezzo di
compromessi fra le vecchie idee orientali ed il
pensiero greco-latino, un insieme di credenze la cui
verità sembra provata da un consenso universale.
"In tal modo, le parti atrofizzate dell'antico culto
romano erano state eliminate, mentre elementi
stranieri erano venuti a dargli un vigore nuovo,
combinandosi e modificandosi in esso. Questo lavoro
oscuro di decomposizione e di ricostituzione interna
aveva elaborato insensibilmente una religione assai
diversa da quella che Augusto aveva tentato di
restaurare."
A proposito del paganesimo còlto, dobbiamo far cenno
ai principali sviluppi della filosofia greca dopo
Plotoino (205-270 d. C.), il massimo esponente del
pensiero tardo-antico. Plotino aveva insegnato che
l'anima è anzitutto anima cosmica, anima universale,
che lega tutte le cose sensibili mediante un rapporto
profondo di "simpatia" reciproca e controbilancia la
tendenza, propria della materia, a dissolverle e
disperderle. È, quindi, nell'anima che s'incontrano
tempo ed eternità, o meglio è l'anima che genera il
tempo secondo ritmi e pulsazioni. La dottrina
dell'anima cosmica e del nesso profondo tra l'anima
umana e quella universale da una parte, e quella delle
cose sensibili dall'altra, nonché della consonanza e
omogeneità tra macrocosmo e microcosmo spinge Plotino
a ipotizzare la possibilità della loro comprensione
reciproca, in senso profondamente non dualistico.
Plotino combatte ogni concezione antagonistica del
rapporto tra spirito e natura e ciò lo accosta a
correnti del pensiero non duale dell'India antica,
quali il Vedanta o lo Yoga di Patanjali. Coincidenze,
forse, più che casuali, se è vero - come è vero - che
maestro di Plotino era stato quell'Ammonio Sacca
(circa 180-242 d. C.) che pare fosse un Indiano della
casta dei Sakya (la stessa di Buddha). L'anima, poi -
secondo Plotino - si trova di fronte a due vie: quella
di lasciarsi irretire dall'interesse per il sensibile,
restandone irrimediabilmente appesantita e
impastoiata; oppure quella del ritorno e
dell'unificazione verso l'intelligibile. In questa
seconda strada svolgeva un ruolo fondamentale, secondo
l'insegnamento di Platone, l'amore per la bellezza,
capace di attarre l'anima verso il mondo delle idee,
attraverso e non contro (come invece per il pensiero
cristiano) l'eros della corporeità.
I massimi esponenti della scuola neoplatonica sono
Porfirio di Tiro (233 o 234-305), Giamblico di Calcide
in Celesiria (250 ca.-325 ca.), Proclo di
Costantinopoli (410 o 412-485). "Il genio di Plotino -
secondo Léon Robin - era fatto dell'intensità della
sua vita spirituale. Nulla di simile nel Neoplatonismo
posteriore. Esso, al contrario, dissecca il pensiero
del maestro, che organizza in una scolastica dotta.
Difende contro i cristiani la causa della cultura
razionale, di cui la sua filosofia religiosa crede di
essere l'erede. Interpreta metodicamente la filosofia
classica in conformità con i suoi principi. Infine,
fonda su questi un occultismo e una stregoneria
filosofiche."E ancora il Robin, così si esprime sul
primo importante successore di Plotino in ordine
cronologico, Porfirio. "Dopo avere, nella sua
Filosofia degli oracoli e nelle Immagini degli dèi,
esposto la sua concezione dei misteri e della
salvezza, ed elaborato tutto un rituale teurgico di
magia purificatrice, adattò poi le sue concezioni alla
mistica di Plotino e scrisse la sua grande opera
Contro i cristiani di cui questi ultimi, dopo un
secolo e mezzo di polemica, ottennero finalmente la
distruzione. Tutta questa parte della sua opera è
dominata, d'altronde, dalle sue preoccupazioni morali.
Così, se egli raccomanda l'astinenza della carne, è
perché questa pratica ascetica ha un valore etico di
purificazione. Lo stesso dicasi dell'interpretazione
dei poeti nel suo Antro delle Ninfe nell'Odissea".
Porfirio, a differenza di molti altri neopolatonici,
mostra una decisa avversione per la magia e mette in
dubbio tutta la demonologia della sua scuola. Alle sue
obiezioni si risponde con un'opera nota con il titolo,
inesatto, Dei misteri degli Egiziani e attribuita,
altrettanto erroneamente, al celesiro Giamblico che,
sotto Costantino, era considerato il capo della
scuola. Secondo Jakob Burckhardt, che ha parlato, a
tal proposito, di una vera e propria demonizzazione
del paganesimo, qui "si tratta di una mistica del
politeismo, i cui dèi sono stati declassati a dèmoni
di grado diverso e privati di una precisa personalità.
Il contenuto di questo triste pasticcio è, in breve,
una elencazione dei diversi modi di adorare, implorare
e distinguere questi spiriti, di come il saggio caro
agli dèi debba risolversi nel loro culto, e la scuola
neoplatonica del IV secolo si dimostra anche troppo
indulgente verso questo tipo di degenerazione, tanto
da riconoscere nella teurgia un'arma fondamentale
nella lotta contro il cristianesimo." Tale tendenza,
peraltro, è già presente fin dal II e III secolo, in
opere come La vita di Apollonio di Tiana di
Filostrato, che volutamente contrappone la figura del
filosofo-teurgo a quella del Cristo; scritto, pare, su
suggerimento di Giulia Domna, moglie di Settimio
Severo, in funzione apertamente anti-cristiana.
Approfittiamo qui per chiarire, per inciso, che nella
cultura greca il dàimon è un essere soprannaturale
tanto benefico (come quello da cui si diceva ispirato
Socrate) che - più spesso - malefico. Si ricordano, ad
esempio, Eurinomo che divora le carni dei cadaveri;
Empusa, demone notturno che si nutre di carne umana;
Lamia, che divora specialmente i bambini. I primi
scrittori cristiani avevano sottolineato questo
aspetto negativo per inferirne la malvagità di tutti i
dèmoni e, in ultima analisi, di tutti gli dèi del
paganesimo: vedi San Paolo che in II Timoteo, 2,
25-26, afferma che il demonio afferra i pagani nei
suoi lacci per costringerli a fare la sua volontà; e
che, in 1 Corinzi, 10, 20, arriva al punto di
sostenere che i sacrifici resi agli dèi sono, in
realtà, offerte al demonio.
Secondo Chester G. Starr, Giamblico "è una figura di
scarso rilievo a paragone dei grandi teologi
cristiani." Il suo contributo al pensiero di Plotino
consiste principalmente nel porre fra il primo Uno e
le anime particolari un mondo intermedio dello
spirito, presieduto dal secondo Uno e composto da una
complessa gerarchia di ipostasi. Inoltre, sotto
l'influenza delle credenze orientali, inserisce nella
dottrina neoplatonica elementi tratti dagli Oracoli
caldaici, contaminandoli con motivi magico-teurgici.
In ciò egli è coerente con la convinzione che la
filosofia, di per sé, non possa fornire una risposta
alla domanda circa il fine ultimo dell'uomo.
Alla tarda scuola neoplatonica appartengono anche
Desippo, di cui ci resta un commento alle Categorie;
Libanio e Temistio, rètori e studiosi di notevole
levatura; Sallustio, il cui libro Sugli dèi e il mondo
espone come la filosofia neoplatonica possa servire di
base alla religione tradizionale; e l'imperatore
Giuliano, uomo di notevole intelligenza e di grande
cultura, autore di otto orazioni, un'ottantina di
lettere, un'opera satirica (il Convivio) e il
Misopogon, difesa della sua opera religiosa e feroce
invettiva contro la folla cristiana di Antiochia. Con
Proclo giungiamo fin verso la fine del V secolo e,
quindi, oltre i limiti cronologici del nostro
discorso. Basterà dire che Proclo crea un sistema
speculativo entro il quale riesce a fondere
organicamente tutte le acquisizioni filosofiche,
scientifiche e religiose del mondo antico. Ma nel 396
i Goti di Alarico incendiano il Santuario di Eleusi;
nel 415 Ipazia viene assassinata dalla folla cristiana
di Alessandria; nel 489 viene chiusa la scuola
siriaca di Edessa; nel 529 Giustiniano ordina la
chiusura della scuola di Atene e gli ultimi
ellenizzanti, ossia partigiani dell'antica cultura,
cercano rifugio alla corte del re dei Persiani, un
sovrano amico della filosofia: Cosroe.
Vale la pena di soffermarsi sul primo di questi
episodi; e, nel farlo, cediamo la penna al grande
studioso delle religioni Mircea Eliade, che vi ha
scorto un evento epocale. "Nessun avvenimento storico
può meglio indicare la fine 'ufficiale' del paganesimo
se non l'incendio del santuario di Eleusi, attuato nel
396 da Alarico, il re dei Goti; e d'altro lato, nessun
altro esempio può meglio indicare i misteriosi
processi di nascondimento e di continuità della
religiosità pagana. Nel V secolo lo storico Eunapio,
anch'egli iniziato ai Misteri Eleusini, riferisce la
profezia dell'ultimo ierofante legittimo: in presenza
di Eunapio, lo ierofante predice che il suo successore
sarà illegittimo e sacrilego; non sarà neppure
cittadino ateniese e, ancor peggio, sarà uno che,
'consacrato ad altri dèi', sarà legato al suo
giuramento 'di presiedere esclusivamente alle loro
cerimonie'. A causa di tale profanazione il santuario
verrà distrutto e il culto delle Due Dee scomparirà
per sempre.
"In effetti, continua Eunapio, divenne poi ierofante
un alto iniziato ai misteri di Mithra (dove rivestiva
il ruolo di Pater); questi fu l'ultimo ierofante di
Eleusi, perché poco tempo dopo giunsero, attraverso il
passo delle Termopili, i Goti di Alarico, seguiti da
'uomini in nero' (i monaci cristiani), e il più antico
e importante centro religioso d'Europa fu
definitivamente distrutto.
"Tuttavia, se a Eleusi scomparve il rituale
iniziatico, non per questo Demetra abbandonò il luogo
della sua teofania più drammatica; è vero che, nel
resto della Grecia, san Demetrio ne aveva preso il
posto, divenendo il patrono dell'agricoltura, ma a
Eleusi si parlava - e si parla ancora - di santa
Demetra, santa sconosciuta altrove e mai canonizzata.
Fino all'inizio del XIX secolo, i contadini del
villaggio coprivano ritualmente di fiori una statua
della dea, perché essa assicurava la fertilità dei
campi, ma, nonostante la resistenza armata degli
abitanti, la statua fu rimossa nel 1820 da E. D.
Clarke e offerta all'Università di Cambridge. Sempre a
Eleusi, nel 1860, un sacerdote raccontò all'archeologo
F. Lenormand la storia di santa Demetra: era una
vecchia di Atene, cui un 'Turco' aveva rapito la
figlia, che fu tuttavia poi liberata da un prode
pallikar; e nel 1928 Mylonas sentì raccontare questa
stessa storia da una nonagenaria di Eleusi.
"L'episodio più toccante della mitologia cristiana di
Demetra avvenne all'inizio del febbraio 1940 e fu
ampiamente riferito e discusso dalla stampa ateniese.
A una fermata dell'autobus Atene-Corinto salì una
vecchia, 'magra e rinsecchita, ma con grandi occhi
molto vivaci'; poiché non aveva denaro per pagare il
biglietto, il controllore la fece scendere alla
stazione seguente - quella di Eleusi, appunto. Ma il
conducente non riuscì più a mettere in moto l'autobus
e, alla fine, i viaggiatori decisero di fare una
colletta per pagare il biglietto della vecchia. Questa
risalì sull'autobus, che ora poté ripartire. Allora la
vecchia disse: 'Avreste dovuto farlo subito, ma siete
degli egoisti; e già che sono qui, vi voglio dire
ancora una cosa: sarete castigati per il modo in cui
vivete; vi saranno tolte persino l'erba, e l'acqua!'.
'Non aveva ancora finito la sua minaccia - continua
l'autore dell'articolo pubblicato sull'Hestia - ed era
scomparsa… Nessuno l'aveva vista scendere. E si andò a
riguardare il blocchetto dei biglietti per convincersi
che era veramente stato staccato un biglietto.
"Riportiamo a mo' di conclusione, la cauta
osservazione di Charles Picard: 'Credo che, dinanzi a
questo aneddoto, gli ellenisti non potranno fare a
meno di ritornare con la memoria a certi passi del
celebre Inno omerico, dove la madre di Kjore,
tramutatasi in vecchia nel palazzo del re eleusino
Celeo, profetizzava anche in quell'occasione e -
rimproverando gli uomini per la loro empietà -
annunciava, in un impeto di collera, terribili
catastrofi in tutta la regione."
Nell'Occidente latino vi è pure una certa fioritura
filosofico-letteraria della cultura pagana nel IV e V
secolo, anche se meno profonda e originale, sul piano
strettamente specultativo, di quella del mondo
greco-orientale. Si segnalano storici vigorosi come
Ammiano Marcellino, poeti come Decimo Magno Ausonio
(un cristiano assai tiepido, impregnato di cultura
classica), Claudio Claudiano e Rutilio Namaziano;
oratori come Quinto Aurelio Simmaco; traduttori e
commentatori di opere filosofiche come Vettio Agorio
Pretestato, G. Mario Vittorino e Virio Nicomaco
Flaviano (traduttore della già citata Vita di
Apollonio di Tiana di Filostrato e caduto, come si è
detto, nella battaglia del Frigido); grammatici come
Elio Donato ed eruditi come Ambrosio Teodosio Macrobio
e Marziano Felice Capella. Vi è un momento, verso gli
anni '80 del IV secolo, in cui la bilancia fra
cristianesimo in ascesa (ma lacerato da feroci lotte
interne: "lotte di bestie feroci", scrive Ammiano
Marcellino) e paganesimo declinante (ma ancora
relativamente forte, specie nell'Occidente latino)
sembra sospesa in equilibrio. È in tale contesto che
si colloca la disputa sull'Altare della Vittoria, in
cui si affrontano - a distanza - due fra i massimi
esponenti delle rispettive culture e religioni: il
vescovo di Milano, Ambrogio, e il prestigioso oratore
e scrittore Quinto Aurelio Simmaco, praefectus Urbi al
tempo dell'imperatore Graziano (384-385).
Nell'aula della Curia era stata posta da Augusto la
statua della Vittoria (come riferisce Dione Cassio),
presso l'omonimo altare, e vi era rimasta (affermano
Svetonio, Lampridio, Erodiano) fino al IV secolo. Ai
suoi piedi i senatori usavano bruciare l'incenso,
eseguire della musica durante i sacrifici, prestare
giuramento. Rimossa, per breve tempo, all'epoca della
visita a Roma di Costanzo, nel 357; ricollocata subito
dopo o, al più tardi, sotto Giuliano (361-363); era
stata rimossa in maniera formale per volere
dell'imperatore Graziano nel 382, nel contesto di una
più ampia legislazione anti-pagana (abolizione della
carica di Pontifex Maximus; abolizione delle immunità
e delle sovvenzioni statali alle Vestali e ai collegi
sacerdotali). Da Roma, allora, parte per Milano
(allora capitale della pars Occidentis) una
delegazione di senatori per chiedere la revoca del
provvedimento: Graziano, su consiglio di Ambrogio, non
la riceve nemmeno. L'anno dopo, il 383, l'imperatore
cade assassinato - a Lione - per mano dell'usurpatore
Massimo; il nuovo imperatore, Valentiniano II, è un
bambino dodicenne che a stento riesce a conservare
l'Italia, sotto la tutela della madre Giustina (ariana
e, perciò, nemica di Ambrogio. Il debolissimo sovrano,
per reggersi in qualche modo, deve appoggiarsi anche
sull'ancor forte elemento pagano: sono pagani i
comandanti militari Bautone e Rumorido; il prefetto di
Roma, Vettio Agorio Pretestato; il prefetto del
Pretorio, Quinto Aurelio Simmaco. Così, nel 384, una
seconda delegazone senatoria parte per Milano e
Simmaco può leggere la sua orazione davanti al
consistorium e alla presenza dell'imperatore. Orazione
che risulta così abile e pacata, che gli stessi membri
cristiani del Sacro Consiglio sembrano profondamente
scossi e propensi non solo a cedere alla richiesta che
la statua venga ricollocata in Senato, ma che gli
stessi editti anti-pagani di Graziano siano abrogati.
"Restauriamo, quindi, i riti e i culti , che così
lungamente protessero il nostro Stato. Possiamo certo
noverare prìncipi seguaci dell'una e dell'altra fede:
d'essi, i primi han professato la religione dei padri,
altri, più vicini a noi, pur non professandola, non
l'hanno soppressa. Ora, se non serve a voi d'esempio
la religione dei primi, vogliate almeno ispirarvi alla
tolleranza di quegli altri." ("Si exemplum non facit
religio veterum, faciat dissimulatio proximorum"). Un
discorso, dunque, tutto ispirato al valore della
tolleranza, della pacificazione. Ma la reazione di
Ambrogio è immediata e durissima. Scrive una prima
lettera al'imperatore-bambino, chiedendo - di fatto,
ordinando - di avere copia della relazione di Simmaco,
onde poterla studiare con calma (lettera XVII): "Ond'è
che, poiché devi riconoscere che accogliere le
richieste dei gentili vuol dire recare offesa
innanzitutto a Dio e quindi a tuo padre e a tuo
fratello [entrambi defunti], chiedo che tu faccia solo
ciò che può giovare alla tua salvezza presso Dio."
("Unde cum id advertas, imperator, deum primum, inde
patri et fratri iniurias irrogari, si quid tale
decernas, peto ut id facias, quod saluti tuae apud eum
intelligi profuturum"). Una minaccia, dunque, neanche
tanto velata; oltre che una strumentalizzazione della
politica religiosa di Valentiniano I, improntata a
larga ed energica tolleranza. Quindi, avuta dalla
cancelleria imperiale copia della relatio di Simmaco,
Ambrogio indirizza una seconda e più lunga lettera a
Valentiniano II (la XVIII), ancor più energica: "E
invero, a chi asserisce che non seguendo una sola via
è dato penetrare nei segreti recessi dell'Essere, così
replichiamo: quel che voi ignorate, noi l'abbiamo
appreso dalla voce stessa di Dio; e quel che cercate
per incerte vie, noi sappiamo in modo certo dalla
stessa sapienza e verità divina". ("Quod vos
ignoratis, id nos dei voce cognovimus. Et quod vos
suspicionibus quaeritis, nos ex ipsa sapientia dei et
veritate compertum habemus"). E prosegue: "Ma, a
sentir Simmaco, son da restituire i simulacri ai loro
altari, i loro ornamenti ai templi. Ora, perché non
chiedono i gentili coteste cose a quei ch'anno le
stesse loro superstizioni? Un imperatore cristiano non
può onorare che l'altare di Cristo". ("Christianus
imperator aram solius Christi didicit honorare").
Perché vogliono costringere mani pie e labbra fedeli a
porsi a servizio dei loro sacrileghi culti? Risultato:
anche questa volta le speranze dei senatori pagani
finiscono deluse: la statua non viene ripristinata
nella Curia.
Su questa vicenda Fabrizio Canfora, curatore di
un'utile monografia per i tipi dell'editore Sellerio
(citata in bibliografia), opera una sottile
distinzione fra intolleranza repressiva (quella dei
pagani contro i cristiani dei primi tre secoli) e
intolleranza liberatrice (quella dei cristiani che,
diventati padroni dello Stato, son costretti a negarla
a quelle forze conservatrici - i pagani - che non
accettano l'idealità nuova, la più viva e intensa
spiritualità, il messaggio sociale rivolto a sollevare
le masse dalla loro condizione subalterna portato,
appunto, dal cristianesimo. Perché "l'intolleranza
liberatrice" è la sola via che conduce - afferma -,
nelle società umane, alla riduzione e all'eliminazione
progressiva di forme storicamente determinate di
discriminazione, di servitù. Vengono in mente, davanti
a questi argomenti di Canfora, quelli con cui Lenin
giustifica lo scioglimento dell'Assemblea Costituente
nel 1917 (che aveva sonoramente bocciato i bolscevichi
e premiato, invece, i socialrivoluzionari) in nome di
una democrazia proletaria più avanzata della vecchia e
"superata" democrazia borghese. Fabio Canfora
conclude, infatti, testualmente: "è evidente che
tollerante è Simmaco, ma d'una tolleranza, come s'è
definita, repressiva; che intollerante è Ambrogio, ma
d'una intolleranza, per i problemi e le istanze dei
suoi tempi, liberatrice".
Che dire di una tale interpretazione della vicenda
relativa all'Altare dell Vittoria? Secondo noi, è
possibile consentire alle tesi di Canfora ad una sola
condizione: quella di accettare, manicheisticamente,
l'assoluta superiorità morale e sociale del
cristianesimo (ma quale? quello dei Vangeli o quello
di Ambrogio? e quello dei Vangeli canonici o quello
dei Vangeli gnostici?) di fronte a un paganesimo
identificato con quanto di peggio (imperialismo,
schiavitù, violenza) aveva prodotto il mondo antico. È
la tesi, parecchio semplificatrice, di Leopoldo
Montanari: "La rivoluzione cristiana consiste in
questo: essa ha creato un nuovo tipo di uomo,
radicalmente diverso da quello antico… L'uomo vecchio
è l'uomo-istinto, l'uomo-animale da preda, che
considera l'esistenza una lotta continua di tutti
contro tutti, e che vede nella guerra l'attività più
nobile e più alta. Questo tipo di uomo si formò nelle
età più antiche, quando (…) il guerriero diventò
l'uomo-modello, il tipo di uomo più perfetto da
imitare, e il coraggio, la forza fisica, l'astuzia, la
durezza spietata, la crudeltà si affermarono come le
doti più importanti e più pregevoli. Questi ideali
furono ereditati e conservati anche dalle grandi
civiltà antiche. Roma e la Grecia si educarono
leggendo l'Iliade di Omero, il poema della guerra,
degli odî, delle vendette feroci, delle ire
implacabili. Il cristianesimo si oppose radicalmente a
tali idee e creò un nuovo ideale di uomo. L'uomo
cristiano è l'uomo-spirito, cioè un essere che non è
solo istinto ma anche e soprattutto anima. L'esistenza
non deve essere una lotta di tutti contro tutti, ma un
lavoro concorde, compiuto per sopportare con minor
pena le fatiche inevitabili che la vita stessa ci
porta, e per affrontarne insieme i problemi. L'uomo
nuovo, perciò, ci propone come modello non più il
guerriero, ma il lavoratore. Gesù non era forse un
falegname e i suoi primi seguaci, pescatori e
contadini? Le virtù da ammirare e seguire non sono la
forza, il coraggio e l'eroismo guerrieri, ma la
pazienza, la laboriosità, il cuore puro, l'umiltà, il
senso della giustizia. All'ira vendicativa, tanto
celebrata dai poeti classici, si contrappone l'amore e
il perdono…" (da L. Montanari, Storia e civiltà
dell'uomo, Bologna, 1967, vol. 1, p. 286).
Semplificazioni e generalizzazioni eccessive ci
sembrano alla base di questo ragionamento: come se il
cristianesimo, fin dai suoi esordi quale religione
organizzata, fosse stato un radicale e improvviso
voltar pagina; come se, nella sua storia primitiva,
non si trovassero innumerevoli passaggi che
testimoniano come non tutta la purezza, l'innocenza e
la mansuetudine fossero sempre e solo dalla sua parte;
mentre il paganesimo (come vorrebbe San Paolo
nell'Epistola ai Romani) non fu solo e unicamente una
sentina dei più turpi vizi che l'umanità abbia mai
nutrito in seno. Vogliamo ricordare che, nella contesa
per l'elezione pontificaledel 384, i partigiani dei
due opposti candidati, Damaso e Ursino, al termine di
scontri sanguinosi lasciarono decine di cadaveri sulle
strade e nelle chiese di Roma? Che ad Alessandria
d'Egitto, verso il 415, i cristiani della città
assassinarono con crudeltà inaudita, scorticandola con
gli orli taglienti dei gusci d'ostrica, la filosofa
Ipazia, personaggio tanto puro ed eccelso della
cultura neoplatonica che il vescovo Sinesio di Cirene
(cresciuto alla sua scuola), nonostante la differenza
di fede, l'aveva chiamata "sorella, madre, amica e
maestra"? E che nel 383 la Chiesa cattolica aveva
inaugurato la tragica e millenaria tradizione di
mandare al rogo i suoi membri considerati eretici,
bruciando tra le fiamme Priscilliano di Avila sotto
l'accusa di magia e manicheismo? No, decisamente non è
per via empirica (e nemmeno, secondo noi, per via
teorica) che si può legittimamente parlare di
intolleranza liberatrice, espressione intrinsecamente
contraddittoria e politicamente inaccettabile
(vorremmo dire di più: radicalmente anticristiana e
non solo per la giustificazione della violenza, ma per
la sua tortuosa apologia). Del resto, la storia viene
scritta ai vincitori: e Teodosio, con gli editti
anti-pagani fra il 380 e il 390, aveva spento con la
forza il paganesimo. Che poi esso fosse già languente
per propria debolezza, è altra questione; ma non si
può dire che la sua auto-consunzione fosse certa, se
ancora nella più tarda antichità era in grado di
esprimere figure notevoli quali Porfirio, Giamblico e
Proclo. Potremmo dissertare all'infinito circa le
rispettive virtù e i rispettivi limiti delle due
religioni, ma sarebbe un esercizio intellettuale
gratuito; l'unica cosa che potremmo dire è che non
sarebbe storico confrontare il cristianesimo dei
Vangeli con il paganesimo ignorante e superstizioso
del IV o V secolo. Anche il cristianesimo dei primi
secoli ebbe, specialmente dopo Costantino, le sue
folle ignoranti e superstiziose: quelle, per
intenderci, che incendiarono il Serapeion di
Alessandria e che distrussero la celebre biblioteca,
uno dei massimi monumenti della cultura antica. Si può
anzi affermare che fu proprio l'opera dei monaci del
deserto, capaci di infiammare e scatenare le folle
cittadine, a fare del cristianesimo una religione
delle masse e a dargli, in tal modo, quella carica di
aggressività e quella intensità di consensi che gli
avrebbe assicurato la vittoria finale. Ma è noto che
le religioni, come le culture, non scompaiono mai del
tutto; larghi elementi della cultura e della religione
pagana penetrarono nel cristianesimo, specie
attraverso il platonismo, tanto da formare con esso un
tutto unico e indistinguibile. Nasceva così, sullo
scorcio del mondo antico, l'Europa cristiana: ma le
sue radici non erano solo giudeo-cristiane, bensì
anche greco-romane, come l'esempio del culto di santa
Demetra - riferito da Mircea Eliade - bene illustra.
Tanto a livello delle persone colte che a livello
della cultura popolare, il paganesimo non è mai morto:
si è semplicemente trasformato.
Appendice: Una vittoria miracolosa
"La battaglia del fiume Frigido durò vari giorni e
sembrò più volte sul punto d risolversi a favore di
Flavio Eugenio. All'improvviso, però, un forte vento
mise in difficoltà l'esercito ribelle e consegnò la
vittoria all'imperatore: un chiaro segno del favore
divino, secodo gli stoirci cristiani che consideravano
la battaglia come uno scontro tra la superstizione e
la vera fede. Ecco come il monaco Rufino (345-410
circa) ricorda l'episodio.
"Per molto tempo la vittoria fu incerta. I barbari che
prestavano il loro servizio nell'esercito romano erano
allo sbando e fuggivano di fronte al nemico. Ciò non
avvenne affinché Teodosio fosse vinto, ma perché non
sembrasse vincere grazi ai barbari.
"Teodosio, quando vide le sue schiere in fuga, in
piedi su un'alta roccia da dove poteva vedere ed
essere visto dai due eserciti, dopo aver posato le
armi, fece ricorso all'aiuto che gli era più familiare
e, inginocchiato davanti a Dio, disse: 'Dio
onnipotente, tu sai che io ho ingaggiato questa
battaglia nel nome di Cristo tuo Figlio, per compiere
una vendetta che ritengo giusta: se non è così
puniscimi. Ma se sono giunto fin qui per una causa
degna di lode e fidando in te, aiuta i tuoi. Fa' che i
popoli non debbano dire: Dov'è il loro Dio?'
"A stento gli empi crederanno a ciò che accadde. Ma è
provato che, appena l'imperatore rivolse a Dio questa
preghiera, si alzò un vento così forte che le frecce
de nemici tornavano su chi le aveva scagliate. Poiché
il vento soffiava senza tregua con grande violenza,
qualsiasi giavellotto lanciato dal nemico andava a
vuoto; e così l'animo de nemici fu spezzato o
piuttosto divinamente respinto. Eugenio fu portato ai
piedi di Teodosio con le mani legate dietro la
schiena. Fu quella la fine della sua vita e della
battaglia. (Rufino, "Storia ecclesiastica".)
Tratto da PALAZZO, M. –BERGESE, M., Clio
Reporter, La Scuola, 2002, vol. 2, p.54.
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