martedì 18 dicembre 2007

Il prezzo indigesto del cibo

Il prezzo indigesto del cibo
La Stampa del 18 dicembre 2007, pag. 19

di Marco Zatterin

C’è stata la rivolta delle / Tortillas in Messico, la protesta della cipol­la in India, ora c'è la Russia che mette i da­zi all'export di pane, grano, formag­gio e olio, mentre l'Italia, nel suo pic­colo, ha vissuto un inedito sciopero della pasta. La micidiale combina­zione dell'aumento dei listini energetici, della domanda galoppante di cibo nelle economie in forte svilup­po e dell'evidente cambiamento cli­matico ha fatto salire il prezzo glo­bale del mais del 30 per cento in un anno; il riso è andato su del 23% mentre burro e latticini si sono ele­vati di almeno 15 punti. In tempi di pace relativa non è mai stato così costoso mettere insieme un pasto decente. Dopo che la crisi finanzia­ria della scorsa estate ha conforta­to chi teneva euro e dollari sotto il materasso, la corsa dei prezzi mondiali dei prodotti alimentari potrebbe persuadere qualcuno a conservare sfilatini, mozzarelle e spaghetti ben chiusi in frigoriferi formato cassaforte.



Per l'occasione gli economisti hanno coniato un neologismo, la chiamano «agflazione», termine or­ribile che implica un aumento dei prezzi scatenato sul fronte agrico­lo. Se ne sentirà parlare per un pez­zo. Del resto la resa incondizionata ai rincari l'ha siglata il settimanale globale «The Economist», sparan­do in copertina una fetta di pane bi­scottato smangiucchiata in coppia con uno sconsolante titolo, «La fine del cibo a basso costo». I dati sono avvilenti. La Fao rivela che i listini alimentari a livello mondiale sono cresciuti nel 2007 del 40 per cento. In Europa la tendenza è più conte­nuta, a novembre il dato segnala un incremento anno del 4,3 per cento, ma ciò non toglie che la stangata sia dolorosa. L'inflazione vola, i tassi se­guiranno. Pessima spirale.


L'Oriente vorace

Che cos'è successo? «Di tutto», rispondono gli economisti. Il progres­so disordinato in Asia, la Cina che corre con un Pii a due cifre e l'India che va appena più piano, hanno ele­vato il livello della domanda di beni primari di popoli che sino a pochi anni fa erano a stecchetto o quasi. Immediato l'effetto sui prezzi. A Pe­chino si scopre che in dodici mesi gli alimentari sono diventati più sa­lati del 17,9 per cento, con punte del 60 per cento per l’amatissimo maia­le, ora più agro che dolce. Da quelle parti le abitudini alimentari sono di­ventate occidentali. Il consumo di carne è salito del 50 per cento ri­spetto agli anni Novanta.



L'estremo Oriente consuma co­me non ha fatto mai. Il boom demo­grafico e la transizione alimentare portano nei negozi un numero stel­lare di clienti. Il prezzo mondiale del mais ha raggiunto il massimo da dieci anni in febbraio, poi è lievemente calato. I listini delle farine si sono impennati del 22 per cento e quelli delle oleagi­nose addirittura del 70 per cento. A novembre il gra­no statunitense (numero 2 al­l'esportazione) era di 332 euro alla tonnellata, il 52% più di un anno pri­ma. L'Europa, che per decenni è sta­ta esportatrice netta di cereali, è ap­pena diventata importatrice netta. Da noi, in novembre, su pane e pasta sono rincarati rispettivamente del 12,1 e del 7,6 per cento.



I raccolti sono quelli che sono. Li rende più gracili il cambiamento cli­matico, le piogge e i tifoni hanno quasi in ginocchio l'Au­stralia la scorsa estate. Il forte au­mento del petrolio ha proiettato al rialzo tutti i prezzi agricoli, sia perché ha spinto all'insù i costi di produzione, sia perché - sopratutto negli Usa - ha allargato l'uti­lizzo delle colture impiegate per i bio­combustibili: la richiesta del diesel verde dovrebbe passare dagli attuali 15 milioni di tonnellate annue a HO milioni nel 2016. La debolezza del dol­laro nei confronti delle principali va­lute planetarie ha in qualche diminui­to l'impatto sulle economie fuori dal­l'universo del bi­glietto verde. L'ef­fetto, si teme, po­trebbe essere limi­tato nel tempo.



Ieri il direttore generale della Fao, Jacques Diouf ha fo­tografato la crisi sui mercati mondia­li. Un dato? Le scorte di mais si sono ristrette in pochi anni del 30 per cen­to. L'autonomia alimentare teorica garantita delle scorte, cioè il tempo che ci sarebbe consentito per man­giare ancora se la produzione si fer­masse di colpo, è sceso da undici a ot­to settimane in sette anni. Fa paura vedere che sono le materie più ele­mentari a essere sotto tiro. Le scorte di cereali sono a 420 milioni di tonnel­late, il livello più basso registrato dal 1983. Nel frattempo le bocche da sfa­mare sul globo terracqueo sono di­ventate oltre sei miliardi.



Se ne uscirà solo a fatica, giurano gli esperti. Il presidente della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet, non ha esitato a mettere in dub­bio la politica agricola comune euro­pea, che negli anni d'oro ha creato de­flazione, mantenendo bassi i prezzi artificialmente, e oggi sollecita «l’agflazione», perché in pochi sono (e so­no stati) interessati a investire sul mercato continentale.



Allo stesso bisogna mettere mano alla manutenzione del pianeta. Deser­tificazione e catastrofi significano mi­nori terreni agricoli. Ma anche le imprese non possono continuare ad au­mentare i margini. Pochi giorni fa un economista raccontava il caso di una nota casa di pasta italiana che ha au­mentato i listini del 10 per cento e in Germania del 40.



Serve un'attitudine diversa e globa­le, rispetto ambien­tale, etica dell'indu­stria, controllo del­la domanda e del­l'offerta. La situa­zione è chiaramente grave, la manna sta finendo anche per i consumatori dei grandi centri urbani. E c'è anche chi prevede scenari di rivolta.


Ai popoli che chiedono pane, or­mai, non si possono offrire più nem­meno i croissant.

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