lunedì 17 dicembre 2007

Com'è pesante questo cotone

Com'è pesante questo cotone
Diario del 7 settembre 2007, pag. 60

di Lucia Ellena

La maglietta azzurra di Alisher è made-in-China. I pantaloni, cotone pesante, elastico in vita, brutta fattura, made-in-Bangladesh. Di made-in-Uzbekistan nemmeno l’ombra. «Raccogliamo tanto cotone - dice Alisher, schiena curva sui piccoli arbusti, la sacca di tela zeppa di pesanti batuffoli - ma va tutto via, qui non ci sono fabbriche, solo la Daewoo». Ha tredici anni il pakhtakor, raccoglitore di cotone, ma è sveglio. «Guarda intorno - commenta amaro - cotone ovunque, ma la maglietta arriva dalla Cina e costa più di una giornata di lavoro». Senza contare i giorni di scuola persi. «Da settembre a novembre siamo qui a raccogliere, è obbligatorio». Il grande mare bianco è pieno di studenti part-time. Tutti a raccogliere cotone, la scuola può attendere.



Parla sottovoce Alisher, poi si ferma, da queste parti non è salutare parlare a lungo con gli stranieri. Mai stato facile in Uzbekistan: prima il controllo sovietico, poi il pugno di ferro del primo (e unico) presidente Islam Karimov fin dall’indipendenza del 1991. Ma dopo «i fatti di Andijan», la valle di Fergana - l’Islamistan dell’Asia centrale all’incrocio tra Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan - è diventata off-limits. Il 13 maggio 2005 la polizia ha represso nel sangue una manifestazione pacifica nel cuore commerciale della valle. L’arresto di 26 persone accusate dal governo di essere estremisti islamici aveva provocato proteste per giorni e quando a centinaia si sono radunati nella piazza centrale è arrivato l’ordine di sparare: 165 i morti secondo fonti ufficiali - etichettati come terroristi - almeno 5oo secondo Human Rights Watch e Amnesty International, e migliaia di rifugiati riversatisi in territorio kirghiso. Da lì a pochi giorni gli effetti delle condanne internazionali: agenzie Onu cacciate, Ong messe al bando, giornalisti stranieri espulsi e locali messi in prigione, gli (ex) alleati americani messi alla porta e la base militare Khanabad (più nota come K2) di Qarshi, cruciale per tenere in vita la macchina bellica in Afghanistan, chiusa. Ma le sanzioni che l’Europa ha imposto all’intellighenzia hanno solo sfiorato la produzione di cotone.



Con tre milioni e mezzo di tonnellate di cotone grezzo raccolte nel 2006 e poco meno di un milione esportate, l’Uzbekistan è il secondo esportatore - e quinto produttore mondiale. Dissolta l’Urss, le ex repubbliche hanno perso l’aiuto di Mosca e le economie hanno cominciato a zoppicare. Prima di Borat e le follie del Turkmenbashi, Kazakistan e Turkmenistan hanno trovato gloria internazionale con gas e petrolio, risorse disponibili anche in Uzbekistan, ma in quantità minori e sulle quali hanno messo le mani i russi di Lukoil e Gazprom. La più popolosa repubblica ex sovietica - 26 milioni controllati dal più organizzato esercito dell’area - estrae poi 70 tonnellate di oro che ne fanno il settimo produttore mondiale.



Ma qui il vero oro è bianco. Raccolto, sgranato ed esportato: solo una minima parte della fibra viene trasformata in loco, i batuffoli finiscono per lo più in Europa sotto forma di t-shirt nei negozi del centro, dopo una tappa in fabbriche dell’Estremo Oriente. «Soprattutto dopo la stretta dell’Occidente per i fatti di Andijan, la Cina è diventata un mercato sempre più importante - chiarisce un giornalista uzbeko a Osh, in Kirghizistan, a pochi chilometri dal confine uzbeko - poco importano i diritti umani, c’è bisogno di materie prime e il cotone di Tashkent è di ottima qualità e costa poco. Punto». L’oro bianco così frutta un miliardo di dollari ogni anno - circa il 45 per cento delle esportazioni - che gonfia le tasche dell’intellighenzia uzbeka, saldamente in mano al presidente.



Il disastro ambientale. L’oro bianco è stato costruito a tavolino. In difficoltà per la guerra civile americana che tagliò i rifornimenti di cotone, gli zar guardarono al cortile dietro casa, le steppe dell’Asia Centrale, per coltivarlo. Stalin - applicato all’economia il motto dividi et impera - lo consolidò. Gli arbusti hanno bisogno di sole e acqua: il primo abbonda nelle lande desertiche, al secondo ci hanno pensato i leader sovietici, da Breznev a Krusciov. Mappe alla mano, Mosca ha disegnato un mastodontico sistema d’irrigazione, ha deviato due grandi - ed epici - fiumi, il Syr Darja e l’Amu Darja, ha costruito una rete di fossi e canali. E mentre prosciugavano il lago Aral, ha innaffiato gli angoli più remoti del Paese, dove contadini kolchoziani poi si spaccavano la schiena per far fiorire i candidi batuffoli. Il gigante d’acqua è ormai morto, fertilizzanti e coltivazione intensiva hanno fatto il resto, indebolendo la terra. Il risultato è uno dei più grandi disastri ecologi del pianeta. Secondo l’Environmental Justice Foundation (Ejf), think-tank basato a Londra, l’Aral è ormai ridotto al 25 per cento della sua estensione - dei 68 mila chilometri quadrati del 196o, oggi rimane una pozzanghera di poco più di 17 mila. L’enorme pesce che ti accoglie entrando a Moynaq, principale città del Karakalpakstan, la remota regione settentrionale del Paese, solletica un sorriso amaro.



Principale porto del grande mare salato, oggi il villaggio dove vento e polvere ricordano un triste film western giace a oltre 150 chilometri dalla costa malata. Non ci sono più pesci, l’ecosistema indigeno si è prosciugato con le sue acque e migliaia di persone la cui vita era legata alla pesca sono ormai rifugiati ecologici che sopravvivono grazie ai sussidi. E dal passato il governo non ha imparato a gestire ciò che rimane dell’Aral: fonte essenziale per il 56 per cento del fabbisogno d’acqua - in gran parte utilizzata per irrigare il circa

milione e mezzo di ettari coltivati a cotone - in realtà il 6o per cento si perde per la strada a causa di una rete d’irrigazione a pezzi e piena di buchi. In un territorio immenso e assetato secondo l’Ejfè proprio l’acqua la ragione principale di tensioni sotterranee tra i Paesi dell’area. Gli effetti economici ed ecologici diretti sugli abitanti del Karakalpakstan sono stati devastanti. La disoccupazione tocca il 70 per cento, mentre la salute della popolazione è in continuo peggioramento causa povertà, pesticidi e residui salini, mancanza di acqua potabile pulita. Ogni anno gli abitanti della regione sono esposti a qualcosa come 43 milioni di tonnellate di sale e pesticidi spostati dal vento da ciò che rimane del letto del grande mare salato. In alcune aree intorno all’Aral il 50 per cento dei decessi è dovuto a complicazioni respiratorie; secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) il Karakalpakstan ha la più alta incidenza di tumore all’esofago del mondo.



Sfiorita l’Unione Sovietica, il cotone ha continuato a sbocciare e la campagna pubblicitaria del governo non si è fermata: monumenti soviet agitprop decorano le immense strade vuote che tagliano il Paese, a glorificare oro bianco, contadini, raccoglitori. Il cotone è un dovere nazionale, orgoglio del nazionalismo uzbeko che ha sostituito nella propaganda il collettivismo sovietico. La televisione di Stato celebra un sorridente presidente nelle campagne: Rahmat pakhtakor! Grazie, raccoglitori di cotone! Tabriklayman! Congratulazioni! Nelle campagne pakh takor sorridenti se ne trovano pochi. «La paga è tra i 40 e i 50 sum (due centesimi - il pane costa i 6o sum, ndr) per ogni chilo che raccolgo - dice Alisher - di buona lena arrivo a 15 chili al giorno, per 6oo sum (36 centesimi)». Il giorno comincia alle 8, finisce alle S. «In genere ci raduniamo di fronte alla scuola poi andiamo a raccogliere il cotone, l’insegnante viene con noi. Ogni anno a migliaia vengono dirottati nei campi: undici, dodici anni, ma nelle zone più remote anche bambini di sette, otto anni, alti appena quanto gli arbusti. Spesso lavorano lontano dalle famiglie, dormono in strutture rudimentali, senza luce, servizi e acqua corrente. Sfruttamento, spesso schiavitù di fatto. Non per tutti: se paghi, la scampi - fino a 120 mila sum altrimenti si rischia anche l’espulsione, come Andrei, ventenne di Samarcanda sopravvissuto alla purga un po’ naturale, un po’ indotta dei russi nel Paese dove Tamerlano ha preso il posto di Lenín come padre della patria. Per l’lnternational Crisis Group il cotone è la causa di stagnazione economica, degrado ambientale e sfruttamento minorile. Un panorama valido per tutta l’Asia centrale, ma l’Uzbekistan rappresenta la summa peggiore per la presenza dell’Aral, il pugno di ferro di Karimov e la posizione leader nel comparto. Il think-tank di Bruxelles ha denunciato un sistema che condanna i contadini a lavorare per un salario da fame. Tutto a mano. «Oggi la raccolta è al 90 per cento fatta a mano, mentre sotto l’Urss era poco più del So», spiega nel suo ufficio a Tashkent, costantemente sotto controllo, Vasila Iyatova, direttrice di Erzulik, associazione per la difesa dei diritti umani. «Questo garantisce una qualità migliore rispetto alla raccolta a macchina che, comunque non avviene perché l’economia allo stremo non per- mette il ricambio dei macchinari. A raccogliere sono soprattutto donne e ragazzi, passano mesi sui campi, perdono lezioni scolastiche, si ammalano, a volte muoiono». Un sistema brutale che ha spinto l’associazione, da sempre concentrata su violazioni dei diritti umani legate a opinioni politiche, a monitorare il raccolto. «L’hakim (governatore provinciale) dà ordini precisi alle scuole: solo istruzioni a voce, nulla per iscritto», precisa Bahodir Hidirov, attivista che si occupa di assistenza legale ai contadini a Qarshi. In Uzbekistan il lavoro per i minori di 15 anni è proibito dalla Costituzione, ma intanto il Paese non ratifica la Convenzione internazionale contro il lavoro minorile. I contadini non stanno certo meglio non esistendo la proprietà privata, la terra viene data in affitto per periodi variabili, ma può essere arbitrariamente tolta dalla cooperativa locale (shirkat) o dall’hakim.



«Ci hanno detto che l’Urss è morta. Non qui», dice amaro Bahodir. Il vecchio apparatik si è solo rifatto il trucco, i kolchoz ora si chiamano shirkat ma sono la stessa cosa». Fino al 2001 è rimasto in piedi il vecchio meccanismo sovietico «goszakaz», secondo il quale lo Stato fissava il prezzo e comprava tutto il cotone prodotto nel Paese. Quando nel 2002 il Fondo monetario internazionale ha premuto per una liberalizzazione del mercato, il governo ha sperimentato l’acquisto del cotone secondo le tariffe internazionali, meno il costo della sgranatura e del trasporto. II prezzo è salito a circa zoo dollari a tonnellata per il prodotto grezzo e 56o dollari per quello sgranato, ma i contadini non se ne sono accorti perché intanto la tassa sui terreni in affitto era stata triplicata e loro si sono trovati con ancora meno liquidi. Per il Free Peasant Party - Fpp, partito solo nel nome visto che la registrazione continua a essere rifiutata - la riforma agraria è essenziale. «Se la terra venisse ridistribuita ai contadini », spiega Mubinjon Hidirov, membro del Fpp - si diversificherebbero le coltivazioni, la terra tornerebbe a produrre di più e meglio».



«A ogni provincia, ogni shirkat ogni contadino è assegnata una quota di produzione», spiega Alisher Ilkhamov, già rappresentante della Open Society a Tashkent, ora in esilio a Londra. «Se si teme di non raggiungerla, chiunque viene portato nei campi, bambini, studenti, ma anche medici, professori. La pressione è forte anche sugli hakim, se la produzione è scarsa, la loro è la prima testa a saltare».



Una commissione stabilisce cosa e quanto deve coltivare ciascun contadino - di solito il rapporto è 70 per cento cotone, 30 per cento il resto, quasi sempre grano, entrambi «prodotti di interesse nazionale». Il raccolto viene poi portato alle shirkat ma passano mesi prima che gli agricoltori ricevano i pagamenti. Che arrivano al netto delle «spese».



Il direttore di una cooperativa spiega, infatti, che tutti i pagamenti vengono fatti attraverso la banca nazionale che trattiene le spese, come quelle per fertilizzanti e carburante dati al contadino. «Che praticamente non vede mai denaro contante, se non quello che sborsa per pagare i raccoglitori», continua Andrea Berg rappresentante di Hrw a Tashkent. «La macchina burocratica del governo locale e della banca centrale controlla tutto». Indebitarsi è facile; se un contadino non riesce a produrre la quota assegnatagli risulta in debito con lo Stato: dopo un anno di sacrifici, deve pure pagare.



Ufficialmente l’85 per cento del cotone viene venduto alla controllata statale Uzpakhtasanoat - responsabile della sgranatura - che lo vende poi a compagnie di import-export, quasi sempre controllate da funzionari statali o da uomini d’affari vicini all’intellighenzia. L’intero sistema di compra-vendita è nebuloso, in genere l’acquisto viene formalizzato in qualche ufficio governativo, e capire dove vadano a finire i soldi significa entrare in una palude dove si perdono le tracce.



La conseguenza immediata del meccanismo è stato il contrabbando, soprattutto verso il vicino Kirghizistan. «Qui i contadini riescono a vendere anche a cinque volte di più di quanto ricevono in Uzbekistan - spiega Alisher Saipov, rappresentante di ferghana.ru a Osh - 50-60 centesimi al chilo contro i 3-4 centesimi, sono pagati subito e in contanti». Aravan, villaggio tra le montagne al confine, è uno dei punti di maggior passaggio. «I controlli sono aumentati ma molti cercano di comprare i poliziotti». L’esperienza sovietica ha insegnato a contraffare i documenti, quello che si riesce a salvare dalla vendita obbligata allo stato, finisce in Kirghizistan o in Kazakistan.


Il ritorno del fanatismo. Raccolti i suoi 15 chili quotidiani, Alisher si ferma alla più vicina moschea, una delle 2.500 nella valle, circa la metà di tutto il Paese. L’islam imbottigliato da settant’anni di ateismo sovietico è riesploso con l’indipendenza: minareti sono apparsi come funghi, muezzin hanno riesumato l’invito alla preghiera, moschee hanno riaperto le porte a una fede solo addormentata. Il timore della rinascita religiosa è diventato per molti osservatori stranieri strumento di repressione politica per Karimov. Nel nuovo regime non c’è posto per un’opposizione: partiti islamici moderati come Erk (Indipendenza) o Birlik (Unità) (ri)nati dopo il 1981 sono stati soffocati, ogni elemento religioso è stato soppresso, i dirigenti arrestati. Il pugno di ferro ha favorito l’islam radicale di gruppi come Hizb ut-Tahrir, il Partito della Liberazione vicino al «talebanismo» afgano che ha firmato gli attentati di Tashkent del 1999. La radicalizzazione è stata strumentalizzata da autorità e tribunali che accusano di estremismo qualsiasi espressione islamica al di fuori del Consiglio musulmano, istituito dal governo per controllare dall’interno l’islam, unica fonte di opposizione seria a Karimov. Il suo Partito democratico ha un alleato ufficiale, il Liberal-democratico, e uno di opposizione nominale, il Democratico-popolare messo in piedi con le élite di Samarcanda e Jizzax per dare una parvenza di pluralismo. Nel post 11 settembre l’Uzbekistan è diventato alleato fondamentale per la lotta al terrorismo, Karimov è stato il maestro di cerimonie che ha aperto le porte dell’Asia centrale a Washington. Ma Andijan ha aperto il vaso di Pandora di massicce violazioni dei diritti umani, di un popolo in estrema povertà, di un uso della tortura definito dall’Onu «sistematico». Lo scorso novembre l’annuale rapporto dell’agenzia Onu per lo sviluppo ha posto l’Uzbekistan al 133° posto (su 177 paesi) per aspettativa di vita, salari e accesso a servizi come l’istruzione - un risultato non riportato dai media uzbeki. La strage del maggio 2005 ha rimesso in discussione i termini dei rapporti con Europa e Stati Uniti, riavvicinando Tashkent a Mosca dopo anni di freddo vicinato. L’Unione europea ha rinnovato lo scorso novembre sanzioni sull’ingresso in territorio Ue di personalità governative chiave e gli Usa hanno tagliato gli aiuti finanziari al Paese. Le ripercussioni sono state dure sul fronte economico. La legislazione fiscale è stata modificata nell’estate del 2oo5, cancellando i benefici accordati alle compagnie straniere che investivano nel Paese - dove già avevano uno spazio limitato di movimento perché tenute a legarsi a un partner uzbeko. Da un giorno all’altro i tribunali hanno chiesto il pagamento retroattivo di tasse prima non dovute e non sono state rinnovate le licenze di società minerarie come la britannica Oxus Gold o l’americana Newmont Mining Corporation. Ma tra legalità fragile, proprietà della terra incerta e diritti democratici cancellati, Andijan appare forte nella secolare fede islamica, sullo sfondo dei suo morbido mare bianco.

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