mercoledì 19 dicembre 2007

La sete del boom cinese sta uccidendo il Mekong

La sete del boom cinese sta uccidendo il Mekong
La Stampa del 19 luglio 2007, pag. 19

di Francesco Sisci

Circa 90 milioni di persone dipendono dal fiume Mekong per il cibo e per l’economia della regione nella quale vivono. Il loro futuro è ora nelle mani di chi gestisce tre giganteschi rubinetti, che imprigionano a monte l’acqua del fiume: le dighe di Manwan e Dachaoshan, e la terza in costruzione a Xiaowan, in Cina, hanno completamente cambiato la vita di uno dei corsi d’acqua più lunghi del mondo (4.000 chilometri) , creando una seria minaccia per pescatori e contadini dei Paesi a valle, Myanmar, Thailandia, Laos, Vietnam e Cambogia. Durante la stagione delle piogge, i pescatori gettavano le reti nel fiume, abbondante di pesci. Durante la stagione secca, riponevano le reti e coltivavano le rive libere dalle acque. Un sistema adottato per millenni, che ora rischia di scomparire a causa dei mutamenti climatici e della sete di energia del colosso cinese.



I primi segnali d’allarme vennero già alla prima diga, completata undici anni fa a Manwan: il pescato del Mekong diminuiva. Gli abitanti dei Paesi a valle sostenevano che circa il 35% degli elementi nutritivi del fiume venivano bloccati a monte, nella diga cinese. Per i cinesi invece la colpa era semplicemente della pesca non regolata, che aveva portato allo sterminio della fauna ittica. I flutti, un tempo ampli e tumultuosi, raccontati con paura e orrore con la motonave che risale il fiume nel film «Apocalypse now», sembrano oggi a volte semplici distillati della potenza antica. Una parte del vecchio alveo è secco per lunghi mesi dell’anno anche a causa dei monsoni, che non portano la pioggia abbondante di una volta. Le dighe non miglioreranno sicuramente la situazione, e anzi genereranno a loro volta mutamenti climatici dovuti ai nuovi grandi invasi d’acqua creati artificialmente.



Per la Cina la questione è semplice. La crescita super accelerata della sua econo­mia ha bisogno di energia elettrica, che non sporca, co­me il carbone, e non dipende dall'estero, come il petrolio. L'idroelettrico è perciò idea­le. E di energia in Cina c'è una sete insaziabile. Questa esta­te negli uffici è stato imposto un limite all'uso dell'aria con­dizionata, non sotto i 24 gra­di, e d'inverno nelle case non si potevano tenere i termosi­foni sopra i 16 gradi. Il che si­gnifica caldo d'estate e fred­do d'inverno, con in più un re­cente bizzarro regolamento del comune di Pechino che li­mita il consumo complessivo di elettricità a 2.000 watt «per volta». Inoltre, le dighe e lo sbancamento dei tratti di rapide sul fiume, hanno allar­gato il Mekong al traffico fluvia­le, e hanno portato i trasporti su acqua fino al confine con la Cina. In questo modo, le provin­ce interne cinesi dello Yunnan e del Guangxi possono traspor­tare le loro merci sul fiume. La Cina spiega che i benefici eco­nomici complessivi di questi traffici sono molto superiori a quelli della pesca, fingendo di ignorare i danni all'ecosiste­ma di interi Paesi e il disastro che si annuncia per la Cambo­gia, la cui economia dipende di più dal fiume.



La battaglia per le acque del Mekong è una delle tante che sono in corso lungo i grandi fiu­mi della Terra, come il Nilo. L'Uganda costruirà una diga al­le fonti sul lago Vittoria; inge­gneri cinesi sono al lavoro in Etiopia per costruire la diga Tekeze, e in Sudan, dove il Nilo Bianco e quello Azzurro si con­giungono, si sta costruendo la diga Merowe. Molti dei grandi fiumi sono gestiti da comitati internazionali composti dai Pa­esi interessati al loro corso, ma il tempo della diplomazia e de­gli accordi per condividere le ri­sorse naturali sembra finito. Il controllo dell'acqua diventerà probabilmente una causa di conflitti che vedranno i paesi a valle rivendicare i loro dirit­ti su quelli a monte. Anche per il Mekong esisteva una com­missione internazionale, ai cui lavori i cinesi per anni non hanno partecipato, e non è chiaro nemmeno se oggi ne facciano ancora parte.

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