domenica 23 dicembre 2007

I costi del global warming (e chi è pronto a pagarli)

I costi del global warming (e chi è pronto a pagarli)
Il Riformista del 27 febbraio 2007, pag. 3

di Fiorella Kostoris

In queste settimane si sono moltiplicati i segna­li di un risveglio planetario della consapevolezza dei danni climatici provocati dall'attività umana. Ne sono testimoni non tanto il recente Rapporto Onu dell'International Panel for Climatic Change (Ipcc), che rinnova e rafforza il passato grido di al­larme, quanto soprattutto il dibattito che investe Paesi finora insensibili, dalla Cina, dove 20 giorni fa il governo ha annunciato di essere in procinto di pubblicare il suo primo piano nazionale contro il global warming, agli Stati Uniti, dove l'amministra­zione Bush finalmente ha mostrato alcune apertu­re circa la necessità di ridurre i consumi petroliferi e l'effetto serra, grazie anche all'apprezzamento generale riscontrato dal film del democratico Al Gore, che proprio ieri ha ricevuto l'Oscar del mi­glior documentario dell'anno. In Eu­ropa, il 20 febbraio, i 27 ministri del­l'Ambiente hanno raggiunto l'accor­do unanime di andare "oltre Kyoto", impegnandosi unilateralmente ad ab­battere del 20% le emissioni di gas ser­ra rispetto al 1990 e indicando il propo­sito di rivedere a breve gli schemi di di­stribuzione tra Paesi dei permessi di inquinamento vendibili sul mercato: nell'Unione, le necessità sono differenziate fra i partner centro-orientali, con forti bisogni e possibi­lità di crescita, e quelli occidentali più maturi, non­ché fra quelli, come la Francia, che conta per l'80% sull'energia nucleare e quelli come la Polonia, che dipende quasi interamente dal carbone per gene­rare elettricità. Nel suo programma di tagli del 20% nel fabbisogno energetico, l'Italia ha coinvol­to un manager quale Pasquale Pistorio, che rappre­senta la prova di quanto siano convenienti alle stes­se aziende investimenti in processi e tecnologie, volti ad ottenere risparmi energetici e conseguentemente eco-profitti. Una filosofia, questa, ben lon­tana da quell'antìconsumismo a cui parevano ispi­rarsi alcuni dei primi ecologisti. Attualmente nelle stesse multinazionali della finanza, da Goldman Sachs a Barclays Capital, sono numerose le analisi che esprimono la necessità di incrementare la po­tenza energetica, contraendo però la dipendenza dagli idrocarburi attraver­so innovazioni e progresso tecnico. John Llewellyn di Lehman Brothers ha appena concluso un rapporto in cui scrive che «in un mondo tendente a mutare per ragioni climatiche, prospe­reranno quelle imprese che per prime ne coglieranno l'importanza e l'inelut­tabilità, quelle che sapranno prevede­re almeno alcune delle implicazioni, quelle che sa­ranno capaci di assumere in anticipo rispetto alle concorrenti decisioni appropriate». Così, per au­mentare i propri profitti, le imprese leader diver­rebbero, più ancora dei governi, interessate a risol­vere i problemi ambientali. Ma il mutato orienta­mento dei responsabili della politica economica e dei maggiori produttori nei mercati non sarebbe sufficiente ad imprimere una decisa svolta nelle azioni a difesa dell'ambiente, se le persone stesse, i consumatoli, i lavoratori non fossero anch'essi pronti a cambiare. Come ha puntualizzato il presi­dente Napolitano, di fronte al global warming , «è necessaria... una triplice rivoluzione delle coscien­ze, dell'economia e dell'azione politica».



Tutti e tre questi agenti, le famiglie, le impre­se, i policy-makers, stanno mutando orientamento per due ordini di motivi. Per un verso, è ormai dif­fusa la consapevolezza che il cambiamento clima­tico globale in questi anni è in fase di progressiva accelerazione, perché, come ha spiegato Pecoraro Scanio, le ondate di calore, le precipitazioni inten­se e alluvionali delle medie e alte latitudini insie­me ai prolungati periodi di siccità nelle medie e basse latitudini diverranno sempre più frequenti; nel 2100 il livello del mare salirà fra i 28 e i 43 cm, ma se si innescheranno possibili fenomeni non li­neari destabilizzanti, addirittura si innalzerà successivamente di 7 metri, con il collassamento dei ghiacciai della Groenlandia e della penisola An­tartica, e con la scomparsa estiva della calotta po­lare Artica. Per un altro verso, la preferenza tem­porale degli individui, come delle imprese e degli Stati, non è infinita e non è immutabile, bensì reagisce a queste informazioni ambientali.



In generale, tre aspetti rilevanti della pre­ferenza temporale aiutano a comprendere l'atteggiamento oggi cangiante dell'opinione pubblica circa le conseguenze drammatiche del riscaldamento globale.



(I) La preferenza temporale chiarisce perché i fenomeni che si appaleseranno fra molti anni con­tino poco. Ad esempio, se la preferenza temporale è mediamente del 20% nell'arco della vita di un in­dividuo, ovvero egli è indifferente tra 100 euro correnti e 120 differiti di un anno, una qualunque, an­che grandissima, perdita - poniamo di 120.000 euro - che si verificasse tra 100 anni, gli apparirebbe oggi di entità quasi nulla, non solo perché il valore attuale va scontato per ben un secolo, ma anche perché il saggio di preferen­za temporale da usare per tale sconto sale enormemente (ben al di là del 20%), in relazione ad eventi che acca­dono post mortem: se il tasso divenisse 1000 volte più forte di quello adottato mediamen­te nel corso della vita, oggi il valore di quella perdi­ta si aggirerebbe sui 5 euro. Da questo punto di vi­sta, molte cose cambiano in presenza di una proba­bile accelerazione dei fenomeni climatici, la quale induce a ritenere che gli effetti devastanti sono po­tenzialmente più vicini di quanto finora non pen­sassimo e non riguardano più solo i nostri eredi.



(II) A causa delle non linearità dei fenomeni climatici, inoltre, il danno possibile rischia di rivelarsi molto maggiore di quello finora stimato: se la perdita fosse, anziché di 120.000 euro, di un valore 10 miliardi di volte superiore sempre tra 100 anni, pur con una preferenza temporale innalzata dal fatto che il caso si presenterà quando tutta la ge­nerazione vivente sarà scomparsa, oggi essa si va­luterebbe attualmente a circa 50 miliardi di euro, dunque più di qualunque Finanziaria realizzata in Italia negli ultimi 15 anni. In aggiunta, quanto maggiore è il malessere atteso futuro, tanto più si è portati facilmente a rinunciare a qualcosa di pre­sente per attenuarlo, tanto più si abbassa la prefe­renza temporale, il che comporta che il futuro va­da scontato ad un tasso minore di quello pesante testé utilizzato.


(III) Infine, quanto superiore è il li­vello del benessere attuale, tanto meno è costosa ogni rinuncia corrente. Nei Paesi dove si muore di fame, la priorità è sopravvivere hic et rame e il tasso di preferenza temporale è quasi infinito. Nazioni che crescono in fretta, come la Cina, tendono a porsi problemi am­bientali che prima apparivano come lussi inarriva­bili. Sotto questi aspetti, è normale che l'Europa sia un leader nel mondo. Anormalmente miope, inve­ce, è l'amministrazione Bush, come dimostra il fat­to che l'America del suo predecessore Clinton aveva sottoscritto il Protocollo di Kyoto, venendo poi sconfessata dal neo-presidente repubblicano.

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