mercoledì 19 dicembre 2007

La malora degli schiavi dell'etanolo

La malora degli schiavi dell'etanolo
La Stampa.it del 6 luglio 2007

di Emiliano Guanella
Turni di 14 ore consecutive al giorno tagliando tonnellate di canna da zucchero sotto un sole cocente. Un salario sulla carta decente ma che veniva decurtato dalle trattenute in busta paga per il vitto, l’alloggio, il trasporto e persino per l’affitto degli attrezzi indispensabili per poter lavorare come il machete, i guanti e le protezioni di gomma per braccia e gambe.

Più di mille lavoratori in condizioni di schiavitù sono stati liberati in una grande piantagione destinata alla produzione di bioetanolo nello stato brasiliano del Parà, in Amazzonia. La società proprietaria dei campi, la Pagrisa, ha negato le accuse spiegando che tutti i dipendenti avevano un regolare contratto di lavoro. Gli ispettori hanno fotografato gli alloggi dove dormivano, in capannoni con materassini sistemati uno accanto all'altro e con scarse condizioni igieniche. Come schiavi ma senza catene.

È la più grande operazione di questo tipo realizzata negli ultimi anni, la punta dell'iceberg di un universo sommerso in uno dei settori economici chiavi per il gigante sudamericano. Con 17 miliardi di litri all’anno il Brasile è il principale produttore mondiale del biocombustibile derivato dalla canna da zucchero. Il presidente Lula da Silva non perde occasione per pubblicizzare il prodotto. Negli ultimi mesi si è fatto fotografare assieme a George Bush in una fabbrica d'etanolo della Petrobras, ha stretto accordi con il Giappone, la Germania, l'Italia, ne ha parlato anche alla recente riunione dei G8. Un combustibile sicuro, ha spiegato, rinnovabile e più economico rispetto al petrolio.

L’interesse mondiale è cresciuto al punto che grandi investitori come George Soros hanno già comprato campi e raffinerie nelle sterminate pianure brasiliane. Ma il boom dell’etanolo presenta almeno due punti oscuri. Il primo riguarda per l’appunto le condizioni di lavoro dei cortadores, i tagliatori della canna. Se nello stato di San Paolo, dove si concentra gran parte della produzione, le imprese operano con standard quasi sempre accettabili, turni di otto ore, assistenza medica, nessuna spesa extra, altrove il panorama è diverso. I tagliatori vengono reclutati soprattutto nel poverissimo Nordest e si fanno centinaia di chilometri di viaggio con la promessa di un lavoro stagionale con cui poter mantenere a distanza le loro famiglie. Il governo brasiliano, sotto pressione da una campagna di sensibilizzazione internazionale già in atto, ha avviato una serie di controlli a tappeto ma il fenomeno sembra difficile da estirpare. I nuovi schiavi sarebbero almeno cinquantamila ed è difficile scovarli anche a causa della complicità tra i funzionari locali e grandi proprietari terrieri.

Ma le obiezioni sul biocombustibile crescono anche dal punto di vista ambientale. Ad iniziare dalla pratica diffusa di bruciare i campi la notte precedente alla raccolta per rendere meno dura la canna da tagliare. Gli incendi fanno aumentare le emissioni di anidride carbonica compensando in negativo la pubblicizzata riduzione dei gas che causano l’effetto serra. Più politica la critica mossa da Fidel Castro secondo cui l'aumento delle coltivazioni di canna da zucchero farà crescere la fame nei paesi poveri. Tesi sostenuta anche dal relatore delle Nazioni Unite per l’Alimentazione Jean Ziegler che ha fatto l’esempio di alcune zone rurali del Messico, dove il prezzo del mais è aumentato del 16% a causa della minore offerta disponibile per la riduzione dei campi coltivati. Ricercatori dell'Università di Stanford hanno messo in guardia sul livello di ozono causato dai combustibili a etanolo, risultato più elevato di quello provocato dalle auto a benzina comune. Punti a sfavore che, forse ancor di più dei nuovi schiavi in Amazzonia, possono minare il progetto brasiliano di essere entro il 2020 il leader di un grande mercato mondiale di etanolo da duecento miliardi litri all'anno.

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