mercoledì 19 dicembre 2007

Clima, verità e speranza nella morsa di media e politica

Clima, verità e speranza nella morsa di media e politica
Repubblica.it del 19 dicembre 2007

di Valerio Gualerzi

Fosse stato un Nobel per la fisica o la medicina, non sarebbe potuto accadere. Non avrebbero mai potuto essere premiati insieme due scienziati che dicono cose diverse tra loro. Il Nobel per la pace invece è tutta un'altra storia e nessuno si è meravigliato che il riconoscimento sia andato contemporaneamente ad Al Gore e all'Ipcc. Eppure l'ex vicepresidente statunitense e il comitato scientifico messo insieme dall'Onu per studiare i cambiamenti climatici affermano cose molto differenti.

Le iperboli dei premier. A sottolineare la contraddizione è stato recentemente David Henderson, ex economista capo dell'Ocse, in un articolo pubblicato sull'ultimo numero di Limes. Henderson se la prende in particolare con tutti quei leader politici che come Gore hanno alzato eccessivamente i toni nel grido di allarme per i cambiamenti climatici. Si va da Tony Blair, che nel 2006 afferma "abbiamo solo 10-15 anni per adottare le misure necessarie per scongiurare la catastrofe", a Nicolas Sarkozy che nel maggio scorso, poco prima di insediarsi all'Eliseo, dichiara: "Ad essere in gioco è il destino stesso dell'umanità".

Dichiarazioni davanti alle quali Henderson scuote la testa: "Non è ai rapporti dell'Ipcc che queste affermazioni si rifanno, si tratta, in realtà, di audaci estrapolazioni, con una forte connotazione congetturale. Esse sono però in sintonia con il pensiero di buona parte dell'opinione pubblica".

"Minaccia seria, ma non è la fine del mondo". Un'osservazione che Vincenzo Artale, fisico oceanografo dell'Enea e uno dei pochi climatologi italiani presenti nell'Ipcc, sottoscrive. "Il riscaldamento globale - dice - è un problema serio, che rischia di innescare in futuro dinamiche molto pericolose, ma parlare di civiltà umana sull'orlo dell'estinzione e di rischi per la sopravvivenza del genere umano, come sento dire da più parti, al momento è assolutamente prematuro. Bisogna intraprendere tutte le strade indicate dall'Ipcc per contrastare i cambiamenti climatici, anche perché si tratta di provvedimenti dalle molteplici ricadute positive su ambiente, occupazione, democrazia, distensione internazionale. Inoltre dobbiamo finanziare più generosamente la ricerca scientifica per capire sempre meglio come funziona il clima e anticiparne l'evoluzione. Parlare di catastrofe imminente non solo è fuorviante, ma non fa bene alla causa di chi vuole davvero cambiare il corso delle cose".

La deriva del "climate porn". L'Ippr (Institute for Public Policy Research), una fondazione britannica di orientamento laburista, si è spinta ancora più in la, utilizzando addirittura il termine climate porn, pornografia climatica, non per negare l'esistenza del problema, ma per denunciare l'esagerato catastrofismo dei media. Ma allora come si è arrivati a questo punto, come è stato possibile che un severo e circostanziato allarme lanciato da un migliaio di scienziati si sia trasformato in qualcosa di molto diverso? Le risposte possibili sono diverse e riguardano tutti gli attori interessati dalla vicenda: mondo scientifico, mass media, politica e movimento ambientalista, anche se in pochi sono disposti a riconoscere le proprie responsabilità.

L'autodifesa della scienza. Sul mondo accademico pesa ad esempio il sospetto di aver contribuito all'equivoco cercando di bucare con i toni iperallarmisti il muro di omertà che ha circondato a lungo le problematiche del riscaldamento globale e ottenere così più fondi per la ricerca. Artale però non è d'accordo. "In Italia questa colpa la scienza sicuramente non ce l'ha, per il semplice fatto che è mancato l'oggetto del contendere: non ci sono fondi per il clima, tranne quelli del Piano Nazionale del 2000, che certo sono stati distribuiti non in base agli strilli catastrofisti. Ma credo che questo non sia accaduto neppure all'estero". Lo scienziato italiano gira quindi la palla ai mass media. "Il dibattito - denuncia - soprattutto in Italia dovrebbe essere portato su livelli più tecnici a non a quelli da soap opera a cui stiamo assistendo".


Il futuro rubato dalla tv. Un problema che Antonio Scurati, scrittore e docente di Teorie e tecniche del linguaggio televisivo all'Università di Bergamo, ha posto al centro di un articolo comparso ad ottobre su Internazionale. "Spesso - ha scritto - si sente dire che l'umanità non ha più un futuro perché ha perso la capacità di immaginarselo. Viviamo con lo sguardo a terra, schiacciato sul presente, indifferenti al passato e all'avvenire. Forse è vero. È vero perché il nostro futuro appartiene ai signori dei media e a quelli della guerra, che l'hanno già immaginato per noi. È vero non perché il futuro non accadrà, ma perché, qualunque esso sia, sarà già accaduto. E tutto ciò che potrà avvenire in questo tempo che ha smesso di muoversi in avanti sarà la guerra o la catastrofe".

L'allarme che produce inerzia. A ispirare l'editoriale erano i venti gelidi che soffiavano sulla crisi con l'Iran, ma Scurati è convinto che la dinamica sia la stessa per quanto riguarda la crisi ambientale. "Il moltiplicarsi di scenari catastrofici - spiega - fanno sì che ogni previsione finisca per essere messa sullo stesso piano. C'è un invalidamento preventivo che ci consente di pre digerire il problema, impedendo una risposta e un'assunzione di responsabilità. Questa disposizione a premediare un ipotetico futuro, senza necessariamente arrivare alla teoria del complotto, induce l'opinione pubblica a passività e fatalismo. Un atteggiamento che oggettivamente avvantaggia chi ha un interesse fortissimo a non intervenire, come gli Stati Uniti. L'allarme produce inerzia anziché azione, è paradossale ma è così".

La tentazione catastrofista. E sempre restando nel campo del paradossale, è possibile che a contribuire a questa situazione siano stati anche gli ambientalisti, attraverso il facile ricorso, soprattutto in passato, a toni catastrofisti? Ermete Realacci, uno dei leader storici dell'ecologismo italiano, la pensa diversamente. "Il ricorso a toni apocalittici - risponde - è stata una tentazione presente nella crescita dell'ambientalismo, ma non è un atteggiamento efficace e io non vi ho mai fatto ricorso. Credo che il catastrofismo di oggi abbia altre origini".

Tanto rumore per nulla. Realacci, che oggi è nel vertice del Partito democratico, punta quindi il dito contro la politica. "Con l'innalzamento dei toni si cerca soprattutto di coprire l'inadeguatezza della risposta politica. In Italia poi, dove figure di primissimo piano come Berlusconi hanno assunto a lungo posizioni negazioniste, il problema è ancora più serio. Abbiamo una politica che oscilla tra proclami alti e un'azione scarsa, come quest'ultima legge finanziaria che non è certo segnata da un'adeguata tensione sul contrasto ai cambiamenti climatici".

Il futuro che non si vede. Il catastrofismo come un rumore di fondo che mette quasi completamente a tacere qualsiasi spunto per l'ottimismo. E in questo caso la scienza, da possibile carnefice si trasforma in vittima, con il suo potenziale di speranza ridotto nel migliore dei casi a fare da contorno marginale. Se il riscaldamento globale è una minaccia gravissima a benessere, salute e stabilità, la scienza ha appena imboccato due strade come bioingegneria e nanotecnologie che promettono potenzialità enormi per trovare soluzioni alle nuove sfide.

La scienza che fa paura. Eppure di questo potenziale positivo nel dibattito non c'è quasi traccia e spesso i progressi della ricerca vengono vissuti come ulteriori motivi di angoscia. "E' vero, prevalgono i toni apocalittici", dice Enrico Bellone, docente di Storia della scienza all'Università di Milano e direttore del mensile Le Scienze. "Sui grandi canali di comunicazione - aggiunge - è più facile la vita per le notizie a fortissime tinte, rispetto alle informazioni e ai dati di matrice scientifica. Sul piano delle notizie rende di più, in un paese scientificamente denutrito come il nostro, parlare con enfasi sui pericoli (immaginari) connessi agli Ogm". Un atteggiamento, prosegue Bellone, "che ha le proprie radici nell'evoluzione della cultura italiana durante l'ultimo secolo, che ha sempre più spiccatamente visto, nella razionalità scientifica, non una forma di cultura, ma una miscela di servizi pratici e di paure".
(1 - continua)

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