domenica 23 dicembre 2007

Gli Usa non sentono il caldo

il manifesto del 15 Dicembre 2007
La Conferenza di Bali è finita, ma le conclusioni non ci sono ancora. Il mondo è in attesa
Gli Usa non sentono il caldo
Davide Fugger

Come nel dicembre 1997 a Kyoto, come ogni volta, l'ora di chiusura di un vertice non arriva mai. Così anche a Bali, in Indonesia dove, alla Conferenza mondiale sul riscaldamento climatico, il documento e i discorsi finali sono continuamente rinviati. I punti caldi - a Bali è ormai estate e fa caldo davvero - sono le emissioni da ridurre e la causa umana del riscaldamento da accettare. Gli Stati uniti non vogliono ammettere di avere avuto torto per i dieci anni precedenti e di averlo ancora. Così essi non vorrebbero partecipare ai tagli, del 25-40%, sulle emissioni del 1990, da realizzare entro il 2020, proposti dagli europei. Non vogliono neppure che il documento finale faccia menzione degli scenari disegnati dall'Ipcc, e delle sue raccomandazioni per mitigare le conseguenze del riscaldamento globale causato «molto probabilmente» dalle attività umane. L'Ipcc è il Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici, messo in piedi dalle Nazioni unite; ha ricevuto il premio Nobel insieme ad Al Gore ed è considerato il depositario della scienza e della coscienza mondiale in tema di gas serra.
Gli Usa sono disposti a una riduzione a carattere volontario, utilizzando innovazioni che introducano forme di risparmio nelle emissioni e che potrebbero essere realizzate tramite il sostegno pubblico alla ricerca delle università e delle imprese. In altre parole, la loro amministrazione, a meno di un anno dalle elezioni presidenziali, vorrebbe stringere alleanze con il big business difendendone i comportamenti e gli interessi e facendo balenare un possibile spazio per le energie rinnovabili, il risparmio, un'edilizia meno dispersiva, conciliando gli interessi dell'ambiente con quelli dell'industria dell'auto, del petrolio, della chimica.
I paesi dell'Unione europea sono compatti nel tenere la posizione, anche se alcuni appaiono più ottimisti di altri. Il ministro tedesco dell'Ambiente, Sigmar Gabriel, è, al momento della chiusura, la voce più importante ed è il meglio disposto tra tutti i ministri. «Tutte le parti mostrano la volontà di essere flessibili, per cercare un compromesso». E poi prosegue, affabile, il ministro tedesco: «la situazione è buona, il clima della conferenza sul clima è buono. Alla fine ce la faremo, anche se non so quando arriverà questa benedetta fine».
Il collega italiano di Gabriel, Alfonso Pecoraro Scanio, lancia messaggi molto più pessimisti:« si profila un riusultato deludente, almeno finora, molto al di sotto delle necessità». E aggiunge che Al Gore ha ragione, quando dice di lasciar perdere gli Usa e andare avanti lo stesso, «ma è una provocazione che non si può cogliere». Altri verdi, venuti a Bali, suggeriscono all'Europa di mettere sanzioni agli Usa, non partecipando alla riunione convocata dal presidente Bush per fine gennaio alle Hawaii.
C'è un gioco di diplomazie: da una parte Cina e India sembrano disposte a sostenere una propria riduzione di emissioni per il 2050, se gli altri, i paesi ricchi, adempiranno ai propri obblighi per il 2020. La Russia che pure ha apportato la firma decisiva al protocollo di Kyoto, sembra ora propensa a fare qualche passo indietro in tema di riscaldamento globale, appoggiando in sostanza la posizione degli Usa.
Un tentativo di conciliazione tra le posizioni lontane spetta di solito al paese ospite che non intende essere ricordato per un fallimento. Così l'Indonesia propone un testo privo di obiettivi precisi, ma con l'accettazione generale che l'effetto serra esiste e deve essere stabilizzato nel corso del decennio. Spetta poi alle nazioni più ricche di fare la maggior parte dello sforzo per raggiungere il risultato. Come si vede, un accordo al ribasso.
Intanto il riscaldamento globale si dà da fare. La tempesta Olga, assai insolita data la stagione, ha colpito con piogge devastanti i Caraibi: vi sono decine di morti.

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