Liberazione 30.11.07
Scienza, troppo business abbassa la qualità della ricerca
di Luca Tancredi Barone
"Etica, conoscenza scientifica, comunicazione", un convegno di due giorni che si conclude oggi a Roma, organizzato dalla Fondazione diritti genetici di Mario Capanna. Tra gli ospiti, Marcello Cini, Elena Gagliasso, Ermanno Bencivenga
L'intreccio fra mercato, scienza, informazione, etica si fa sempre più soffocante e la società della conoscenza a cui punta l'Europa più lungimirante per battere economicamente la crescita dei colossi asiatici dovrà farci i conti ogni giorno di più. L'era della scienza pura, disinteressata, di tutti e programmaticamente scettica è finita da un pezzo per lasciare spazio al business, ai diritti di proprietà intellettuale, agli uffici stampa più aggressivi e seducenti, alla ricerca commissionata dal finanziatore di turno. Soprattutto nel campo della ricerca biomedica, che costituisce la quasi totalità della ricerca scientifica che incontriamo ogni giorno.
Il tema "scienza e società" è caro alla Fondazione Diritti genetici che sta dedicando il suo quarto congresso a "etica, conoscenza scientifica, comunicazione" in una due giorni a Villa Piccolomini a Roma (dalle 9 alle 17, con reading finale sul mondo della sofisticazione alimentare).
Mario Capanna, che ieri ha aperto i lavori, si è scagliato contro quelli che lui ha definito gli scienziati "profittuali", quelli cioè che «millantano certezze incrollabili» per compiacere i loro finanziatori. E in particolare, in Italia, contro Umberto Veronesi per la sua propaganda non disinteressata a favore degli organismi geneticamente modificati. Perché - si è chiesto Capanna - se 3 europei su 4 sono contro gli ogm e in dieci anni l'ingegneria genetica è riuscita a modificare solo 4 varietà vegetali commerciabili, e quasi sempre solo con un gene per la tolleranza agli erbicidi, ci si ostina a volerli imporre in Europa?
E visto che la ricerca scientifica si è fatta merce come tutte le altre - niente scandalo, basta saperlo: sia gli scienziati, sia i cittadini - il problema, dice Capanna, non è solo di incrementare il finanziamento pubblico alla ricerca. Ma anche migliorare il controllo democratico sul suo impiego e rendere i ricercatori più consapevoli eticamente.
Il problema però non è solo quello, ormai noto, del conflitto di interessi dei ricercatori che si trovano invischiati, spesso anche in buona fede, in una rete di aspettative di chi paga la loro ricerca, i loro laboratori, le loro borse di studio e che li spingono a interpretare i risultati più benevolmente di quanto non dovrebbero. Spesso gli stessi ricercatori non ne sono consapevoli: benché il 70% delle ricerche mediche pubblicate siano finanziate dalle case farmaceutiche, e ben un terzo degli autori più importanti abbia degli interessi economici nella propria ricerca, solo poco più dell'1% dei ricercatori dichiara di esserne influenzato.
Ma il fatto più grave, come ha efficacemente sottolineato l'ex direttore del British Medical Journal (una di quelle che i giornalisti definiscono "prestigiose" riviste mediche) Richard Smith, è che è la qualità della ricerca a essere troppo spesso scadente. La stragrande maggioranza delle ricerche biomediche pubblicate ormai non risponde a criteri di validità scientifica e clinica. E quel che è peggio, è lo stesso meccanismo della peer review (il giudizio anonimo di altri ricercatori), su cui si basano il metodo scientifico e le riviste scientifiche, a non funzionare più efficacemente. Spesso, ha raccontato Smith, i revisori non si accorgono degli errori presenti nelle ricerche. In uno studio recente, a 300 revisori è stato sottoposto un testo di 600 parole contenente 8 errori: nessuno è stato in grado di individuarne più di cinque, e un quinto addirittura non ne ha riconosciuto nemmeno uno. Per non parlare del fatto che ormai le riviste scientifiche pubblicano soprattutto i risultati più sexy, come si dice, cioè quelli che quasi sicuramente andranno sui giornali a scapito di quelli scientificamente più robusti ma meno appealing.
La soluzione? Le riviste scientifiche open access, come Plos (Public Library of Science), accessibili e condivisibili on line gratuitamente per tutti (oggi Smith lavora per Plos). Ed è proprio Plos che sta sperimentando nuove forme di peer review: l'ultima nata, Plos One, lascia che la revisione degli articoli venga fatta dai lettori, altri scienziati, che si qualificano e commentano l'articolo scientifico in un vero e proprio blog pubblico, in pieno spirito web 2.0.
«È giusto sperimentare un po' queste forme alternative al copyright delle riviste, che ti chiedono di cedere loro i diritti e poi rivendono su web il tuo articolo a 40 dollari», ci spiega la filosofa e giurista Mariachiara Tallacchini, presente al congresso. «Ma il fatto è che gli autori esitano a usare l'open access: temono di mettere a repentaglio il requisito della novità per il brevetto, da cui ormai non si può più prescindere». E non basta: «bisogna imparare a integrare anche i saperi esperienziali nella scienza "accademica", come è stato sottolineato nel dibattito. Talvolta un contadino di Aleppo può conoscere meglio dello scienziato la modalità di coltivazione migliore di certi semi».
Il tema che ha toccato Tallacchini nel suo intervento è stato quello dell'etica, «che viene utilizzata - spiega - in maniera surrettizia per fare una specie di outsourcing dei valori: anziché basarsi sulle vere fonti del diritto - come le leggi, la costituzione, i trattati internazionali, i parlamenti - in Europa la tendenza è stata negli ultimi anni quella di delegare le decisioni eticamente sensibili a commissioni che dipendono dal potere esecutivo. In questo modo si evitano le presunte lungaggini del diritto, ma si legittimano delle etiche di stato, delle etiche su commissione dei governi e non dei cittadini». Ieri sono stati fatti esempi di cattiva scienza diventata norma a proposito degli ogm in Europa (ma basta pensare anche alla legge 40 in Italia). «Una volta che diventa norma, non si può più parlare in termini di "cattiva scienza": non se ne può più discutere, ma si maneggia come uno strumento giuridico. Ecco perché è fondamentale definire dei meccanismi di trasparenza per la scienza che entra nelle decisioni pubbliche: chi sono gli scienziati che siedono nelle commissioni, che interessi hanno, su quali ricerche si basano le decisioni che diventano poi leggi».
Scienza, troppo business abbassa la qualità della ricerca
di Luca Tancredi Barone
"Etica, conoscenza scientifica, comunicazione", un convegno di due giorni che si conclude oggi a Roma, organizzato dalla Fondazione diritti genetici di Mario Capanna. Tra gli ospiti, Marcello Cini, Elena Gagliasso, Ermanno Bencivenga
L'intreccio fra mercato, scienza, informazione, etica si fa sempre più soffocante e la società della conoscenza a cui punta l'Europa più lungimirante per battere economicamente la crescita dei colossi asiatici dovrà farci i conti ogni giorno di più. L'era della scienza pura, disinteressata, di tutti e programmaticamente scettica è finita da un pezzo per lasciare spazio al business, ai diritti di proprietà intellettuale, agli uffici stampa più aggressivi e seducenti, alla ricerca commissionata dal finanziatore di turno. Soprattutto nel campo della ricerca biomedica, che costituisce la quasi totalità della ricerca scientifica che incontriamo ogni giorno.
Il tema "scienza e società" è caro alla Fondazione Diritti genetici che sta dedicando il suo quarto congresso a "etica, conoscenza scientifica, comunicazione" in una due giorni a Villa Piccolomini a Roma (dalle 9 alle 17, con reading finale sul mondo della sofisticazione alimentare).
Mario Capanna, che ieri ha aperto i lavori, si è scagliato contro quelli che lui ha definito gli scienziati "profittuali", quelli cioè che «millantano certezze incrollabili» per compiacere i loro finanziatori. E in particolare, in Italia, contro Umberto Veronesi per la sua propaganda non disinteressata a favore degli organismi geneticamente modificati. Perché - si è chiesto Capanna - se 3 europei su 4 sono contro gli ogm e in dieci anni l'ingegneria genetica è riuscita a modificare solo 4 varietà vegetali commerciabili, e quasi sempre solo con un gene per la tolleranza agli erbicidi, ci si ostina a volerli imporre in Europa?
E visto che la ricerca scientifica si è fatta merce come tutte le altre - niente scandalo, basta saperlo: sia gli scienziati, sia i cittadini - il problema, dice Capanna, non è solo di incrementare il finanziamento pubblico alla ricerca. Ma anche migliorare il controllo democratico sul suo impiego e rendere i ricercatori più consapevoli eticamente.
Il problema però non è solo quello, ormai noto, del conflitto di interessi dei ricercatori che si trovano invischiati, spesso anche in buona fede, in una rete di aspettative di chi paga la loro ricerca, i loro laboratori, le loro borse di studio e che li spingono a interpretare i risultati più benevolmente di quanto non dovrebbero. Spesso gli stessi ricercatori non ne sono consapevoli: benché il 70% delle ricerche mediche pubblicate siano finanziate dalle case farmaceutiche, e ben un terzo degli autori più importanti abbia degli interessi economici nella propria ricerca, solo poco più dell'1% dei ricercatori dichiara di esserne influenzato.
Ma il fatto più grave, come ha efficacemente sottolineato l'ex direttore del British Medical Journal (una di quelle che i giornalisti definiscono "prestigiose" riviste mediche) Richard Smith, è che è la qualità della ricerca a essere troppo spesso scadente. La stragrande maggioranza delle ricerche biomediche pubblicate ormai non risponde a criteri di validità scientifica e clinica. E quel che è peggio, è lo stesso meccanismo della peer review (il giudizio anonimo di altri ricercatori), su cui si basano il metodo scientifico e le riviste scientifiche, a non funzionare più efficacemente. Spesso, ha raccontato Smith, i revisori non si accorgono degli errori presenti nelle ricerche. In uno studio recente, a 300 revisori è stato sottoposto un testo di 600 parole contenente 8 errori: nessuno è stato in grado di individuarne più di cinque, e un quinto addirittura non ne ha riconosciuto nemmeno uno. Per non parlare del fatto che ormai le riviste scientifiche pubblicano soprattutto i risultati più sexy, come si dice, cioè quelli che quasi sicuramente andranno sui giornali a scapito di quelli scientificamente più robusti ma meno appealing.
La soluzione? Le riviste scientifiche open access, come Plos (Public Library of Science), accessibili e condivisibili on line gratuitamente per tutti (oggi Smith lavora per Plos). Ed è proprio Plos che sta sperimentando nuove forme di peer review: l'ultima nata, Plos One, lascia che la revisione degli articoli venga fatta dai lettori, altri scienziati, che si qualificano e commentano l'articolo scientifico in un vero e proprio blog pubblico, in pieno spirito web 2.0.
«È giusto sperimentare un po' queste forme alternative al copyright delle riviste, che ti chiedono di cedere loro i diritti e poi rivendono su web il tuo articolo a 40 dollari», ci spiega la filosofa e giurista Mariachiara Tallacchini, presente al congresso. «Ma il fatto è che gli autori esitano a usare l'open access: temono di mettere a repentaglio il requisito della novità per il brevetto, da cui ormai non si può più prescindere». E non basta: «bisogna imparare a integrare anche i saperi esperienziali nella scienza "accademica", come è stato sottolineato nel dibattito. Talvolta un contadino di Aleppo può conoscere meglio dello scienziato la modalità di coltivazione migliore di certi semi».
Il tema che ha toccato Tallacchini nel suo intervento è stato quello dell'etica, «che viene utilizzata - spiega - in maniera surrettizia per fare una specie di outsourcing dei valori: anziché basarsi sulle vere fonti del diritto - come le leggi, la costituzione, i trattati internazionali, i parlamenti - in Europa la tendenza è stata negli ultimi anni quella di delegare le decisioni eticamente sensibili a commissioni che dipendono dal potere esecutivo. In questo modo si evitano le presunte lungaggini del diritto, ma si legittimano delle etiche di stato, delle etiche su commissione dei governi e non dei cittadini». Ieri sono stati fatti esempi di cattiva scienza diventata norma a proposito degli ogm in Europa (ma basta pensare anche alla legge 40 in Italia). «Una volta che diventa norma, non si può più parlare in termini di "cattiva scienza": non se ne può più discutere, ma si maneggia come uno strumento giuridico. Ecco perché è fondamentale definire dei meccanismi di trasparenza per la scienza che entra nelle decisioni pubbliche: chi sono gli scienziati che siedono nelle commissioni, che interessi hanno, su quali ricerche si basano le decisioni che diventano poi leggi».
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