Ignoti caduti dell’uranio impoverito
La Stampa del 9 novembre 2007, pag. 34
di Mimmo Cándito
Poco più di un anno fa mi è stato diagnosticato un tumore, «molto probabilmente» per una contaminazione da uranio impoverito subita in Iraq forse, o in Afghanistan, o in Somalia o in un altro dannato posto di guerra. Sono storie spesso taciute, ma reali e diffuse. Il ministro della Difesa Parisi ha detto ieri a «Radio anch’io» che il governo è «determinato a sostenere ogni azione d’indagine... Se individuassimo anche un solo caso come riconducibile a fatti che sono nell’ambito della nostra responsabilità, dovremmo intervenire». Parlava di «qualche decina» di soldati italiani morti e di «qualche centinaio che al momento risultano affetti da patologie tumorali» forse dovute all’uranio impoverito.
S’era cominciato nei primi Anni 90, al tempo della guerra lanciata dall’Onu contro Saddam per scacciarlo dal Kuwait. Dice Ramsey Clark, ex-ministro della Giustizia, che gli aerei americani «in quel mese e mezzo letteralmente ricoprirono l’Iraq di polvere d’uranio»: vennero sparati 940 mila proiettili «speciali», una montagna d’uranio impoverito secondo un rapporto Nato, quasi 300 tonnellate. Da quel 16 ottobre ’91, primo giorno di guerra, Arthur Bernlau, direttore della Veterans for Constitutional Law Society, dice che a morire d’uranio impoverito sono stati 11.000 soldati americani. Ne muoiono ancora oggi. E per i soldati italiani, l’Anavafaf, l’associazione che tutela le vittime in uniforme, dice per bocca di Falco Accame che «il trattamento ufficiale del problema dell’uranio impoverito è indecente, abbiamo avuto morti e malati di tumore nella guerra del Golfo, nel ’91, poi in Somalia nel ’93, poi in Bosnia nel ’94». Il portavoce dell’Osservatorio militare cita un documento della Sanità militare, dove si enumerano «2536 casi di affezione da patologie tumorali, di cui 146 hanno portato al decesso».
L’uranio impoverito è un argomento molto difficile da far uscire dai recessi delle inchieste militari riservate. Il suo uso appare oggi prezioso agli alti comandi operativi: è il materiale con il più alto peso specifico, e dunque la sua capacità di penetrazione sotto qualsiasi difesa, o qualsiasi corazza, non ha possibilità alcuna di comparazione con tutti gli altri metalli che diventano bombe o proiettili. Ma nell’atto dell’esplosione questi proiettili «speciali» irradiano polveri sottili altamente contaminanti, e chiunque ne venga a contatto, o ne inali i residui, pare destinato ad accrescere di molto la probabilità di un’affezione tumorale, del morbo di Hodkin, della leucemia. La cornice di segreto attorno a questa storia amara è legata al dubbio (ancora non è certezza scientifica) della relazione causa-effetto tra contatto e malattia.
Undicimila soldati americani sono morti di tumore solo per quella guerra ormai lontana. Altri soldati (americani e no) sono morti di tumore nelle altre guerre che ne sono seguite. Poi ci sono i soldati contaminati e tuttavia ancora (per quanto?) vivi, e magari c’è anche qualcuno - un soldato, un reporter - che ha potuto scamparla con un danno relativamente accettabile. Sì, è la guerra. Ma, delle decine di migliaia di civili senza nome, senza divisa, senza storia, che in quei territori contaminati, in Iraq, in Afghanistan, nel Kosovo o in Bosnia o in Somalia, ha continuato a vivere inconsapevole la propria quotidianità, della loro sorte, dei loro tumori, chi mai si è interessato? Chi ha cercato di raccontarne la cronaca, le sofferenze, la fine tragica? Il reporter ha un giornale per scriverne, i soldati hanno le associazioni che li tutelano; ma quegli iracheni, quegli afghani, quei bosniaci o kosovari senza nome né uniforme, dove mai troveranno una voce che venga fuori dalla loro storia finita per sempre e dia certezza di chi davvero li ha ammazzati?
La Stampa del 9 novembre 2007, pag. 34
di Mimmo Cándito
Poco più di un anno fa mi è stato diagnosticato un tumore, «molto probabilmente» per una contaminazione da uranio impoverito subita in Iraq forse, o in Afghanistan, o in Somalia o in un altro dannato posto di guerra. Sono storie spesso taciute, ma reali e diffuse. Il ministro della Difesa Parisi ha detto ieri a «Radio anch’io» che il governo è «determinato a sostenere ogni azione d’indagine... Se individuassimo anche un solo caso come riconducibile a fatti che sono nell’ambito della nostra responsabilità, dovremmo intervenire». Parlava di «qualche decina» di soldati italiani morti e di «qualche centinaio che al momento risultano affetti da patologie tumorali» forse dovute all’uranio impoverito.
S’era cominciato nei primi Anni 90, al tempo della guerra lanciata dall’Onu contro Saddam per scacciarlo dal Kuwait. Dice Ramsey Clark, ex-ministro della Giustizia, che gli aerei americani «in quel mese e mezzo letteralmente ricoprirono l’Iraq di polvere d’uranio»: vennero sparati 940 mila proiettili «speciali», una montagna d’uranio impoverito secondo un rapporto Nato, quasi 300 tonnellate. Da quel 16 ottobre ’91, primo giorno di guerra, Arthur Bernlau, direttore della Veterans for Constitutional Law Society, dice che a morire d’uranio impoverito sono stati 11.000 soldati americani. Ne muoiono ancora oggi. E per i soldati italiani, l’Anavafaf, l’associazione che tutela le vittime in uniforme, dice per bocca di Falco Accame che «il trattamento ufficiale del problema dell’uranio impoverito è indecente, abbiamo avuto morti e malati di tumore nella guerra del Golfo, nel ’91, poi in Somalia nel ’93, poi in Bosnia nel ’94». Il portavoce dell’Osservatorio militare cita un documento della Sanità militare, dove si enumerano «2536 casi di affezione da patologie tumorali, di cui 146 hanno portato al decesso».
L’uranio impoverito è un argomento molto difficile da far uscire dai recessi delle inchieste militari riservate. Il suo uso appare oggi prezioso agli alti comandi operativi: è il materiale con il più alto peso specifico, e dunque la sua capacità di penetrazione sotto qualsiasi difesa, o qualsiasi corazza, non ha possibilità alcuna di comparazione con tutti gli altri metalli che diventano bombe o proiettili. Ma nell’atto dell’esplosione questi proiettili «speciali» irradiano polveri sottili altamente contaminanti, e chiunque ne venga a contatto, o ne inali i residui, pare destinato ad accrescere di molto la probabilità di un’affezione tumorale, del morbo di Hodkin, della leucemia. La cornice di segreto attorno a questa storia amara è legata al dubbio (ancora non è certezza scientifica) della relazione causa-effetto tra contatto e malattia.
Undicimila soldati americani sono morti di tumore solo per quella guerra ormai lontana. Altri soldati (americani e no) sono morti di tumore nelle altre guerre che ne sono seguite. Poi ci sono i soldati contaminati e tuttavia ancora (per quanto?) vivi, e magari c’è anche qualcuno - un soldato, un reporter - che ha potuto scamparla con un danno relativamente accettabile. Sì, è la guerra. Ma, delle decine di migliaia di civili senza nome, senza divisa, senza storia, che in quei territori contaminati, in Iraq, in Afghanistan, nel Kosovo o in Bosnia o in Somalia, ha continuato a vivere inconsapevole la propria quotidianità, della loro sorte, dei loro tumori, chi mai si è interessato? Chi ha cercato di raccontarne la cronaca, le sofferenze, la fine tragica? Il reporter ha un giornale per scriverne, i soldati hanno le associazioni che li tutelano; ma quegli iracheni, quegli afghani, quei bosniaci o kosovari senza nome né uniforme, dove mai troveranno una voce che venga fuori dalla loro storia finita per sempre e dia certezza di chi davvero li ha ammazzati?
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