13 Marzo 2005 LA STAMPA
VITE DI SCARTO», IL NUOVO SAGGIO DEL SOCIOLOGO POLACCO
di Giovanna Zucconi
Di questo articolo, come pure del libro di Zygmunt Bauman che ne è l'argomento, esiste già una sintesi magistrale (e micidiale). L'ha fatta, involontariamente, quel genio fulmineo di Altan. In una delle ultime vignette sull'Espresso, fa dire a una delle sue donnine torpide e ciniche: «Il progresso umano è come la digestione, prima o poi dà i suoi frutti».
Voilà, ecco servita l'immagine tremenda dell'umanità come gigantesco apparato fisiologico, che al termine dei suoi sforzi produce ciò che sappiamo e che non è elegante nominare: rifiuti, deiezioni.
È precisamente la diagnosi, sia del progresso umano sia dei suoi frutti disgustosi, argomentata dal sociologo polacco Bauman nel suo ultimo libro, Vite di scarto (Laterza, 174 pagine, e15). Con una puntualizzazione: quei rifiuti siamo noi. Scarti umani, noi tutti. Qui non si parla di oggetti, di materiali, di residui di produzione, di scialo consumista, bensì di esseri umani che, per le leggi della modernità, trovano un'unica metafora che riassuma la loro condizione: la discarica.
Sul filo di un ragionamento implacabile, Bauman riassembla riflessioni già compiute nei suoi precedenti saggi, da Amore liquido a La società sotto assedio a Modernità liquida. E lo fa con la spietatezza visionaria dei grandi vecchi che hanno tutto visto e vissuto: lui ha ottant'anni, nel '39 fuggì in Unione Sovietica per scampare alle persecuzioni naziste contro gli ebrei, poi cacciato da Varsavia fuggì ancora ma verso Occidente, e da un trentennio insegna all'Università di Leeds. La condizione del profugo, del rifugiato, è la chiave esistenziale nella costruzione della sua allegoria scatologica sulle sorti, né magnifiche né progressive, dell'umanità.
Riassumiamo. Qualunque produzione genera scarti, e quindi il problema della loro eliminazione. Ma oggi c'è dell'altro: «La mente moderna è nata insieme all'idea che il mondo si possa cambiare», dunque modernità significa rifiuto: rifiuto del mondo come è stato, e decisione di cambiarlo. Sul piano della creazione artistica, la modernità è riassunta nella celebre frase di Michelangelo: «basta prendere un blocco di marmo e togliere tutto il superfluo», creare significa eliminare ciò che è di troppo. Sul piano dell'economia, ogni progresso tecnico ha sempre causato espulsioni dalle linee di produzione: inutili, via via, i piccoli coltivatori, i minatori, la classe operaia... Problemi locali che trovavano però soluzioni globali.
Sul pianeta, dice Bauman, c'è sempre stato spazio per ricollocare la popolazione in eccesso, e proprio questa è stata la spinta del colonialismo. Proletari della Comune di Parigi trasportati in Algeria, galeotti spediti in Australia, europei alla conquista delle nuove frontiere americane (nel film Le invasioni barbariche del canadese Denys Arcand, il protagonista in punto di morte ricorda come il genocidio maggiore non fu la seconda guerra mondiale, ma la conquista delle Americhe, con 150 milioni di indigeni trucidati).
Ora però, dice Bauman, il mondo è saturo. Non in termini numerici: se l'intera popolazione cinese e indiana si trasferisse negli Stati Uniti, la densità non sarebbe superiore a quella dell'Inghilterra o del Belgio. Il mondo è saturo, in senso più profondo, perché la modernità non è più un privilegio, è invece la condizione universale del genere umano. «La produzione di rifiuti umani prosegue senza posa e tocca nuove vette, il pianeta resta rapidamente a corto di discariche e di strumenti per il riciclaggio dei rifiuti».
Da un lato, quindi, le migrazioni vanno in senso opposto rispetto all'epoca coloniale: dai paesi poveri arrivano a intasare il mondo ricco divenuto discarica dei rifiuti umani del pianeta, e creano a loro volta scarti psicologici micidiali come la paura dell'immigrato e l'insicurezza di massa.
Dall'altro lato, in tutto il mondo è cambiata la condizione degli espulsi dalla produzione. I quali non sono più «disoccupati» (termine che indica una sospensione temporanea) bensì «esuberi», cioè per sempre inutili perché non producono e soprattutto perché non consumano.
«La destinazione ai rifiuti diviene il potenziale destino di tutti», è un effetto della flessibilità del lavoro, del precariato dilagante, della fine del welfare. Viene da pensare che i recenti inni all'ozio e alla pigrizia (il troppo acclamato Buongiorno pigrizia. Come sopravvivere in azienda lavorando il meno possibile di Corinne Maier, Bompiani, oppure L'ozio come stile di vita di Tom Hodgkinson, Rizzoli) altro non siano se non il tentativo di dare una sverniciatura positiva al dramma globale dei superflui, degli inattivi forzati.
Zygmunt Bauman analizza e tritura tutti gli aspetti della modernità «liquida», così la chiama. Spiega che le nuove generazioni, proprio perché crescono nel precariato e nell'esubero sempre imminente, provano un disagio sconosciuto alle generazioni precedenti: questa è l'epoca delle «passioni tristi», secondo la fortunata formula dei francesi Schmit e Benasayag (il loro libro è uscito da Feltrinelli).
Accumula dati e illuminazioni sulla natura usa-e-getta del lavoro (nella Silicon Valley la durata media dell'impiego è otto mesi), dell'informazione (Internet come discarica di scorie informative in eccesso), dei rapporti sentimentali (lo speed dating, i messaggini), dell'intrattenimento televisivo.
Accumula, Bauman: come in una discarica. È questa l'immagine decisiva. Pensate a una discarica, a una qualunque discarica. Affascina perché è un ammasso casuale di oggetti eterogenei, carcasse di frigorifero, una bambola senza braccia, un materasso sventrato, barili di olii esausti, un bidet mozzato, bucce di pasti altrui, resti di vite altrui... A suo modo, la discarica è un melting pot perfetto, tutto si mescola, tutti si mescolano. E tutti sono ugualmente scarti.
VITE DI SCARTO», IL NUOVO SAGGIO DEL SOCIOLOGO POLACCO
di Giovanna Zucconi
Di questo articolo, come pure del libro di Zygmunt Bauman che ne è l'argomento, esiste già una sintesi magistrale (e micidiale). L'ha fatta, involontariamente, quel genio fulmineo di Altan. In una delle ultime vignette sull'Espresso, fa dire a una delle sue donnine torpide e ciniche: «Il progresso umano è come la digestione, prima o poi dà i suoi frutti».
Voilà, ecco servita l'immagine tremenda dell'umanità come gigantesco apparato fisiologico, che al termine dei suoi sforzi produce ciò che sappiamo e che non è elegante nominare: rifiuti, deiezioni.
È precisamente la diagnosi, sia del progresso umano sia dei suoi frutti disgustosi, argomentata dal sociologo polacco Bauman nel suo ultimo libro, Vite di scarto (Laterza, 174 pagine, e15). Con una puntualizzazione: quei rifiuti siamo noi. Scarti umani, noi tutti. Qui non si parla di oggetti, di materiali, di residui di produzione, di scialo consumista, bensì di esseri umani che, per le leggi della modernità, trovano un'unica metafora che riassuma la loro condizione: la discarica.
Sul filo di un ragionamento implacabile, Bauman riassembla riflessioni già compiute nei suoi precedenti saggi, da Amore liquido a La società sotto assedio a Modernità liquida. E lo fa con la spietatezza visionaria dei grandi vecchi che hanno tutto visto e vissuto: lui ha ottant'anni, nel '39 fuggì in Unione Sovietica per scampare alle persecuzioni naziste contro gli ebrei, poi cacciato da Varsavia fuggì ancora ma verso Occidente, e da un trentennio insegna all'Università di Leeds. La condizione del profugo, del rifugiato, è la chiave esistenziale nella costruzione della sua allegoria scatologica sulle sorti, né magnifiche né progressive, dell'umanità.
Riassumiamo. Qualunque produzione genera scarti, e quindi il problema della loro eliminazione. Ma oggi c'è dell'altro: «La mente moderna è nata insieme all'idea che il mondo si possa cambiare», dunque modernità significa rifiuto: rifiuto del mondo come è stato, e decisione di cambiarlo. Sul piano della creazione artistica, la modernità è riassunta nella celebre frase di Michelangelo: «basta prendere un blocco di marmo e togliere tutto il superfluo», creare significa eliminare ciò che è di troppo. Sul piano dell'economia, ogni progresso tecnico ha sempre causato espulsioni dalle linee di produzione: inutili, via via, i piccoli coltivatori, i minatori, la classe operaia... Problemi locali che trovavano però soluzioni globali.
Sul pianeta, dice Bauman, c'è sempre stato spazio per ricollocare la popolazione in eccesso, e proprio questa è stata la spinta del colonialismo. Proletari della Comune di Parigi trasportati in Algeria, galeotti spediti in Australia, europei alla conquista delle nuove frontiere americane (nel film Le invasioni barbariche del canadese Denys Arcand, il protagonista in punto di morte ricorda come il genocidio maggiore non fu la seconda guerra mondiale, ma la conquista delle Americhe, con 150 milioni di indigeni trucidati).
Ora però, dice Bauman, il mondo è saturo. Non in termini numerici: se l'intera popolazione cinese e indiana si trasferisse negli Stati Uniti, la densità non sarebbe superiore a quella dell'Inghilterra o del Belgio. Il mondo è saturo, in senso più profondo, perché la modernità non è più un privilegio, è invece la condizione universale del genere umano. «La produzione di rifiuti umani prosegue senza posa e tocca nuove vette, il pianeta resta rapidamente a corto di discariche e di strumenti per il riciclaggio dei rifiuti».
Da un lato, quindi, le migrazioni vanno in senso opposto rispetto all'epoca coloniale: dai paesi poveri arrivano a intasare il mondo ricco divenuto discarica dei rifiuti umani del pianeta, e creano a loro volta scarti psicologici micidiali come la paura dell'immigrato e l'insicurezza di massa.
Dall'altro lato, in tutto il mondo è cambiata la condizione degli espulsi dalla produzione. I quali non sono più «disoccupati» (termine che indica una sospensione temporanea) bensì «esuberi», cioè per sempre inutili perché non producono e soprattutto perché non consumano.
«La destinazione ai rifiuti diviene il potenziale destino di tutti», è un effetto della flessibilità del lavoro, del precariato dilagante, della fine del welfare. Viene da pensare che i recenti inni all'ozio e alla pigrizia (il troppo acclamato Buongiorno pigrizia. Come sopravvivere in azienda lavorando il meno possibile di Corinne Maier, Bompiani, oppure L'ozio come stile di vita di Tom Hodgkinson, Rizzoli) altro non siano se non il tentativo di dare una sverniciatura positiva al dramma globale dei superflui, degli inattivi forzati.
Zygmunt Bauman analizza e tritura tutti gli aspetti della modernità «liquida», così la chiama. Spiega che le nuove generazioni, proprio perché crescono nel precariato e nell'esubero sempre imminente, provano un disagio sconosciuto alle generazioni precedenti: questa è l'epoca delle «passioni tristi», secondo la fortunata formula dei francesi Schmit e Benasayag (il loro libro è uscito da Feltrinelli).
Accumula dati e illuminazioni sulla natura usa-e-getta del lavoro (nella Silicon Valley la durata media dell'impiego è otto mesi), dell'informazione (Internet come discarica di scorie informative in eccesso), dei rapporti sentimentali (lo speed dating, i messaggini), dell'intrattenimento televisivo.
Accumula, Bauman: come in una discarica. È questa l'immagine decisiva. Pensate a una discarica, a una qualunque discarica. Affascina perché è un ammasso casuale di oggetti eterogenei, carcasse di frigorifero, una bambola senza braccia, un materasso sventrato, barili di olii esausti, un bidet mozzato, bucce di pasti altrui, resti di vite altrui... A suo modo, la discarica è un melting pot perfetto, tutto si mescola, tutti si mescolano. E tutti sono ugualmente scarti.
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